Il suo nome è Abu Khaled. È lui il capo della banda di predoni che da oltre un mese tiene in ostaggio 250 eritrei, somali, uccidendoli uno dopo l'altro se non pagano 8mila dollari a testa. La città-prigione è nota alle cronache (di guerra) internazionali: Rafah, tra Egitto e la Striscia di Gaza.
«Ho fatto nomi e località a funzionari della Farnesina che a loro volta mi hanno assicurato di averli trasmessi all'Ambasciata italiana al Cairo... Ma le autorità egiziane continuano a sostenere di non saperne nulla, per loro quelle persone sembrano non esistere..», dice a l'Unità don Mussie Zerai, sacerdote eritreo e presidente di Hadashia, l'Ong che si occupa dell'inserimento dei migranti africani in Italia».
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Hanno scritto al governo egiziano, a quello italiano e ai parlamentari europei. Hanno informato l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e le altre agenzie delle Nazioni Unite, Amnesty International e Human rigths watch. Lo stesso Benedetto XVI ha lanciato un appello per la liberazione dei profughi imprigionati da quasi un mese nel deserto del Sinai. Eppure, nulla si è mosso, duecento vite si stanno spegnendo nell’indifferenza più totale.
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