domenica 31 marzo 2019

Papa Francesco in Marocco - Prima parte (cronaca, foto, testi e video)


VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
IN MAROCCO
30-31 MARZO 2019


Come di consuetudine, Papa Francesco ha affidato alla Madonna il 28.mo viaggio apostolico in Marocco e venerdì mattina, il giorno prima della partenza, si è recato nella Basilica di Santa Maria Maggiore e ha sostato in preghiera davanti all’immagine della Vergine Salus Popoli Romani.


Prima di lasciare Casa Santa Marta, Papa Francesco ha incontrato un gruppo di migranti marocchini ospitati in Italia dalla Comunità di Sant’Egidio, riferisce la Sala Stampa della Santa Sede: “Si tratta di due famiglie, ognuna delle quali con due bambini, due giovani donne e un ragazzo”. Il gruppo è stato accompagnato dall’elemosiniere, il card. Konrad Krajewski. 


Quindi, lasciato il Vaticano, Francesco si è trasferito in auto all’aeroporto di Roma-Fiumicino da dove, alle ore 10.57, a bordo di un A320 dell’Alitalia, è partito alla volta di Rabat. 


Come di consueto, nel momento di lasciare il territorio italiano, il Papa ha fatto pervenire al presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, un telegramma in cui si legge: “Nel momento in cui mi accingo a compiere il mio viaggio apostolico in Marocco, per incontrare quel nobile popolo, condividendo con la comunità cattolica momenti di preghiera e di comunione e incoraggiando il dialogo interreligioso, mi è caro rivolgere a lei, signore presidente, e alla nazione italiana il mio cordiale saluto, che accompagno con fervidi auspici affinché l’Italia possa sempre tener alta la tensione verso i valori etici e spirituali della persona e della convivenza sociale, ricercando, con sforzo concorde, soluzioni ispirate alla solidarietà”.

SALUTO DEL SANTO PADRE AI GIORNALISTI
DURANTE IL VOLO DIRETTO A RABAT

Poco dopo il decollo dell’Airbus 320 di Alitalia che lo stava portando in Marocco, Papa Francesco come di consueto è andato a salutare i 69 giornalisti e operatori che viaggiano con la delegazione papale.

Alessandro Gisotti:

Benvenuto, Santo Padre; benvenuti tutti voi. Bienvenues au collègues journalistes du Maroc pour cette visite, la première visite historique du Pape François dans votre Pays.

Santo Padre, il motto di questo viaggio è “Servitore della speranza”: è bello che avvenga proprio in un Paese dove c’è convivenza e fratellanza tra cristiani e musulmani, proprio dopo la firma del documento sulla fratellanza umana ad Abu Dhabi.


Papa Francesco:

Buongiorno a tutti voi. Grazie della compagnia. Spero che il vostro lavoro sia fecondo. Sarà stancante, di sicuro, ma spero sia fecondo. Mi hanno detto anche che oggi c’è festa: non so se ci sarà la torta, ma ci sono due compleanni, non è vero? Tanti auguri! Grazie.


Francesco si riferiva ai compleanni celebrati in questi giorni da Gerard O’Connel, vaticanista di America, e Philip Pullella, vaticanista della Reuters. Il Papa ha quindi salutato uno ad uno i giornalisti. La cronista del Messaggero gli ha chiesto un commento sul Congresso mondiale delle famiglie a Verona. Francesco ha detto di non avere nulla da aggiungere a quanto ha dichiarato il Segretario di Stato Pietro Parolin. Come si ricorderà, il cardinale Parolin a margine di un convegno al Bambin Gesù, aveva detto di essere “d’accordo nella sostanza” con i temi del congresso di Verona ma un po’ meno “sulle modalità”. Al Papa è stato donato un disegno: una nave miniaturizzata in bottiglia, realizzata con materiali di scarto dai carcerati di un Istituto di pena spagnolo.




Il Papa è arrivato all’aeroporto internazionale di Rabat-Salé sotto la pioggia, tanto che ha sceso la scaletta dell’aereo sotto l’ombrello. 

