Benvenuto a chiunque è alla "ricerca di senso nel quotidiano"



venerdì 12 agosto 2016

La bella storia di Halkawt Nuri da profugo curdo a cardiochirurgo

Da profugo curdo a cardiochirurgo
"Ho ridato un cuore a mille bambini"

Policlinico San Donato, reparto di cardiochirurgia infantile. Fiori e farfalle dipinti sulle pareti divertono, a volte, i bambini, ma non ingannano le mamme: italiane e straniere, hanno tutte la stessa espressione, in queste giornate che anche a Milano sanno di sole e di mare. Ma non qua dentro. Nei letti troppo grandi i bambini sembrano tutti bambole.

Il pianista di Erbil

Il sollievo è evidente quando nelle camere dei 36 piccoli ricoverati con il cuore malato entra il giovane dottore: ha la capacità di infondere fiducia e speranza, ogni sua parola è un’ancora cui aggrapparsi. Halkawt Nuri, 35 anni, è curdo e se oggi è un vero talento della cardiochirurgia pediatrica lo deve nell’odine alla guerra, alla sua famiglia e all’Italia. «Sono nato nella capitale Erbil nel 1980 e già pochi giorni dopo è scoppiata la guerra tra Iran e Iraq – racconta –. La mia infanzia era scandita da bombe e morti, mio padre restava nascosto in casa per non essere preso e mandato a combattere contro gli iraniani in una guerra non nostra». Quella di Nuri era una bella famiglia, ricca delle cose essenziali, amore e cultura. «Amavo la musica e i miei mi fecero studiare pianoforte. Non potendo mai uscire di casa per la guerra, suonavo tutto il giorno la pianola». Le foto di famiglia lo ritraggono elegante, in un saggio di musica davanti al pubblico.

"Scappammo in dodici su un'auto"

Ma nel 1991, quando ha 11 anni, l’invasione irachena spezza ogni sogno e costringe i curdi a un esodo biblico: tra le colonne interminabili che si inerpicano sulle montagne desertiche c’è anche il piccolo Halkawt, «scappammo in dodici su una sola macchina». L’arrivo in campo profughi, il freddo, la calca tra bambini per afferrare cibo e acqua dai camion di aiuti rendono la sua casa un sogno lontano, «pensavo alla mia pianola, che non l’avrei più rivista...». Invece la famiglia Nuri rientra a Erbil e Halkawt torna a scuola, con un nuovo desiderio di cambiare le cose: «È allora che decisi che sarei diventato medico, volevo offrire qualcosa al mio popolo innocente e martoriato. I curdi chiedono solo pace, ma nei secoli sono sempre stati aggrediti. Anche oggi siamo in guerra, contro l’Isis». Sono anni duri, a causa dell’embargo e della nuova guerra tra Usa e Iraq manca la corrente e il giovane Halkawt studia con la boccetta di petrolio accesa sui libri, ma non demorde, e i suoi genitori fanno di tutto perché lui e i suoi tre fratellini minori abbiano un’istruzione.

"In tivù vidi un medico italiano... E la mia vita cambiò"

Nel 2004 finalmente la laurea in Medicina. «Stavo preparando la festa. Quel giorno doveva passare per la nostra via un politico e gli integralisti islamici fecero scoppiare un’autobomba... Il politico non passò, ma mio padre che lavorava nel suo negozio di condizionatori rimase ucciso, unica vittima dell’attentato». Per due anni Nuri lavora al pronto soccorso e una di quelle sere, in ospedale, vede al telegiornale l’appello di un medico italiano: «Era in Kurdistan e cercava giovani medici per formarli come cardiochirurghi. Si presentarono in molti, ne scelse due, uno ero io».

