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mercoledì 9 maggio 2018

ACCADDE IL 9 MAGGIO...


ACCADDE IL 9 MAGGIO...

Il 9 maggio 1978 a Roma le Brigate rosse uccidono Aldo Moro, a Cinisi la mafia uccide Peppino Impastato. Nel 1993, nella valle dei Templi, il grido di Giovanni Paolo II contro la mafia.


Proviamo ad abbandonare la stanchezza e il disincanto. Tentiamo, facendo i conti con la sfiducia, a non fare il conto degli anni, delle generazioni che invano hanno lottato, delle vite che sono mancate. Ignoriamo tutto questo, e facciamo un “esercizio di storia”: mettiamoci di fronte a un ragazzo di 18 anni per spiegargli che un giorno di quarant'anni fa, il 9 maggio 1978, due fatti furono incisi sulla pelle di questo Paese. Due morti. Quella di un politico che si chiamava Aldo Moro, e quella di un giovane coraggioso, che in Sicilia sfotteva i mafiosi del suo paese, Giuseppe Impastato, da Cinisi.

Il filo rosso che li lega - pur nella distanza geografica e di eco mediatica di allora – è che entrambi erano uomini in guerra. Caduti di terrorismo e di mafia. Al nostro ragazzo, a questo punto, occorrerà spiegare cos’era il terrorismo, visto che non c’è più, lo abbiamo sconfitto tutti insieme. E chiarirgli perché, invece, la mafia c’è ancora.

Noi non gli diremmo che lo Stato non ha potuto. Né che la mafia – come disse un ministro della Repubblica qualche tempo fa – è per il Sud un costo d’impresa “con cui fare i conti”. Consapevoli della gravità dell’affermazione, gli diremmo semplicemente che lo Stato non ha voluto. Non tutto lo Stato, ovviamente. Il 9 maggio, infatti, ricordiamo quel pezzo di Paese – giudici e giornalisti, forze dell’ordine e imprenditori, commercianti e uomini della strada – che con la mafia ha provato a ingaggiare battaglia. E ha perso perché non tutto lo Stato - quello di cui indossavano la divisa e amministravano giustizia - ha voluto sconfiggere la mafia. E li ha traditi, come si fa in una guerra civile sotterranea, taciuta perché inconfessabile. 

Leggete l’intervista a Giancarlo Caselli in questo dossier, il magistrato che a Palermo arrestò Totò Riina e mise sotto processo Giulio Andreotti. Vedrete - vedrà anche il nostro diciottenne - che la lista degli strumenti per farcela c’è, è chiara da tempo. Ma non è condivisa da tutti. C’è un pezzo di questo Paese che ha reticenza ad affrontare la corruzione, perché la zona grigia gli fa comodo. Ad attaccare i patrimoni mafiosi perché con quella gente ha fatto e farà affari. A riformare la legge sul voto di scambio perché con il voto mafioso ha fatto e farà politica.

Caro diciottenne, la verità è così semplice che quasi non la vediamo più. Non abbiamo voluto battere la mafia. Non tutti. Non fino in fondo. E’ così chiaro che non ce lo diciamo neanche più. La verità, a volte, è come una lama di luce. Abbaglia e ferisce gli occhi. E li costringe ad abbassarli. E noi ti chiediamo perdono se, accecati, li abbiamo abbassati anche noi.
Francesco Gaeta

È successo di tutto il 9 maggio. L’assassinio di Aldo Moro, quello di Peppino Impastato, il grido di Giovanni Paolo II contro la mafia, nella Valle dei templi. Quindici anni di distanza tra quel giorno del 1978 che aveva lasciato, a Cinisi, un giovane dilaniato dalla dinamite e, a Roma, la nazione orfana di un suo padre costituente e l'urlo del Pontefice. “Una volta, un giorno verrà il giudizio di Dio”, aveva tuonato contro i boss papa Woytyla, invitandoli a convertirsi. E ai giovani aveva detto “Alzatevi e prendete in mano il vostro e il nostro avvenire”.