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È stato subito accolto dal re del Marocco Mohammed VI, coperto da un lungo impermeabile giallo con cappuccio, e da due bambini in abito tradizionale, che gli hanno consegnato un omaggio floreale.  


Dopo il picchetto d’onore, Francesco, accompagnato dal re, ha salutato l’arcivescovo di Rabat, mons. Cristóbal López Romero, prima di recarsi al Salon Royal dove gli vengono offerti datteri e latte di mandorla in segno di ospitalità e accoglienza. Quindi il trasferimento in auto alla spianata della Tour Hassan per la cerimonia di benvenuto in Marocco: il re e il Papa viaggiano in due vetture separate, Francesco sulla papamobile e Mohammed VI in limousine, per il primo “bagno” di folla tra il popolo marocchino. Al suo arrivo alla spianata della Tour Hassan, il Papa, accompagnato dal re, si è recato all’ingresso principale della spianata per la cerimonia di benvenuto. Dopo l’esecuzione degli inni, gli onori militari e la presentazione delle Delegazioni, il Santo Padre e il Re si avviano insieme al podio per l’incontro con il popolo del Marocco, le autorità, i rappresentanti della società civile e i membri del Corpo Diplomatico, occasione del primo discorso del Papa.







INCONTRO CON IL POPOLO MAROCCHINO, LE AUTORITÀ,
CON LA SOCIETÀ CIVILE E CON IL CORPO DIPLOMATICO
Esplanade de la Tour Hassan (Rabat)
Sabato, 30 marzo 2019


Atterrato a Rabat, sotto quella pioggia che, come già avevano spiegato negli Emirati arabi, è segno di benedizione, Francesco è stato accolto con datteri e latte di mandorla, come è tradizione dell’ospitalità marocchina, e da un popolo molto caldo che si è assiepato lungo i 9,7 chilometri che separano l’aeroporto dalla spianata della Tour Hassan. La papa mobile scoperta e la macchina in cui viaggiava il re Mohammed VI sfilavano appaiate salutando la folla.


Il re, nel discorso di saluto segnala subito che la visita di papa Francesco segna una «apertura e una fertilizzazione reciproca ed è un simbolo di equilibrio. Volutamente ci siamo trovati qui tra Mediterraneo e Atlantico perché sia un simbolo di scambio tra Africa e Europa. Abbiamo voluto che questa sua visita sia un segno di speranza».

Parla di radicalismo ricordando che esso nasce dall’ignoranza e che per combatterlo la vera arma è l’educazione. Un discorso lungo in cui mette l’accento anche «sulla lotta alla povertà, alla corruzione, ai cambiamenti climatici e a tutto ciò che minaccia le nostre società» che deve vedere insieme cristiani musulmani ed ebrei per un «messaggio comune rivolto a tutta l’umanità».

Papa Francesco ringrazia per le parole e «per l’affettuosa accoglienza» e ricorda che «questa visita è per me motivo di gioia e gratitudine perché mi consente anzitutto di scoprire le ricchezze della vostra terra, del vostro popolo e delle vostre tradizioni. Gratitudine che si trasforma in importante opportunità per promuovere il dialogo interreligioso e la conoscenza reciproca tra i fedeli delle nostre due religioni, mentre facciamo memoria – ottocento anni dopo – dello storico incontro tra San Francesco d’Assisi e il Sultano al-Malik al-Kamil».

Un evento profetico, quello che indica «una via di pace e di armonia per l’umanità, là dove l’estremismo e l’odio sono fattori di divisione e di distruzione».

È invece la collaborazione che può consentire di approfondire quei «nostri legami di amicizia sincera, per consentire alle nostre comunità di preparare un futuro migliore alle nuove generazioni».

Anche papa Francesco mette l’accento su una terra che è «ponte naturale tra l’Africa e l’Europa» e da cui si può dare nuovo «impulso alla costruzione di un mondo più solidale, più impegnato nello sforzo onesto, coraggioso e indispensabile di un dialogo rispettoso delle ricchezze e delle specificità di ogni popolo e di ogni persona».

