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venerdì 22 giugno 2018

Guardare e vedere la carne di chi migra. E se fossimo noi con i nostri figli? di Marina Corradi



Guardare e vedere la carne di chi migra. 
E se fossimo noi con i nostri figli? 
di Marina Corradi



La Diciotti entra in porto che è notte. A bordo sono in 509. C’è anche una quarantina dei superstiti tratta in salvo giorni fa della nave della Marina Usa Trenton. Sono in mare da nove giorni. «Mai visto occhi così terrorizzati a uno sbarco», commenta un medico di Msf. «Hanno visto annegare i loro fratelli», spiega una volontaria di Intersos. I loro fratelli, i loro amici che invocavano aiuto mentre sprofondavano nel mare. Sguardi che non puoi più dimenticare, che anche nel sonno ti inseguono, carichi di disperazione. E quella mamma con un bambino piccolo in braccio? Della ragazza nigeriana se ne ricordano, viaggiava con loro: scomparsa.

E ricordano anche un’altra ragazza, incinta. Nel panico, quando il gommone ha cominciato a imbarcare acqua, non l’hanno vista più. Era forse una delle dodici salme che la Trenton, priva di celle frigorifere, ha abbandonato alle onde? Una giovane donna col ventre carico del suo bambino morta e nemmeno sepolta, una nuova croce in fondo al Mediterraneo – con dentro un’altra croce, piccola. E poi ci sono i vivi, gli oltre quaranta bambini sotto i 13 anni sbarcati dalla Diciotti. Uno dei più piccoli racconta di essere arrivato dall’Eritrea da solo, a otto anni, lavorando, facendo la fame, arrangiandosi. Attraverso l’Africa da solo, a otto anni? È un mondo di storie dolorose e straordinarie questa nave che attracca a Pozzallo; frammenti di vita densi di coraggio e di paura e di preghiera, figli lanciati verso il nostro mondo perché vivano, almeno loro, e madri decise a tutto, il figlio in braccio, che infine tuttavia devono arrendersi. I sommersi e i salvati: e di che occhi, di che volti è carica questa nave che arriva in Italia dopo avere a lungo atteso il permesso di entrare in porto.

Ma a raccogliere le loro testimonianze sfinite solo volontari, e alcuni cronisti. Spesso poi i lanci di agenzia che raccontano gli approdi in porti stranamente impenetrabili finiscono nelle pagine interne dei giornali, compaiono brevemente sul web e finiscono in qualche poco cliccato angolo. Nella mole di informazioni che quotidianamente ci inonda ci sono, sì, i numeri – 509 sbarcati, forse 70 dispersi, e ieri altri 6 morti al largo di Tripoli – ma sempre più raramente i volti, gli occhi, la paura e la speranza della gente dei gommoni. La nostalgia: pensate la nostalgia di un bambino di otto anni che lascia da solo i suoi, per migrare in un altro mondo. O la ferrea determinazione di una madre con un neonato, che traversa il Mediterraneo su una barcarola. (Ci pensiamo mai, come mostruoso e assurdo sarebbe se a partire in questo modo fossimo noi, i nostri figli? Se appena ci si pensa, espressioni come «è finita la pacchia», che riecheggiano in questi giorni in Italia, ti si strozzano in gola).

Ma quale invisibile barriera respinge nel silenzio le straordinarie storie dei migranti? Indifferenza, certo: “quelli”, li pensiamo altri da noi. Ma non anche, forse, paura? Il video dei piccoli messicani che piangono, nelle gabbie in cui li hanno chiusi lontani dai genitori, è un ineludibile pugno nello stomaco. Tanto che, fatto eccezionale, è stato visto milioni di volte. E anche molti di quelli che hanno alzato come al solito le spalle non sono stati forse artigliati per un attimo dalla realtà, dalla nuda feroce realtà? Tanto che perfino Trump ha dovuto cedere, e modificare i regolamenti alla frontiera.

La realtà taglia. Perché la realtà è la carne degli uomini, e questa volta è stata la voce di quei bambini messicani. L’ideologia repulsiva ha bisogno che quei migranti siano solo numeri, massa indefinita. È facile infatti disinteressarsi della sorte di una massa anonima: ma quando vedi i volti, ascolti l’odissea di un bambino, senti i pianti, porgi l’orecchio alle voci rotte di un manipolo di superstiti, ecco, i numeri diventano uomini, donne, ragazzi e ragazze, bimbi. E allora la questione rischia di bussare alla nostra porta, di farci male. Non si può più parlare stolidamente di «pacchia» o di «crociera», quando si comincia a vedere la realtà. La realtà, cioè la carne di uomini come noi. Di bambini che fanno migliaia di chilometri da soli, chissà come vivendo, mangiando, dormendo, come piccole povere prede inseguite.

Di donne con un bimbo in braccio dopo aver subito chissà cosa da chissà chi, affamate, senza più latte al seno, eppure in marcia, con viscerale ostinazione. La realtà, è la carne di giovani donne che, incinte, comunque partono e affrontano il Mediterraneo. (Disperate, o invece spinte da una audace, quasi folle speranza?) E quel povero corpo appesantito da un bambino nel ventre e abbandonato alle onde duole, se ti fermi a pensarci, come una ferita. Noi poveri di figli, noi popolo invecchiato, e quella ragazzina con il suo germoglio buttata via e perduta – dentro al nostro mare, come una cosa da niente.
(Fonte: Avvenire  del 21.06.2018)

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