Visitare i malati
di Enzo Bianchi
Tra tutte le azioni di misericordia corporale, quella di visitare i malati appare la più attestata nella storia del cristianesimo, anche perché tutte le altre azioni solitamente sono rivolte a corpi di uomini e donne che non fanno parte della propria famiglia, mentre visitare, curare e assistere i malati è un’azione che prima o poi tocca a ognuno di noi, almeno nei confronti di quelli legati a noi da parentela o con i quali viviamo. Tuttavia visitare i malati resta un’azione difficile, faticosa, sovente oggi tralasciata per molte ragioni che sembrano esonerarci dalla concreta azione, corpo a corpo, nei loro confronti.
Il processo di una crescente medicalizzazione, l’organizzazione settoriale della medicina e lo sviluppo scientifico hanno progressivamente sottratto il malato ai “suoi”, così che, di fatto, tutti noi siamo obbligati ad affidarne ad altri la cura. Ivan Illich, attraverso paradossi sempre intelligenti, affermava che il cristianesimo diventò debole quando la comunità cristiana delegò la cura dei malati agli ospizi, la cura dei pellegrini e degli stranieri alle foresterie. Perché una volta affidata ad alcuni la cura dei malati, se è pur vero che si apre una via alla specializzazione e a una maggiore competenza, d’altro lato non si pratica più quel servizio concreto che il malato richiede. Oggi tutti noi possiamo constatarlo: la vita si è fatta complessa, i ritmi di lavoro accelerati e non c’è più tempo per fare visita ai malti in ospedale oppure soli a casa. Abbiamo mille scuse per diradare queste visite, sempre brevi, anche – diciamo – per esigenze dell’organizzazione medica.
Nessuno, d’altra parte, può smentire la lettura del cristianesimo come religione della carità, soprattutto verso poveri, malati, bisognosi, orfani. La testimonianza della vita religiosa diaconale lungo i secoli è eloquente, in forme sempre nuove e inedite: dalla “Basiliade”, la cittadella organizzata da Basilio a Cesarea per accogliere i bisognosi, agli ordini ospedalieri del Medioevo, alla sedi della “Piccola casa della divina provvidenza” del Cottolengo, alle case di madre Teresa di Calcutta…
Ma chiediamoci: perché visitare gli infermi? Perché noi umani prima o poi siamo tutti segnati dall’infermità, dalla malattia, a volte passeggera, a volte un cammino verso la morte. Quando diventiamo malati, in qualche modo diventiamo poveri anche se eravamo ricchi, diventiamo deboli anche se eravamo forti, diventiamo bisognosi anche se eravamo autonomi. Dopo la solidarietà nel peccato, la seconda solidarietà universale che sperimentiamo e viviamo è quella dell’infermità. La malattia è parte integrante della nostra vita, la sofferenza non può essere rimossa, e comunque, per andarcene da questo mondo quasi sempre dobbiamo passare attraverso una diminutio della forza, delle facoltà, della salute. La vecchiaia, che è una malattia, e la malattia vera e propria ci attendono come fatica del duro mestiere di vivere e come tempo in cui, a causa della sofferenza, risuonano le domande fondamentali circa il senso dell’esistenza, la qualità della vita, la dignità umana, il destino, la verità delle relazioni…
Dunque, se uno soffre, io che sono umano come lui e che conosco o conoscerò la sofferenza, devo assolutamente assumere verso di lui la responsabilità di farmi prossimo, di curarlo per quanto so, di assisterlo, di non lasciarlo solo e anche di accompagnarlo fino alla morte. Di fatto c’è in ciascuno di noi un sentimento profondo che nasce dalle nostre viscere: la com-passione. Accanto a chi soffre siamo colpiti alle viscere, fremiamo e soffriamo, con-soffriamo. Per restare insensibili di fronte alla malattia dell’altro, occorre non guardare, passare oltre, non fermarsi, oppure avere un cuore talmente indurito da saper pensare solo a se stessi. La compassione è istintiva, abita tutti gli uomini e le donne nel cammino di umanizzazione, è un comportamento che vediamo anche negli animali, almeno nei mammiferi, verso i loro piccoli e i loro simili. Il Signore però ci chiede non solo compassione ma anche misericordia, che è un impegno volontario, scelto e assunto per l’altro, per la sua salute e la sua vita. Un impegno che non si limita ai consanguinei, a quelli che amiamo, ma che deve dilatarsi e raggiungere anche chi è lontano da me, dalla mia fede, dalla mia cultura, dalla mia simpatia. Perché la misericordia non è un’emozione o un tratto del carattere, ma è un’assunzione di responsabilità fino a un concreto impegno verso gli altri, fossero anche lontani, estranei o nemici: quando accade la prossimità, l’incontro, nessuno può sottrarsi all’azione di misericordia, nel nostro caso all’assistere il malato.
Le sante Scritture già nell’Antico Testamento chiedono di unire l’osservanza della volontà di Dio alla cura del malato e di chi è nel bisogno, in particolare gli orfani e le vedove.
