Un non credente in aiuto della fede
A volte, leggendo i giornali, si è fortemente coinvolti e intrigati da un articolo che purtroppo passa quasi inosservato ai più ma che si percepisce come gustoso, contenente il sale della sapienza. Così è stato per me un breve articolo di Carlo Rovelli – fisico italiano, autore di Sette brevi lezioni di fisica – sul Corriere della sera del 26 novembre, che termina il suo scritto esponendo una semplice ragione del suo non credere in Dio: “vorrei essere simile alle persone che mi piacciono”. Spiega perciò chi sono quelli che non gli piacciono e li descrive in modo puntuale e simpatico. Leggendolo da credente, mi ritrovavo continuamente ad approvare lo scritto di Rovelli, a cominciare dall’affermazione che non gli piacciono quelli che si comportano bene per paura di finire all’inferno né quelli che lo fanno per piacere a Dio.
Cosa può dire un cristiano, monaco credente nel Dio di Gesù Cristo, di fronte a una simile posizione? Mi verrebbe da dire che neanche a me piacciono persone simili, che mettono a fondamento del loro sentire e comportarsi la paura dell’inferno o di un Dio giudice che sembra avere la funzione di sanzionare chi sbaglia e premiare chi invece agisce bene. Sono consapevole che per secoli forse per alcuni è stato così e che molti funzionari della religione erano convinti di aiutare a fare il bene immettendo paura e predicando castighi, ma so anche che chi ha frequentato e frequenta il Vangelo di Gesù non può fondare in tal modo la propria fede. La fede infatti nasce non dalla paura, né dall’angoscia ma dall’ascolto di una presenza che è semplicemente Amore. Mi viene in mente a questo proposito un apoftegma ripreso da molti padri del deserto che desideravano poter bruciare il paradiso e spegnere l’inferno affinché Dio fosse semplicemente amato e non temuto, fosse conosciuto nella sua verità e non con un volto perverso, quello fabbricato dagli uomini religiosi per mestiere.
Carlo Rovelli continua dicendo che non gli piace rispettare i suoi simili “perché sono figli di Dio”, ma che gli piace rispettarli perché sono esseri che sentono e che soffrono. E anche qui condivido. D’altronde mi ricordo che fin da piccolo contestavo la predicazione corrente che chiedeva di fare il bene all’altro perché in esso si vedeva il Cristo: come se non si potesse fare il bene senza credere in Gesù Cristo. Strumentalizzare l’altro per amare il Signore mi sembrava una proposta indecente. L’altro è una persona simile a me, è mio fratello, mia sorella in umanità e siccome devo amare l’altro come me stesso, avendo io la sua stessa dignità, lo amo, lo devo amare e basta. Per chi ha fede, questo è secondo la volontà di Dio: Dio quindi non dà un fondamento al mio amore, ma lo conferma. Del resto, secondo la tradizione cristiana, ogni essere umano, per cattivo e delinquente che sia, porta sempre in sé l’immagine di Dio, anche quando ne smarrisce la somiglianza. In questo senso, l’uomo è stato reso capace di etica, di riconoscere e compiere il bene, credente o non credente, cristiano o non cristiano che sia.
Inoltre Rovelli, nell’elencare cosa gli piace e cosa no, non teme di affermare che non gli piace pregare Dio, ringraziarlo né fargli domande. E qui, mi pare, confessa il suo “non poter credere”. Ma chi crede, in verità condivide tutto il suo amore – che vive più o meno intensamente – il suo stupore, la sua gioia di fronte al cielo, al vento della vita, agli uccelli dell’aria, alle relazioni di amore e di amicizia. Un cristiano non ha tutte le risposte, ma ha molte più domande da fare innanzitutto a se stesso e poi agli altri. Se le fa a Dio, è perché “sente”, percepisce una presenza: quella dell’amore e della libertà, che non negano il caso e la necessità, ma danno “gusto” alla vita. Dio non è un tappabuchi, né un ansiolitico per chi è angosciato, né un antidoto per le paure umane: ignoriamo tante cose e sovente il mistero resta tale anche quando lo guardiamo in faccia.
In ogni caso, vorrei ringraziare Rovelli che con questo scritto aiuta a essere cristiani che credono, nella libertà e per amore.