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martedì 18 luglio 2017

L'emozione dell'urlo dedicato a Lampedusa nell'esibizione ai mondiali di nuoto di Giorgio Minisini e Manila Flamini vale molto più dell'oro conquistato!!!




Un urlo struggente, emozionante, pieno di dolore, per sfogare tutte le sofferenze patite. L’Urlo di Lampedusa. “A scream from Lampedusa”. Un urlo d’oro, storico e dedicato. 
Così Giorgio Minisini e Manila Flamini sono entrati nella leggenda dello sport italiano, laureandosi Campioni del Mondo: per la prima volta nella storia l’Inno di Mameli risuona in una piscina internazionale di nuoto sincronizzato. Un momento epocale che è entrato di diritto negli annali azzurri. Ma non c’è soltanto il risultato sportivo. 
La medaglia della prima volta è figlia dei nostri giorni, è influenzata dal dramma dei migranti. Con grande artisticità e con il cuore hanno saputo creare pathos e convincere la giuria con un tema di fortissima attualità: quello dell’immigrazione, quello del dramma e delle difficoltà di chi cerca fortuna, di chi spera in una vita migliore. 
L’esibizione inizia con un vero urlo di Giorgio, poi gli azzurri entrano in acqua. Due minuti e 40 secondi di grazia, tecnica e forza per fotografare una storia d’amore che si conclude in tragedia, una lei che non sopravvive al lungo viaggio della speranza e muore prima dello sbarco. 

"Col fatto che muoio, io l'inizio lo faccio tutto ad occhi chiusi - sorride Manila Flamini- e l'unico contatto con l'esterno sono i suoni. Quando ho sentito l'ovazione del pubblico mi sono venuti i brividi". Giorgio la prende in braccio, tenta invano di rianimarla e lancia un urlo di dolore. Si tuffano e iniziano le acrobazie acquatiche che descrivono la disperazione di chi fugge dalla guerra e dalle persecuzioni, dalla fame, con il sogno della libertà. "Ci emozioniamo anche noi a farlo - continua Minisini - e riuscire a trasmettere il nostro messaggio è la cosa più bella che possiamo desiderare".

Il musicista Michele Braga, che ha composto il brano 'A scream from Lampedusa' che fotografa il dramma, l'amore e la speranza di tante famiglie che ogni giorno fuggono dall'odio della guerra, dalla piaga della fame e dalla persecuzione politica e religiosa, e le cui note hanno accompagnato i due atleti italiani nel conquistare la medaglia d'oro ai Mondiali, racconta: "Collaboro con loro da un paio di anni e alcuni mesi fa Patrizia Giallombardo mi aveva chiesto dei brani nuovi per il duo misto e per la squadra che sta gareggiando ai Mondiali di Budapest ed io le dissi che avrei voluto scrivere un brano che raccontasse il dramma dei migranti, era appena affondato l'ennesimo barcone pieno di uomini, donne e bambini, e molti erano morti. Sapevamo che dare un contenuto sociale e politico poteva essere anche sbagliato a livello strategico in una competizione sportiva, ma ci abbiamo provato lo stesso, anche per battere un colpo nella comunità internazionale, per dire: 'il dramma c'è, ve lo facciamo vedere anche durante i mondiali di nuoto, è inutile che vi girate dall'altra parte. Questo era un po' il senso."
Guarda il video della gara