Un coraggio che aveva avuto Peppino Impastato, rompendo con il padre mafioso, aiutando i contadini nelle lotte contro gli espropri delle terre, denunciando, dalle onde della sua radio, i soprusi e le illegalità. Anche quelle dei boss più potenti, di quel Tano Badalamenti che abitava a cento passi da lui. Un coraggio che hanno avuto molte delle vittime del terrorismo e delle stragi: forze dell’ordine, gente comune, magistrati, politici, professori universitari, sindacalisti che compivano ogni giorno il proprio dovere. A loro il Parlamento ha dedicato, il 9 maggio, una “Giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice”. Un modo per ridare alle vittime parola e visibilità. E per allargare i confini dei ricordi personali trasformandoli in memoria collettiva. Sapendo che l’insieme delle tanti voci, comprese quelle dei colpevoli, può restituirci il quadro di ciò che è stato nella nostra Repubblica e può aiutarci a costruire senza ricadere negli stessi errori. Il lavoro che alcuni tra i parenti delle vittime stanno facendo, per ricostruire pezzi della nostra storia, per mettere in rete gli archivi, per educare le giovani generazioni è fondamentale per un Paese che vuole guardare in avanti. È anche un peso che non può essere lasciato solo sulle loro spalle.

Anno dopo anno, la Giornata ha aiutato, ricordando persone e fatti concreti, a porre l’attenzione sul lavoro della magistratura e sui depistaggi dei servizi deviati, sul ruolo dell’informazione e sull’importanza della riconciliazione, sul senso delle istituzioni.

Riparte da questi anniversari la ricerca di una strada per fare i conti con ciò che, nelle istituzioni, nella società civile, nella cultura, nella politica ha funzionato e con ciò che invece ancora ostacola il nostro progresso civile. Ci sono ancore acque torbide, spiega il procuratore Gian Carlo Caselli. È ora di dare tutti una mano perché torni chiara e pulita a vantaggio di tutti.
Annachiara Valle

Il procuratore capo di Torino Gian Carlo Caselli
con don Luigi Ciotti (foto Ansa)
Ancora troppi intrecci torbidi tra mafia e istituzioni. È questa la ragione principale per cui lo Stato è riuscita a sconfiggere il terrorismo e non la criminalità organizzata. Ne è convinto il procuratore capo di Torino Gian Carlo Caselli. Anche se invita a non abbassare la guardia sui rigurgiti di violenza politica che riemergono di tanto in tanto. “Il ricorso diffuso e sistematico alla violenza”, spiega Caselli, “ha già fatto pagare al nostro Paese prezzi enormi. Non si può dimenticare che, prima di sfociare in forme organizzate (anni Settanta e Ottanta) la violenza politica ha avuto una lunga incubazione nella stagione dei "compagni che sbagliano". Incubazione caratterizzata e favorita anche dall’indifferenza, sottovalutazione, giustificazionismo indulgente, talora contiguità da una parte consistente del mondo politico ed intellettuale. Tutto questo si sta in parte ripetendo e non dovrebbe assolutamente ripetersi. Sui muri della sua Trappeto il coraggioso e non violento Danilo Dolci tracciò la scritta: "Chi tace è complice". Guai se questa scritta anche oggi dovesse restare una bella frase senza concrete conseguenze. Non bisogna abbassare la guardia.

Perché la mafia è ancora da sconfiggere? Cosa non ha funzionato? 

Per comprendere la situazione attuale non si può non riportarsi alle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Il nostro Paese era in ginocchio, aspettava il colpo alla nuca, invece, con il contributo di tutti, non siamo precipitati chissà dove, ma ci siamo salvati. Abbiamo salvato la nostra democrazia che, pur con tutti i suoi difetti, è sempre meglio di uno Stato-mafia o di un narco-Stato che i Corleonesi volevano instaurare. Parte da Palermo una vera resistenza che ottiene risultati imponenti. Sembrava fatta, invece lo Stato, per effetto delle cosiddette relazioni esterne, viene fermato mentre sta per battere un calcio di rigore e viene fatto rientrare negli spogliatoi. Sul banco degli imputati invece che i mafiosi ci finiscono i magistrati, leggi fondamentali come quelle sui pentiti subiscono modifiche peggiorative.
Caselli con il sostituto procuratore Guido Lo Forte al termine della
prima udienza del processo a Marcello Dell' Utri, il 5/11/1997.

