VITA CONSACRATA …
GIUBILEO E PROFEZIA
Messaggio di Don Mimmo Battaglia
per la Giornata della Vita Consacrata
“«Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra» (Eb 11,3).
«Venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: “Passiamo all’altra riva”. E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca» (Mc 4,35-36).
Giubileo e profezia sono essenzialmente già in queste due citazioni che contengono l’essenziale delle letture bibliche di questa giornata. Insieme al finale del Cantico di Zaccaria riportato come Salmo responsoriale:
«[il Signore, Dio d’Israele ha visitato e redento il suo popolo]
si è ricordato della sua santa alleanza.
Del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre,
di concederci, liberati dalle mani dei nemici,
di servirlo senza timore, in santità e giustizia
al suo cospetto, per tutti i nostri giorni».
La Parola di Dio proclamata ha richiesto e spero ha ottenuto sufficienza risonanza in noi, a partire da me. Invito me e tutte e tutti voi a farle più spazio possibile nella nostra vita, perché è di essa che noi viviamo, è la Parola che continuamente ci rigenera, è quella che dà senso e sapore alla nostra esistenza ed è quella che noi annunciamo: con le nostre parole umane e soprattutto tramite i nostri gesti quotidiani.
La Parola, che dà vita e conferisce calore e colore alle nostre parole, dice oggi qualcosa di essenziale a noi che di essa viviamo e nel cui orizzonte ci muoviamo. Partendo dalle ultime espressioni del canto di Zaccaria, che nella liturgia odierna assume il posto del “salmo responsoriale”, la Parola mi conduce oggi, come attraverso un tour gioioso, perché rigenerante, a riscoprire la speranza nella sua dimensione terapeutica, propulsiva e liberante della storia. Sì della storia, ma non solo di quella del mondo, della “macrostoria”, ma anche della nostra storia quotidiana e delle nostre “microstorie”, storie comunque innestate in quella più vasta che ha come centro e cuore non una semplice molla o un qualche meccanismo propulsivo, ma un cuore palpitante d’amore. Quel cuore che Papa Francesco ci ha recentemente esortati a riscoprire come fonte inesauribile e, si badi, indistruttibile, dell’amore: “dilexit nos”, in un tempo verbale che straripa dalle sue stesse sponde dilexit et semprer diligit et diliget nos! Ci ha amati, ci ama e ci amerà sempre!
Se proprio il cuore è ciò che unisce i frammenti, secondo le parole del papa (Dilexit nos, 17) si tratta di un cuore che ogni giorno deve essere intenerito dalla Parola per evitare la sclerocardia umana che colpiva e intristiva Gesù e che egli invitava a superare nei suoi stessi discepoli. Traduciamo subito anche in noi, soprattutto in noi. In noi tutti e in voi religiose e religiose che siete nati, già nei vostri fondatori e poi nella vostra storia personale, come coloro che hanno ascoltato e ascoltano i palpiti del cuore. Del vostro in sintonia con quello di Gesù e di quello sempre da custodire, ravvivare e talora risanare, di coloro cui siete mandati, innanzitutto dal Signore e in forza del vostro specifico carisma.
La Parola di Dio, le indicazioni di Papa Francesco, le letture ascoltate oggi è come se ci dicessero, attraverso un amore rigenerato dalla speranza e a sua volta generatore di speranza: unisci i frammenti della tua vita, quelle dei fratelli e delle sorelle intorno a te, quelle di un’umanità sempre più frammentata. Insomma, cura le tue e le altrui ferite attingendo e infondendo speranza.
Abbiamo chiesto con Zaccaria che il Signore ci liberi dai nemici e ci conceda di “servirlo senza timore, in santità e giustizia”. Sono due momenti, quelli non solo inziali, ma dimensioni abituali della terapia della speranza. Liberazione dai nemici e servizio nella giustizia.
Liberati dai nemici? Che nomi hanno per noi? Innanzi tutto sklerocardia, indurimento del cuore (Mt 19,8), che dal cuore si propaga talvolta fino alle strutture e istituzioni, grandi o piccole che siano, curie vescovili o curie generalizie, provinciali e zonali, poco importa. Se il cuore dentro s’indurisce, le strutture non ne saranno esenti. Anzi aggraveranno tale patologia.
Il Giubileo della Speranza in cui ci troviamo ci chiede, lo chiede a tutti, a noi come persone e a noi come rappresentanti di qualsivoglia istituzione, un’accurata terapia per ritornare a un cuore che ami, che ami sempre, che ami nonostante tutto. Un cuore che non è stato soltanto ed è continuamente chiamato dall’amore, ma è chiamato ad amare. Ad amare vedendo proprio con il cuore laddove gli occhi distratti e le occupazioni quotidiane onerose non vedono e non fanno vedere. Come Mosè e tutti i personaggi biblici, come apprendiamo dalla Lettera agli Ebrei, dobbiamo vedere ciò che normalmente non si vede. Appunto, come Mosè, avanguardia di fede oltre che di speranza, perché «per fede lasciò l’Egitto, senza temere l’ira del re; rimase infatti saldo, come se vedesse l’invisibile» (Eb 11,27).