Il dialogo, come aveva già detto il re, è «essenziale» per «partecipare all’edificazione di una società aperta, plurale e solidale», per «sviluppare e assumere costantemente e senza cedimenti la cultura del dialogo come strada da percorrere». Richiama la dichiarazione sulla fratellanza umana, firmata ad Abu Dhabi per ricordare che le due religione hanno stabilito, in quel documento «la collaborazione come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio».



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Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - IV Domenica di Quaresima – Anno C





Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)







Preghiera dei Fedeli

IV Domenica di Quaresima / Anno C

31 marzo 2019


Colui che presiede 

Fratelli e sorelle, nel volto umano di Gesù e nel suo modo di relazionarsi con tutti ci è dato di poter cogliere l’intimità stessa del Padre. Egli è il Padre che ama follemente ogni creatura umana, perché egli vuole che nessuno si perda. Con fiducia filiale supplichiamo questo Padre misericordioso e fedele nell’amore ed insieme diciamo: 

R/ Dio, Padre di ogni misericordia, ascoltaci 

Lettore 

- Perdona e custodisci, o Padre, la tua Chiesa, perché resti fedele alla sua vocazione di comunità aperta alla fraternità universale. Riempila del tuo Santo Spirito, perché l’ascolto obbediente del Vangelo del tuo Figlio Gesù la renda spazio di riconciliazione per ogni persona che desidera tornare a Te. Preghiamo. 

- Ascolta, o Padre, il grido che si innalza dalla Terra e da tutti quei popoli coinvolti in guerre devastanti e disumane. Sii vicino alle popolazioni del Mozambico e dello Zimbawe, così provate dalla violenza della natura. Accogli il dolore ed i sospiri di quei migranti che si ritrovano prigionieri e sfruttati nell’inferno della Libia, e scalfisci l’indifferenza e il cinismo dei governanti del nostro Paese e della nostra Europa. Preghiamo. 

- Ti affidiamo, o Padre, la fatica e la pazienza di quanti stentano a portare a casa un pezzo di pane. Ti affidiamo, inoltre, le speranze e le disillusioni di tanti giovani, che non riescono a dare un assetto definitivo alla loro vita. Ricordati di quanti sprecano la loro vita dietro alle varie droghe o ai tanti giochi di azzardo permessi dalla Stato. Preghiamo. 

- Sii paziente con noi, o Padre, e guidaci sulla strada di una vera conversione, che ci consenta di crescere in umanità, per assomigliare sempre più al tuo Figlio Gesù. Ricordati dei nostri familiari, delle persone che conosciamo, ma ricordati anche di chi è gravemente ammalato o di chi si ritrova rinchiuso nella sua disperazione. Preghiamo. 

- Davanti a Te, o Padre misericordioso, ci ricordiamo dei nostri parenti e amici defunti; ci ricordiamo anche delle vittime della violenza nelle famiglie, delle vittime della misoginia e dell’omofobia. Accogli tutti nella gioia festosa della Gerusalemme celeste. Preghiamo. 


Colui che presiede 

O Dio nostro Padre, noi affidiamo alla tua misericordia le nostre preghiere, con la certezza che tu l’esaudirai, perché sei venuto a cercare e a salvare i perduti e i falliti della storia, inviando il tuo Figlio Gesù, che vive e regna con te nei secoli dei secoli. AMEN.
  


"Un cuore che ascolta - lev shomea" - n. 21/2018-2019 (C) di Santino Coppolino

"Un cuore che ascolta - lev shomea"
Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)