Nel suo libro “Le due guerre” (Melampo editore) lei spiega che c’è stato un approccio diverso a mafia e terrorismo. Perché? 

Il terrorismo storico fu sconfitto quando fu politicamente isolato e conseguentemente entrò in crisi, donde la slavina di pentiti che non ci credevano più. La mafia invece non è isolata, è caratterizzata da intrecci torbidi con pezzi della politica, dell’economia, delle stesse istituzioni. E poi l’impresa criminale sta sempre più trasformandosi in impresa economica. Sempre di più i mafiosi hanno bisogno, e si avvalgono, di ragionieri, commercialisti, notai, avvocati, magistrati, amministratori locali. Sfuma progressivamente sempre di più la linea di demarcazione tra lecito e illecito per quanto riguarda l’economia. Occorrerebbe una magistratura forte. Invece sappiamo che di rafforzamento della magistratura c’è qualcuno che non vuole assolutamente parlare o se ne sente parlare è come il fumo negli occhi. 

C’è una zona grigia che si sta allargando? 

Finché continueranno le relazioni esterne, l’intreccio torbido, vergognoso con le istituzioni la sconfitta della mafia sarà impossibile. Bisogna sciogliere questo nodo, invece ancora oggi ci sono signori che con la mafia intrattengono rapporti e fanno affari. Poi quando riesci ad ottenere affermazioni di responsabilità di qualcuno, e parlo di Andreotti e di Dell’Utri, non succede nulla come se i magistrati avessero scoperto l’acqua fresca, invece forse hanno scoperto un’acqua torbida sulla quale bisognerebbe riflettere anziché che far finta di niente. 

Dopo la morte del figlio, Felicia Impastato si è dovuta battere soprattutto perché non fosse cancellata o infangata la memoria di suo figlio che denunciava il boss Badalamenti. Lei si è occupato direttamente del caso. Cosa è emerso? 

Il processo per l’omicidio di Peppino Impastato fu aperto più volte senza risultati. Durante la mia direzione della procura di Palermo ('93-'97) riaprimmo il caso. Io stesso andai due volte in Usa per interrogare Badalamenti e mi colpì soprattutto come a fronte di una faccia e di un profilo assolutamente impenetrabili, da mafioso classico, fosse rimasto scosso quando, facendo il mio mestiere, gli chiesi se era vero che dalla sua radio Peppino Impastato osava rivolgersi a don Tano Badalamenti dileggiandolo come "Tano seduto". Pazienti, minuziosi riscontri delle dichiarazioni dei pentiti portano alla condanna all’ergastolo. Nel frattempo la commissione parlamentare d’inchiesta elabora un documento davvero prezioso relativo agli incredibili depistaggi che dopo l’omicidio furono purtroppo registrati. Basti dire che si cercò di far passare Peppino impastato come un terrorista che era morto mentre cercava di fare un attentato alla linea ferroviaria.

Cosa dovrebbe fare il nuovo Governo per rafforzare la lotta alla mafia? 