Guarda il video realizzato da Claudia Florio per European Heart for Children e per Associazione Bambini cardiopatici nel mondo

Migliaia di piccoli cuori riprendono a battere

L’italiano era il professor Alessandro Frigiola, primario di cardiochirurgia pediatrica al Policlinico San Donato Irccs di Milano, fondatore dell’Associazione "Bambini cariopatici nel mondo", al suo attivo 2.851 piccoli cuori operati durante 350 missioni sanitarie in 30 Paesi poveri. E soprattutto la formazione di 282 cardiologi e infermieri locali, che possano andare avanti a curare la loro gente e formare a loro volta nuovi medici. A Milano Halkawt Nuri scopre che la sua laurea in Medicina non è riconosciuta, ma non si perde d’animo nemmeno questa volta, studia l’italiano per un anno e prende una seconda laurea: è il 2012 e torna in Kurdistan come cardiochirurgo, dove opera i primi sette bambini. Successivamente va a Boston per specializzarsi... «ma lì ho scoperto che la laurea italiana negli Stati Uniti non bastava». Altri esami, la terza laurea e finalmente nel 2015 il sospirato ritorno in Kurdistan per realizzare l’obiettivo originale, creare quel centro di cardiochirurgia pediatrico ideato da Alessandro Frigiola. «Per ora però non è possibile, la guerra contro l’Isis paralizza il mio Paese, da mesi insegnanti e medici non ricevono lo stipendio, così sono io, insieme all’équipe di Frigiola, a fare la spola: sto giù due o tre mesi a operare i bambini in Kurdistan e ci portiamo dietro tutti i materiali necessari per intervenire su cuoricini così piccoli. I casì più gravi, invece, li portiamo a Milano». Anche a luglio sono arrivate tre bambine, la più piccola di un anno. «Come andrà il loro futuro lo sa solo Dio, ma il nostro dovere di medici era dare anche a loro la possibilità che hanno tutti gli altri bambini di provare a crescere e vivere». La prova più terribile è dover scegliere, tra centinaia di piccoli malati, chi portare in Italia, e la priorità va a chi non può più aspettare. «Sinceramente la massima gratificazione è vedere la gioia dei genitori quando dici che tutto è andato bene. La frustrazione invece è ciò che mi è successo quest’anno, un bimbo morto mentre attendeva solo il visto».

Salvare vite ad ogni costo

Tra Italia, Stati Uniti e Kurdistan sono ormai oltre 1.100 gli interventi cui ha preso parte come primo operatore o come aiuto, e dietro ognuno c’è una vita unica e irripetibile. «Sono quasi sempre operazioni rischiosissime, ma l’alternativa è lasciarli morire senza nemmeno provare o dare loro una possibilità. Come medici crediamo che una chance vada data a tutti, se necessario ci inventiamo gli attrezzi, in Paesi in cui non esiste nulla non vai per il sottile...». Lì ci sono file di genitori in attesa, non cordate di avvocati pronti a querele, ma Nuri risponde deciso: «L’avvocato sono io stesso, in coscienza devo sapere che ho fatto di tutto: i pazienti sono sempre tre, il bambino e i due genitori, bisogna informarli onestamente, accudirli, tenere viva la speranza». Operazioni che durano dalle 6 alle 8 ore, ma alla fine se salvi una vita ricevi il dono più grande. «Ho visto risorgere pazienti con un 1% di speranza». In fondo è la sua personale guerra da islamico contro l’Isis, «loro a sgozzare, come a Dacca, come a Rouen, e noi qui a salvare a tutti i costi. Sono dei falliti, mostri senza fede. Noi facciamo il lavoro opposto. Io ho il dono della fede, ma ogni persona matura sa dove sta il bene e dove il male, non deve per forza credere per scegliere la giustizia».

Anche a Milano la speranza parla curdo

Questa notte il dottor Nuri sarà di turno in terapia intensiva tra i dieci bambini da poco operati, ma prima fa il giro del reparto. Shahrin, 12 anni, curda, lo saluta con un debole sorriso: operazione riuscita, tra una settimana sarà a casa. Radiosa è la mamma di Momen, maschietto tunisino di un mese, nato con il cuore capovolto e senza nemmeno la forza di piangere. Ora succhia il latte dalla madre. Il medico dialoga in curdo con la prima, in arabo con la seconda, poi scuote la testa: «Parliamo tutte le lingue e poi ci facciamo la guerra». Nella stanza accanto una donna italiana tiene un involto bianco di pezza sulle ginocchia e ci guarda dentro, ma lei non sorride: «Il suo lo operiamo domani mattina».
(fonte: articolo di Lucia Bellaspiga - Avvenire 10/08/2016)