La nostra fede diventa con Gesù fiducia nel futuro dello Spirito, quello che oggi lo spinge a dire a noi ciò che diceva a chi gli era accanto (e chi se non noi dobbiamo sentirlo al nostro fianco?): «Passiamo all’altra riva» (Mc 4,35). Lo ha detto e lo dice ancora. È singolare che lo dica quando, come nell’episodio evangelico odierno, è imminente la tempesta e nel momento in cui questa si scatena egli dorma, e dorma su un cuscino. Il cuscino è un particolare annotato da Marco, non tanto per insinuare un contrasto tra il travaglio fisico e psicologico dei suoi compagni di viaggio e la sua pur precaria e traballante comodità, ma forse per suggerirci che alle volte la cura del Signore verso di noi appare tanto lontana da sembrare illusoria se non irreale. Dio ha comunque cura di noi e anche noi dobbiamo sentirci in qualsiasi tempesta come cullati con lui, come cullati da lui, come lo eravamo, bambini, indifesi cullati e vigilati dalla mamma.
Il giubileo deve risvegliare dunque in noi la certezza che non saremo delusi, secondo l’assicurazione fortemente biblica, ribadita da Papa Francesco. Non lo saremo, né potremmo mai esserlo, qualsiasi possa essere la gravità delle nostre tempeste, quelle personali e quelle delle congregazioni che rappresentiamo. Non lo saremo, se del nostro carisma manteniamo più lo spirito che le forme, le motivazioni ideali, oltre alla sensibilità del cuore. Se saremo tra coloro ai quali la stessa Parola onnipotente, che ha creato e tiene in piedi l’universo, assicura:
«il misero non sarà mai dimenticato, la speranza dei poveri non sarà mai delusa» (Sal 9,19).
Ma appunto il problema qui diventa: ci sentiamo sufficientemente poveri? Lo sono le istituzioni che rappresentiamo? Anche quando non possiamo fare altro che cambiare noi stessi e non queste? Ne conserviamo lo spirito e soprattutto la solidarietà verso coloro che sono poveri realmente e miseri nel corpo e nella psiche? Solo recuperando tale solidarietà con i poveri, si apre il cammino che nella riscoperta della speranza ci lascia intravedere nuovi spazi di fecondità e nuovi orizzonti di evangelica condivisione.
Viviamo con questo spirito e in quest’afflato spirituale anche l’indulgenza giubilare. Indulgenza da riscoprire anche come perdono che rinnova e ci fa pianificare con il Signore un nuovo futuro, per noi e le nostre famiglie religiose. L’indulgenza è così non solo destinata ai defunti o a quando lo saremo anche noi, ma ravviva e costruisce ogni giorno la speranza. La ricostruisce unificando i pezzi della nostra vita e dei nostri sogni infranti, delle nostre mancate realizzazioni. Mette insieme i pezzi della nostra vita in quel cuore, che è il cuore che sempre ama, sempre perdona, sempre rinnova: l’amore del Cristo crocifisso e risorto. Appunto risorto, come ogni giorno deve risorgere la speranza, mentre noi la vediamo all’opera.
È all’opera se noi lasciamo che essa subentri allo sconforto, ai mille dubbi che ci assalgono e con i quali tormentiamo noi e forse in nostri confratelli e consorelle. Forse anche senza volerlo. E tuttavia ne miniamo la solidità.
Andare oltre, all’altra sponda, significa attraversare tutto. Anche e soprattutto le nostre sconfitte. Significa non sottrarci alla speranza, così come ogni mattino non si sottrae alla luce. Acquisendo quell’energia propulsiva con cui Mosè vedeva l’invisibile e camminava e precedeva gli altri, anche quelli, soprattutto quelli, che non vedevano che sabbia e aridità intorno.
I nostri carismi e i nostri cammini siano dunque, carissime sorelle e carissimi fratelli nella fede e nella speranza, luci che annunciano il mattino, il mattino di chi vince il clima di rassegnazione in cui vive l’uomo contemporaneo, perché indica un orizzonte oltre, un orizzonte altro. Un orizzonte che però ciascuno porta come irrinunciabile fremito, forse nascosto e talvolta ferito, dentro di sé, giacché «nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene» (Spes non confundit 1). È dentro ciascuno ed è nelle pieghe più recondite della storia umana, da quando quella storia è diventata Storia della salvezza.
Da allora essa è anche storia della speranza. Presente, anche se ferita, qualche volta irrisa non da denigratori inconsapevoli e delusi, ma non di rado da artefici di un futuro che sottragga cuore e intelligenza all’uomo per dare tutto lo spazio possibile a coloro che oltre a controllare banche e commercio, ad accendere ed alimentare guerre, vorrebbero cancellare ogni barlume di sentimento. Ma la speranza reagisce, reagirà sempre, mostrando che l’essere umano può essere migliore di quello che appare. Non può ridursi a un acquirente che fruisce solo di beni effimeri, per sopportare in sostanziale solitudine la sua marginalità sulla terra.
Sentiamoci e sentitevi chiamati invece a testimoniare l’irruzione irreversibile del regno di Dio nella quotidianità e nella storia. Intercettiamo e coltiviamo nella Risurrezione di Gesù un’imprescindibile tensione al meglio di tutti e verso un futuro sempre da reinventare nello spirito di chi sa che come Cristo è risorto, noi risorgiamo ogni giorno. Con noi. Con quello che facciamo, poco o molto che sia, collaboriamo a che il mondo risorga dalle sue cadute sapendo e attestando, come segnali anticipatori di futuro, che con e in Gesù, porta la liberazione come realtà avvenuta e sempre da avvenire. Ci impegna in essa e ad essa ci chiama.”
† don Mimmo