In morte di Geranzani.
Che cosa ho imparato a lezione da don Aldo
di Alessandro D'Avenia
Si celebrano oggi nel Duomo di Milano alle 14.30 i funerali di don Aldo Geranzani, dal 1990 rettore del Collegio San Carlo, incarico cui l’aveva chiamato il cardinale Martini. Uno dei 'suoi' prof, Alessandro D’Avenia, gli ha scritto questa lettera.
Caro don Aldo,
ti scrivo queste righe per raccontarti come è andata. Ti ho salutato che eri sul tuo letto, ormai incosciente, ti era rimasto solo il respiro. Un respiro rapido e aggrappato alla vita, come la mascherina per l’ossigeno al tuo viso. Occhi chiusi, forse ignaro dei nostri silenzi impauriti, appartenevi al momento tutto personale in cui il corpo lotta per dire il suo ultimo sì alla vita: la vita definitiva. Sono stato un po’ accanto a te, ti ho stretto la mano. Questo è accaduto due volte. Una prima la mattina, dopo le lezioni. Una seconda la sera, poco prima che tu smettessi di respirare ed entrassi nella Gioia, dopo tanto patire. La prima volta ti ho salutato dicendoti: «Grazie di tutto e scusa se non ti sono venuto a trovare abbastanza».
A volte la pigrizia, più spesso la paura. La seconda volta ti ho detto: «Ti affido a Maria», e l’ho fatto perché avevo pregato lei accanto a te ed ero sicuro che sarebbe andata così, «ora e nell’ora della nostra morte», quante volte lo ripetiamo senza rendercene conto. Intanto centinaia di persone di tutte le età facevano altrettanto, nell’ombra della sera, recitando un rosario nella cappella della scuola, dove quel crocifisso immenso, con gli occhi aperti, vivo, ti guarda, ovunque tu sia seduto, e ti ricorda che il dolore non ha l’ultima parola, che la morte non ha l’ultima parola, altrimenti quella croce sarebbe vana e la buona novella soltanto una pia illusione. Tu sei mio, dicono quegli occhi, per questo sono qui. Mentre ti tenevo compagnia la prima volta c’erano urla di bambini dal cortile, nel pieno dell’intervallo, proprio in quei cortili che avevi voluto sistemare e ampliare perché i bambini avessero più spazio per giocare.
Qualcuno, pensando che quelle urla ti dessero fastidio, ha chiuso la finestra. Io non so se tu potevi sentirle, ma so che in quel momento mi è stato tutto chiaro. Tu in quel letto, ormai alla fine della tua camminata sulla terra (ed eri uno che camminava come un montanaro: ricordo ancora quel viaggio in Inghilterra in cui scorrazzavamo per le vie di Londra e io, prestante trentenne, faticavo a starti dietro...), e i bambini sotto a urlare, felici di giochi e libertà. Lasciate che i bambini vengano a me, lasciate che i giovani vengano a me. Questo era il senso della scena. Tu fissato alla tua croce di tumore e di letto, e intorno a te una scuola intera, di quasi duemila ragazzi, di tutte le età dai 3 ai 18 anni, che si muove piena di vita di dolore di sogni di cadute di progetti di lacrime di possibilità, tutte cose che tu negli anni hai 'pazientemente' costruito e da ultimo 'pazientemente' alimentato.
Tu inchiodato al tuo letto, con l’ossigeno, il tuo lo avevi speso tutto per quelle vite. Lasciate che i bambini vengano a me, questa è stata la tua vita fino all’ultimo. Tu che eri orgoglioso di avere la sedia su cui don Bosco si era seduto e che sei andato in Cielo proprio alla vigilia della sua festa. Questo è stato il senso della tua vita, per questo in essa nulla è andato sprecato, neanche la malattia e il dolore, perché tutto hai fatto per quei bambini, che poi diventano ragazzi, che poi diventano uomini e donne: tutti tuoi figli spirituali. L’ho letto nei volti dei miei alunni il giorno dopo, soprattutto alcuni di loro, tristi come se avessero perso un familiare, altro che il 'rettore' di una scuola così affollata. Li conoscevi tutti, uno per uno. Mi ha sempre stupito la tua capacità di parlare a un bambino di 4 anni, a una ragazza di 17, a un padre di 50... ricordando i nomi di tutti e dicendo a tutti la verità, ciascuno al suo livello, a volte con i tuoi modi diretti. Io ti ringrazio perché quando ho svolto una supplenza di una settimana al San Carlo ed ero solo un supplente di lettere, con una laurea e poco più nel curriculum, mi hai detto, come uno che dà fiducia a un figlio: «Perché non rimani a insegnare qui?». Ti ringrazio perché mi hai fatto viaggiare moltissimo, per imparare a vedere il futuro, che tu trattavi come cosa visibile. Il viaggio in America per sperimentare una didattica partecipativa in una scuola superiore alla Attimo fuggente.
Il viaggio a Londra per preparare il sogno di un liceo, che poi si è realizzato. Il viaggio in Terra Santa, in cui non dimenticherò mai la Messa celebrata da te nel Santo Sepolcro e noi in 4-5 tutti stretti attorno al luogo del mistero per eccellenza. Il viaggio quotidiano tra i corridoi e nelle aule, quando ti fermavi a scambiare due parole o chiedevi «che state facendo?», e ti inserivi nella lezione, Leopardi, Dante, Pirandello che fosse... Ti ringrazio per quel libro che mi hai regalato alla fine del viaggio in Terra Santa, dopo averlo letto tu in quei giorni. L’ho aperto adesso per cercare parole sottolineate da te, a caccia di un messaggio dedicato a me, e le ho trovate: «Proprio quando la vicenda terrena dell’uomo sarà giunta al proprio compimento, sarà necessario che in ognuno appaia la Gioia infinita che ognuno è nel profondo. Essa oltrepassa ogni dolore sperimentato dall’uomo».
Alla fine di quelle pagine c’è il tuo appunto a matita: «12.02.2014 Betlemme». Eri solito segnare all’inizio e alla fine della lettura il tempo e i luoghi. La data di inizio dice «8.02.2014, in 54, verso Gerusalemme». Da Gerusalemme a Betlemme. Un viaggio al contrario, dalla Morte alla Nascita. La tua. Arrivederci don Aldo. Prepara un posto bello anche per noi, per la nostra Nascita.
(fonte: Avvenire 1 febbraio 2017)