Traccia di riflessione
sul Vangelo della domenica
di Santino Coppolino

Vangelo: 
Lc 15,1-3.11-32



Gesù ha appena posto tre condizioni molto dure per la sequela: libertà da ogni vincolo anche da quelli familiari, libertà da se stessi fino a perdere la reputazione e la vita (la croce); libertà dall'idolatria del denaro e dai beni (14, 25-35). Nonostante la durezza e le evidenti difficoltà di queste condizioni, pubblicani e peccatori si accostano a Gesù, lo ascoltano volentieri e sono da lui accolti, mentre scribi e farisei, i pii e zelanti custodi della dottrina ebraica educati alla logica delle virtù e del merito, mormorano. Proprio per stigmatizzare il loro comportamento, Gesù narra le tre parabole della misericordia: la pecora perduta, la dracma smarrita e la parabola del figlio prodigo o del padre misericordioso. Si tratta di un trittico di parabole, ma in realtà la parabola è una sola. Come nel trittico pittorico, le due parti più brevi (le pale laterali) acquistano significato solo se sono in relazione con la parte più lunga (la pala centrale), la quale è illuminata e completata da quelle più brevi. Un padre, il cui figlio scapestrato va via di casa, certo non se ne sta con le mani in mano ad attenderne l'improbabile ritorno, ma invia il Pastore Buono perché ritrovi la pecora traviata e la riporti a casa sana e salva, abbandonando le rimanenti novantanove nel deserto. Chi di noi non farebbe lo stesso, dice Gesù? Veramente nessuno di noi farebbe questo se non uno squilibrato. La situazione è illogica, assurda e incomprensibile, come illogico, assurdo e incomprensibile è l'amore del Padre per ogni figlio. Solo un folle accoglierebbe in casa un figlio che ha dilapidato il patrimonio di famiglia senza il minimo rimprovero e, per di più, reintegrandolo nel suo rango originario (la veste, l'anello e i sandali). Così è l'amore del Padre, come l'utero accogliente di una madre (in ebr. rahamim), che si allarga per accogliere e fare spazio alla vita che si sviluppa. L'amore di Dio non risponde a nessuna logica umana, non fa calcoli, agisce senza una apparente ragione, è offerto a tutti, buoni e cattivi: al figlio ribelle come al figlio maggiore che ritiene di essere buono, ma si arroga il diritto di condannare il fratello. Nel cuore del Padre nessun figlio è escluso dal suo amore, nessun figlio è talmente perduto da non potere essere cercato, ritrovato e avvolto dal suo tenero abbraccio.


sabato 30 marzo 2019

"Non importa perché torni. A Dio basta il primo passo" di p. Ermes Ronchi - IV Domenica Tempo di Quaresima – Anno C

Non importa perché torni. A Dio basta il primo passo

Commento
 IV Domenica Tempo di Quaresima – Anno C

Letture:  Giosuè 5,9-12; Salmo 33; 2 Corinzi 5,17-21; Luca 15, 1-3.11-32

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. (...).

La parabola più bella, in quattro sequenze narrative. 

Prima scena. Un padre aveva due figli. Nella bibbia, questo incipit causa subito tensione: le storie di fratelli non sono mai facili, spesso raccontano drammi di violenza e menzogne, riportano alla mente Caino e Abele, Ismaele e Isacco, Giacobbe ed Esaù, Giuseppe e i suoi fratelli, e il dolore dei genitori.
Un giorno il figlio minore se ne va, in cerca di se stesso, con la sua parte di eredità, di “vita”. E il padre non si oppone, lo lascia andare anche se teme che si farà male: lui ama la libertà dei figli, la provoca, la festeggia, la patisce. Un uomo giusto.

Secondo quadro. Quello che il giovane inizia è il viaggio della libertà, ma le sue scelte si rivelano come scelte senza salvezza («sperperò le sue sostanze vivendo in modo dissoluto»). Una illusione di felicità da cui si risveglierà in mezzo ai porci, ladro di ghiande per sopravvivere: il principe ribelle è diventato servo. 
Allora rientra in sé, lo fanno ragionare la fame, la dignità umana perduta, il ricordo del padre: «quanti salariati in casa di mio padre, quanto pane!». Con occhi da adulto, ora conosce il padre innanzitutto come un signore che ha rispetto della propria servitù (R. Virgili). E decide di ritornare, non come figlio, ma come uno dei servi: non cerca un padre, cerca un buon padrone; non torna per senso di colpa, ma per fame; non torna per amore, ma perché muore. Ma a Dio non importa il motivo per cui ci mettiamo in cammino, a lui basta il primo passo

Terza sequenza. Ora l'azione diventa incalzante. Il padre, che è attesa eternamente aperta, «lo vede che era ancora lontano», e mentre il figlio cammina, lui corre. E mentre il ragazzo prova una scusa, il padre non rinfaccia ma abbraccia: ha fretta di capovolgere la lontananza in carezze. Per lui perdere un figlio è una perdita infinita. Non ha figli da buttare, Dio. E lo mostra con gesti che sono materni e paterni insieme, e infine regali: «presto, il vestito più bello, l'anello, i sandali, il banchetto della gioia e della festa».