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Nei vangeli, poi, come non essere stupiti dal fatto che l’attività di Gesù è essenzialmente di cura e di guarigione dalle malattie? “Conducevano a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici; ed egli li curava” (Mt 4,24). Gesù appare come “il guaritore ferito” perché, dedito alla cura, soffre con i malati che incontra, combatte contro il male, invita il malato ad avere fede-fiducia e a mettersi sulla strada della guarigione, assumendo la volontà di guarire nella fedeltà alla terra e nel ringraziamento a Dio. Gesù si accostava al malato come luogo in cui Dio era presente, secondo il pensiero dei rabbini suoi contemporanei che affermavano: “Dove c’è un malato, il suo letto diventa il luogo della Shekinà, della Presenza di Dio”. Ma Gesù si identificava pure con il malato: “Ero malato e mi avete visitato” (Mt 25,36). Comprendiamo così il malato come il povero: sacramento di Cristo perché in lui, colpito da sofferenza, c’è “l’uomo dei dolori che ben conosce il patire … Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; eppure noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato” (Is 53,3-4). Girolamo nella Vulgata arrivare a tradurre con audacia: “E noi lo abbiamo giudicato come un lebbroso” (Et nos putavimus eum quasi leprosum). Sì, Gesù è colui
che cura (therapeúein, 36 volte nei vangeli con Gesù come soggetto);
che guarisce (iâsthai, 19 volte);
che è ferito fino alla morte, fino a portare per sempre impressi i segni della sofferenza, le stigmate della passione, anche nel suo corpo glorioso e risorto (cf. Lc 24,39-40; Gv 20,20.27).
Al cristiano, ma più in generale a ogni persona, si impone di compiere l’azione del visitare il malato, di andarlo a trovare, di non lasciarlo solo ma di dargli dei segni che mostrano come gli non sia abbandonato, non sia uno scarto perché non più munito delle forze e della salute. Quasi sempre – dobbiamo confessarlo – la fatica e la sofferenza della malattia sono aumentate proprio dalla solitudine, dall’isolamento, dalla scomparsa delle relazioni quotidiane con chi si ama. Il malato non misura solo la sua progressiva diminutio fisica e la sua accresciuta fragilità psichica, ma anche la distanza che la malattia ha creato tra sé e la vita di relazione, tra sé e gli altri.
Certo, visitare i malati, oltre a essere una decisione consapevole che esige responsabilità, richiede anche di vincere la paura, di accettare la propria impotenza, di rinunciare a essere protagonisti di buone azioni, per stare accanto all’altro senza pretese e senza imbarazzi. L’incontro con un malato, se avviene in verità, ci disarma e mette a confronto due impotenze, umanizzando così entrambi. L’incontro con il malato esige sempre disciplina: occorre saper tacere e saper parlare con discernimento, non imporre la propria visione e i propri desideri al malato, non finire per fare del malato un’occasione di protagonismo caritativo. A volte, proprio perché non si hanno parole adeguate, occorre saper piangere senza vergognarsi e, soprattutto, non aver paura del corpo del malato. Una carezza, una stretta di mano, un bacio sulla fronte o sulla guancia, a seconda dei rapporti esistenti, può essere per il malato fonte di grande consolazione. I vangeli si compiacciono di dire che Gesù toccava i malati (11 volte), toccava persino i lebbrosi, toccava l’organo malato di un corpo, perché il corpo è il luogo dell’incontro, della salvezza. Toccare il corpo di un altro deve essere un’opera d’arte, toccare il corpo di un malato deve essere terapeutico, relazionale, comunionale: solo volto contro volto, mano nella mano, due persone possono esprimere l’accoglienza l’uno dell’altro. La salvezza si sperimenta nel corpo, l’amore è vissuto nel corpo, la comunione si esprime nel corpo: a noi umani non sono sufficienti le idee!
Quando Gesù ha toccato il lebbroso fino a contrarre impurità (cf. Mc 1,41 e par.), o quando Francesco di Assisi ha abbracciato il lebbroso di cui provava ribrezzo, c’è stata una celebrazione, una vera liturgia di comunione e di salvezza. Non posso qui non ricordare come negli anni ’90 del secolo scorso, quando la malattia dell’AIDS faceva paura e non era ben conosciuta, coloro che ne erano affetti soffrivano soprattutto per la mancanza di contatto fisico con chi li andava a trovare. Ma se qualcuno aveva il coraggio di abbracciarli, per loro era grande festa: non erano stati scartati e buttati via dalla società, dalla famiglia, ma potevano ancora sognare di stare abbracciati a qualcuno… L’apostolo Giacomo nella sua lettera chiede significativamente che il malato chiami presso di sé i presbiteri della chiesa, perché “preghino su di lui, ungendolo con olio nel nome del Signore” (Gc 5,14). Ma questo segno non deve equivalere a demandare ad altri ciò che non sappiamo fare: ungere, profumare, accarezzare il corpo malato.
E infine una raccomandazione: non si distingua tra i malati e si sradichi quella sciocca vulgata del dolore o della malattia innocente dei bambini piccoli. Non c’è dolore innocente o tutto il dolore è innocente, perché nessuno soffre una malattia per il peccato commesso. Quasi sempre è sproporzionato il dolore arrecato dalle sofferenze che si patiscono nella malattia. Il dolore e la sofferenza appartengono alla nostra condizione umana e colpiscono vecchi e bambini, uomini e donne, tutti… Per ora, finché viviamo, dobbiamo combattere le malattie con i mezzi che abbiamo: le medicine, certo, ma soprattutto i rapporti umani di cura, affetto, comunicazione, rispetto. Il malato, come il povero, ha una cattedra, un insegnamento per ciascuno di noi, perché ci fa conoscere la nostra debolezza e fragilità, la nostra capacità di resistenza, la necessaria sottomissione alla morte quando la resistenza non è più efficace. In tutto questo, però, stiamo attenti, specialmente in un tempo in cui la pastorale sanitaria si è fatta organizzazione a volte specializzata, e a volte, a mio avviso, si è trasformata in occasione per stornare da noi ciò che ci compete: come si affida alla tecnica medica, così si affida agli operatori pastorali il malato, che invece ha innanzitutto bisogno di noi.
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