La medaglia in omaggio a Lampedusa
di Antonio Scurati

Guardate quelle braccia protese sull’acqua ad accogliere il corpo abbandonato con un gesto vigoroso e, insieme, aggraziato, un gesto di cui mai vi sareste creduti capaci. Guardate le braccia possenti e soccorrevoli di Manila Flamini e di Giorgio Minisini che hanno vinto la medaglia d’oro nel nuoto sincronizzato danzando su di una coreografia e una musica consacrate alla tragedia dei migranti. Guardatele, concittadini italiani, perché sono le vostre braccia. E siate fieri – una volta tanto – di ascoltare le note del nostro inno risuonare in mondovisione, senza timore di eccessi nazionalistici e senza remore, perché la fierezza patriottica di sentirsi italiani in questo caso è del tutto giustificata. E non tanto per l’impresa sportiva ma per la gloria maggiore dell’impresa umana che richiama. Diciamolo con forza, a voce piena: pur con tutti i suoi limiti, le sue contrarietà, le sue contraddizioni, le sue problematiche conseguenze, l’opera di salvataggio in mare dei migranti che l’Italia, quasi da sola, sta compiendo in questi anni nel Mediterraneo, sarà pure materia di polemica sotto lo sguardo miope della cronaca, ma è un’azione gloriosa di fronte allo sguardo ampio e lungo della storia. Siatene fieri. Pensate a voi stessi così: noi siamo gli italiani, le genti che cucinano gli spaghetti con il pomodoro, che coltivano come nessun altro il gusto della vita e che salvano dalla morte i naufraghi in mare. Sì, perché un uomo in mare va salvato. Sempre. Chiunque esso sia. Anche lo sconosciuto va salvato, anche l’avversario, anche il nemico, perfino il pirata va salvato, a costo di doverlo poi impiccare all’albero di maestra. Salvare il naufrago che affoga – come ci ricordano gli atleti italiani esibendosi sul tema di A scream from Lampedusa – è da sempre un dovere umano fondamentale in cui si rispecchia la stessa condizione umana. Il gesto pietoso di tirare a bordo il fratello ignoto disperso in mare è da sempre un atto antropogenico, cioè un momento in cui si compie il divenire umano della nostra specie animale nel distinguersi da tutte le altre, in cui l’umanità si genera e si rigenera. Lo è perché in quel soccorso tra terra e mare, che si compie sul confine tra la solidità del suolo abitabile e l’inquietudine abissale dei flutti, al confine sempre labile tra sommersi e salvati, ogni individuo si riconosce nel destino di una specie fragile, disperatamente aggrappata a una zolla di terra anfibia, assediata su ogni sponda dai gorghi del nulla. Facciamo un'enorme fatica, inutile nasconderselo, di questi tempi, a restare umani. Le ragioni sono molte e tutte valide, questo va detto, a cominciare dal fatto che le migrazioni dal continente africano rappresentano una vera e propria minaccia per la sopravvivenza stessa della nostra società. Basta un semplice dato per comprenderlo: la percentuale di figli per donna in Africa è di 4,7 (in Niger 7,6!), in Europa di 1,6 (in Italia di 1,3!). Sono statistiche che prefigurano per i prossimi decenni un’invasione, niente di meno che un’invasione. Inoltre, fino a ieri, il divario tra i naufraghi che approdano moribondi sulle stesse spiagge dove noi trascorriamo le nostre rilassanti vacanze, tra i due opposti destini di popoli che abitano le diverse sponde di uno stesso mare, il divario esistenziale tra migranti e bagnanti ha rappresentato un abisso concettuale ed esperienziale incolmabile. Le differenze di condizioni di vita tra «noi» e «loro» erano – e restano – talmente grandi che quelle spiagge divenivano, paradossalmente, il teatro assurdo di un incontro ogni volta mancato, invece che di un incontro finalmente riuscito. Eppure, finalmente, qualcosa forse si smuove. Il dramma dei migranti, come dimostrano, solo per citare due esempi, Fuocoammare, il film di Gianfranco Rosi premiato a Berlino, o, adesso, A scream from Lampedusa, comincia a entrare in uno storytelling diffuso che può, in taluni casi, fornire l’alibi consolatorio per continuare a mancare quell’incontro fatidico con i sommersi di questa tragedia immane ma, in altri casi, anche cominciare a forgiare una nuova coscienza nazionale proprio a partire da questa nostra opera di soccorritori obbligati e, ciò nondimeno, gloriosi. I migranti forniscono – credo – uno di quei temi su cui la società civile è più avanzata del ceto politico che la dovrebbe rappresentare. Su entrambi i fronti dello schieramento: il conato di rigetto verso gli immigrati di molti italiani è perfino più radicale di quello espresso dai partiti di destra che lo cavalcano (e bisognerà prenderlo molto sul serio perché non è privo di fondamento); ma, d’altro canto, la comprensione della drammatica necessità di una convivenza destinale da parte dei moltissimi italiani votati all’accoglienza è più evoluta della vacua demagogia umanitaria della sinistra terzomondista (e dovremmo finalmente liberarcene perché con quella non si va da nessuna parte). Insomma, il grido che si leva da Lampedusa, chiama tutti noi, bagnanti e migranti, a elevarci all’altezza di un dramma epocale. Niente di meno che questo.
(articolo di Antonio Scurati pubblicato su La Stampa il 18/07/2017)