Ultima scena. Lo sguardo ora lascia la casa in festa e si posa su di un terzo personaggio che si avvicina, di ritorno dal lavoro. L'uomo sente la musica, ma non sorride: lui non ha la festa nel cuore (R. Virgili). Buon lavoratore, ubbidiente e infelice. Alle prese con l'infelicità che deriva da un cuore che non ama le cose che fa, e non fa le cose che ama: io ti ho sempre ubbidito e a me neanche un capretto... il cuore assente, il cuore altrove.
E il padre, che cerca figli e non servi, fratelli e non rivali, lo prega con dolcezza di entrare: è in tavola la vita.
Il finale è aperto: capirà? 
Aperto sull'offerta mai revocata di Dio.


“Hanno faticato per il Signore” (Rm 16,12). La diaconia delle donne nelle lettere di Paolo.- Egidio Palumbo (VIDEO INTEGRALE)

“Hanno faticato per il Signore” (Rm 16,12).
La diaconia delle donne nelle lettere di Paolo.
Egidio Palumbo 
(VIDEO INTEGRALE)

I Mercoledì della Bibbia 2019
promossi dalla
Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto (ME)



Incontro di mercoledì 13 marzo
(Ultimo dei  Mercoledì della Bibbia 2019)




1. Un giudizio troppo negativo da ridimensionare

Il giudizio di misoginia, ovvero di repulsione o avversione per la donna, pesa sull’apostolo Paolo, a motivo di alcuni versetti delle sue lettere che ammoniscono le donne nelle assemblee liturgiche a coprirsi il capo con il “velo” o a tenere un’acconciatura adeguata (1Cor 11,5) e a non avere diritto di parola (1Cor 14,34-35; 1Tm 2,11-14), a pensare all’educazione delle giovani e a dedicarsi alla casa (Tt 2,3-5), a dare alla luce figli (1Tm 2,15), a stare sottomesse ai propri mariti, come la Chiesa è sottomessa a Cristo (1Cor 11,3.8-9; Ef 5,23; Col 3,18; Tt 2,5). Sono affermazioni che stridono con la nostra attuale sensibilità culturale (anche se oggi c’è più di un nostalgico misogino… ); perciò hanno bisogno di essere collocate e comprese sia nel loro contesto socio-culturale, sia nel contesto delle lettere paoline e della fede biblica in genere, tenendo presente, per il contesto della fede biblica, il detto di S. Gregorio Magno: «La Scrittura cresce con chi la legge». 

Crescendo in questa prospettiva, allora, si vedrà che il giudizio di misoginia nei confronti di Paolo non corrisponde esattamente alla sua mentalità, alle sue intenzioni e alla sua azione pastorale di cura delle comunità cristiane.

Certamente il contesto socio-culturale in cui visse Paolo è fortemente segnato dalla dominante patriarcale, androcentrica (l’uomo maschio al centro) e maschilista. Anche la sua formazione religiosa di ebreo appartenente al movimento dei farisei rimane rilevante, ma egli lo ha integrato con il suo impegno di rilettura delle S. Scritture – in particolare della Torah – e della stessa fede ebraica alla luce dell’evento Cristo. 

In ultimo, il suo essere celibe (1Cor 7,8) – questa l’opinione più attestata – non è certo una componente secondaria della sua personalità, bensì una dimensione carismatica che ha strutturato il suo stile di vita, il suo modo di essere e di agire, poiché Paolo vive la verginità nella condizione celibataria, non per imposizione o come fuga, bensì per una scelta di fede libera e consapevole, motivata dal fatto che nel Cristo Risorto il mondo futuro è già presente e noi tutti siamo in cammino verso Lui che viene verso di noi (1Cor 7,29.31.32).