Gian Carlo Caselli con i ragazzi di Libera. Molti di loro
sono impegnati nel riutilizzo dei beni confiscati alla mafia.
Ci vuole un forte potenziamento del contrasto soprattutto per quanto concerne l’economia mafiosa che oggi è il centro, il cuore, del potere mafioso. Per fare un piccolo elenco: bisognerebbe approvare la norma sull’antiriciclaggio che oggi non è previsto, modificare l’articolo 416 ter del codice penale relativo al voto di scambio (oggi fa ridere perché bisogna che ci sia il versamento di soldi, mentre lo scambio elettorale avviene con promesse, servizi), approvare una nuova legge contro la corruzione, reinserire il falso in bilancio – spesso attività prodromica all’attività mafiosa – che sostanzialmente in Italia non è più punito. E poi occorrerebbe rendere il processo più snello così si avrebbero le ricadute positive su tutte le forme di contrasto all’illegalità, mafia compresa. È ora di fare alcune cose, come per esempio, l’abolizione del grado di appello, come in tutti i Paesi occidentali di rito accusatorio. Dovrebbe restare solo un primo grado e la Cassazione. Se facessimo così anche da noi recupereremmo un mare di uomini e risorse da concentrare nel primo grado in modo da snellire i processi in questa fase e poi, non essendoci più l’appello, snellire l’iter complessivo della procedura. 

Bisogna insistere sulla strada del sequestro e del riutilizzo dei beni? Come? 

Abbiamo cominciato a Palermo, durante la mia direzione di quella procura e siamo riusciti, in quegli anni, a sequestrare ai mafiosi beni per un valore complessivo di diecimila miliardi di vecchie lire, una piccola finanziaria. Poi in Sicilia, ma anche in Calabria, in Campania, in Puglia e oggi anche nel Centro e nel Nord del nostro Paese, lungo questa strada si sono fatti dei passi significativi. Oggi il patrimonio sequestrato ai mafiosi è di una imponenza incredibile. Ed è vero che i mafiosi, più che il carcere, temono che qualcuno li tocchi nel portafoglio. Quanto al realizzo sociale, è importante, perché è la dimostrazione che la legalità paga. Più legalità significa meno mafia. I beni sequestrati significano lavoro che prima non c’era, iniziative imprenditoriali che prima non c’erano, c’è un riscatto di dignità, la riappropriazione del futuro da parte di questi giovani che diventano cittadini e non sono più sudditi della mafia. La procedura è ancora un po’ barocca. Uno dei punti più critici è quello delle ipoteche delle banche sui beni confiscati. Queste ipoteche, finché ci sono, vanificano l’attività meritoria di realizzo sociale. È troppo chiedere che anche le banche si impegnino sulle strade dell’antimafia?
Annachiara Valle

Giovanni Paolo II nella Valle dei templi il 9 maggio 1993 (foto Olycom)

di Luigi Ciotti, fondatore di Libera 

Era il 9 maggio del 1993. Giovanni Paolo II, in visita in Sicilia, incontra i genitori di Rosario Livatino, giovane giudice assassinato da Cosa nostra. Poco dopo, dalla Valle dei Templi di Agrigento, sovvertendo il protocollo, chiamerà la mafia «una civiltà di morte» ed esorterà i mafiosi a convertirsi.

La reazione non si fa attendere. Il 27 luglio, la dinamite danneggia a Roma le chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro. Il 15 settembre viene assassinato don Pino Puglisi e pochi mesi dopo don Peppe Diana. 

Quella stessa estate, i magistrati avevano raccolto le confessioni di un mafioso di primo livello, Francesco Marino Mannoia: «Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile. Ora invece Cosa nostra sta attaccando la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: non interferite».

Il giudice Rosario Livatino ucciso 
dalla mafia il 21 settembre 1990 (foto ansa)

Ricordare il discorso del Papa del '93, significa allora essere capaci – come sacerdoti, come cristiani e come cittadini – d’interferire. Interferire denunciando le violenze e i soprusi. Interferire mostrando nelle scelte e nell’impegno che il Vangelo è incompatibile non solo con le mafie, ma con la corruzione, l’indifferenza, le disuguaglianze e le distruzioni di bene comune su cui le mafie edificano i loro imperi.

Se il discorso del Papa fu uno spartiacque, è perché d’allora non è stato più possibile giustificare silenzi, complicità, omissioni. La fede non può essere un salvacondotto. Non ci esonera dalle responsabilità sociali e civili, dal contribuire a costruire già in questa vita speranza e giustizia. Livatino che – amo credere – ispirò quel giorno l’accorata denuncia del Papa, aveva scritto su un quaderno: «Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili».

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