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lunedì 30 maggio 2016

In tre giorni 700 uomini, donne, bambini, anche neonati, annegati nel nostro mare... ma è davvero possibile che ormai queste tragedie non ci scuotano più?


I 91 superstiti del naufragio di giovedì: “Eravamo 500”. In tre giorni settecento vittime

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Strage di bambini 
Si dispera la ragazza nigeriana: «Abbiamo provato in tutti i modi a difenderci dal mare che entrava nella barca. Con le mani, con i bicchieri di plastica. Per due ore abbiamo combattuto con l’acqua ma non c’è stato nulla da fare. Il mare ha cominciato a invadere, ad allagare la stiva. E chi si trovava al piano di sotto non ha avuto scampo. Donne, uomini e bambini, tanti bambini sono rimasti intrappolati. E sono annegati». Anche i mediatori culturali, i funzionari della questura, i volontari delle associazioni che si occupano di accoglienza sono sconvolti. Dice Simona Fernandez, del centro accoglienza Salam: «Ogni storia racconta nuove sofferenze. Nuove violenze. È terribile il racconto di questo naufragio».
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Le voci dei superstiti 
I giornalisti non possono entrare nell’hotspot, ma grazie alle testimonianze dei volontari e alle conferme dei funzionari di polizia, emerge la ricostruzione della drammatica odissea di 1200 migranti. «Siamo stati rinchiusi in capannoni sul mare per diversi giorni in attesa di imbarcarci. Mercoledì siamo salpati. Eravamo più di mille e duecento, eritrei e nigeriani soprattutto. C’era solo una barca a motore, tipo un rimorchiatore che trainava le altre due barche. Nella prima e nella seconda c’erano cinquecento persone, nella terza duecento». Giovedì mattina succede qualcosa che fa precipitare la situazione. Uno strappo e si rompe la cordata. Il rimorchiatore si allontana, la terza barca va alla deriva. La seconda si trasforma in una trappola infernale. Con lo strappo si apre una falla nell’imbarcazione e l’acqua comincia a entrare. Dopo due ore arrivano le navi della Marina militare. Kidane, 13 anni, è eritreo: «Ho visto morire mia madre e una sorellina di 11 anni - racconta -. Quando sono arrivati a salvarci c’erano tanti cadaveri che galleggiavano, i marinai non riuscivano a prenderli tutti». E poi ci sono i pianti di disperazione delle donne, molte imbarcatesi giovedì, che così racconta un mediatore culturale: «È impressionante il numero dei dispersi. Ogni donna piange la morte di un figlio, di una madre, di una sorella».

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La donna quasi decapitata mentre stava vomitando
Quando la barca è affondata, si sono salvati in sei-7, quelli che sono riusciti a tuffarsi e a raggiungere la prima imbarcazione. I dettagli dei verbali raccolti dalla Questura di Ragusa, la Guardia di Finanza di Pozzallo e la Compagnia dei Carabinieri di Modica sono agghiaccianti: nei minuti concitati in cui le due carrette del mare si avvicinavano e allontanavano, la corda tesa ha ucciso, ferendola violentemente al collo, una donna di colore: la poveretta aveva la testa fuori dalla sponda perché stava vomitando.

I racconti ai volontari
E altri particolari emergono dai racconti dei profughi ai volontari di Emergency, che hanno accolto a Pozzallo 699 persone, tra cui molte donne e tanti bambini. Migranti che arrivavano dall’Eritrea, dall’Etiopia, dalla Somalia, dal Ghana, dalla Nigeria, dal Pakistan. «Sono tutti esausti. Abbiamo incontrato H. in ipotensione: aveva avuto una crisi nervosa sulla nave. Quando si è ripreso è riuscito a dirmi solo il suo nome, che ha 16 anni e che ha visto morire un suo amico in mare. Poi ha pianto. Un pianto strozzato, quasi a non voler disturbare» racconta Giulia, mediatrice culturale di Emergency. «Abbiamo incontrato ragazzi picchiati in Libia per mesi. E abbiamo incontrato R., 5 anni, che ha perso la mamma in Libia. Sta bene, non ha bisogno del medico, non ha bisogno di medicine. Avrebbe bisogno di scuse. Vorremmo chiedere scusa a lei, a H. e a tutti coloro che arrivano. Vi chiediamo scusa per questo continente sordo e cieco» conclude Giulia.

Mattarella: «Fuggono, come farebbe chiunque»
«Questi bambini, queste donne e questi uomini, fuggono da guerre, carestie, oppressione. Cercano, semplicemente, una vita migliore, come farebbe chiunque di noi nelle stesse condizioni».
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Nel naufragio di giovedì nel canale di Sicilia sono morti quaranta bambini, molti dei quali neonati. Nell’ultima settimana su oltre tredicimila migranti sbarcati novecento sono morti. Le tragedie che colpiscono i profughi senza nome e senza volto si susseguono senza sosta e provocano una pericolosa assuefazione. Aumentando la distanza tra chi soffre e noi

... I superstiti del naufragio di giovedì hanno raccontato che dei quattrocento morti, quaranta erano bambini, molti dei quali neonati. In trecento, quelli che avevano pagato di meno ed erano stati fatti entrare nella stiva, sono morti intrappolati senza neanche sapere quello che stava accadendo in superficie. Un sommario bilancio dice che su tredicimila migranti sbarcati nell’ultima settimana in Italia, più di novecento non ce l’hanno fatta. Papa Francesco, incontrando un gruppo di bambini sabato mattina in Vaticano, ha mostrato loro il giubbetto di una piccola migrante siriana annegata vicino a Lesbo e regalatogli da un volontario. Un gesto simbolico per tenere desta l’attenzione su quella che il Pontefice, volato qualche settimana fa sull’isola greca per abbracciare la carne martoriata di quegli uomini, donne e bambini che l’Europa non vuole, ha definito la più grave emergenza umanitaria dalla fine della Seconda Guerra mondiale.

Gli esperti dicono che nelle prossime settimane gli sbarchi non solo continueranno ma aumenteranno. Sui giornali duecento o quattrocento morti o dispersi in mare non finiscono quasi più in prima pagina. Al massimo si dà risalto a quelle che in gergo giornalistico si chiamano “storie” come quella della piccola Favour, la neonata di nove mesi arrivata a Lampedusa dopo aver perso la sua mamma nella traversata e che ora molti vorrebbero adottare. 

Di là da tutti i dibattiti politici, le tragedie dei profughi in cerca di salvezza quasi non ci scuotono più. Forse perché quei disperati non hanno né un nome né un volto. O forse perché quelle tragedie non sono più un’eccezione, sia pur frequente, bensì una regola. Sono diventati cronaca consueta alla quale ci abbiamo fatto bene o male l’abitudine. 
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