Ebbene, tenendo conto di tutto questo, si vedrà che Paolo, pur essendo figlio del suo tempo, in fondo – a motivo di Cristo – ha avuto rispetto per le donne e le ha pienamente coinvolte perché ha riconosciuto in loro sapienza e intraprendenza nell’annuncio del vangelo e nella cura pastorale delle comunità cristiane. Un tale atteggiamento, simile a quello di Paolo – dobbiamo riconoscerlo –, non è sempre facile riscontrarlo oggi nei nostri ambienti ecclesiali


La Parola di Dio non è soggetta al monopolio di alcuni, ma è per tutti i credenti, comprese le donne, purché tutti, uomini e donne, vengano ben istruiti nella conoscenza delle S. Scritture e siano ben formati umanamente e spiritualmente. Questo ci insegna Paolo. E vale anche per il nostro tempo.

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Incontro integrale

La sfida della famiglia è il futuro, non il passato di Mauro Magatti

La sfida della famiglia è il futuro, non il passato
di Mauro Magatti

Potrà sopravvivere se saprà rilegittimarsi come nodo di relazioni dove la differenza tra i generi e le generazioni — non si trasforma in disuguaglianza e dominio ma riesce a essere elaborata a vantaggio della libertà di tutti



La portata e la velocità delle mutazioni che hanno investito la sfera della vita famigliare sono impressionanti: liberalizzazione sessuale, divorzio, aborto, coppie di fatto e omosessuali, transgender, riproduzione assistita. Nel giro di un paio di generazioni, una delle più antiche istituzioni su cui si è fondata la cultura occidentale (basta un viaggio in Africa per rendersene conto) è diventata un’altra cosa. Indebolendone e ibridandone i legami — considerati troppo onerosi rispetto alla libertà fluttuante dell’Io contemporaneo — la nostra società ha rimesso in discussione, per prima volta nella sua storia, la struttura classica della famiglia, costruita attorno al nesso intergenerazionale ed eterosessuale.

Toccando un punto molto delicato della vita individuale e collettiva, una tale mutazione produce posizioni polarizzate, che si confrontano per lo più a colpi di slogan quando non di insulti. Il che non aiuta a riflettere sulle implicazioni di quanto sta accadendo. Dal lato dei progressisti, l’argomento su cui si insiste é quello della libertà e della non discriminazione delle differenze. Perché la legge dovrebbe sindacare il modo in cui le persone si amano?

Come non concordare con una tale affermazione? Assumendo, implicitamente, che lo spazio pubblico sia la somma di decisioni individuali, tale posizione sottovaluta però sia le condizioni che le conseguenze aggregate della trasformazioni in corso. Da una parte, le posizioni progressiste sembrano incuranti del nesso tra individualizzazione-tecnicizzazione-commercializzazione di cui si nutrono i mutamenti in atto. Siamo sicuri che il modello di famiglia oggi proposto non sia semplicemente funzionale alla società tecnocentrica? E soprattutto, come non vedere che il processo in corso — nascendo dall’incontro tra diritti individuali e possibilità tecniche — va nella direzione di ridurre la generazione a fabbricazione, con rischi incalcolabili dal punto di vista della libertà (come Hannah Arendt ha insegnato)? Dall’altra parte, sul versante delle conseguenze, la dissoluzione della famiglia aumenta il numero delle persone sole: già oggi in Italia siamo a 9 milioni (di cui poco meno di 5 con meno di 65 anni). Per questa via, quale tipo di società si costruirà nel lungo periodo? Tanto più che, come dice l’evidenza empirica, la famiglia instabile o multipla può non essere un problema per i forti e i ricchi; ma diventa un fattore di impoverimento ulteriore per chi è più fragile o svantaggiato.

Chi difende la famiglia tradizionale ricorda che si tratta di un organismo sociale a cui è demandato il compito di occuparsi di due questioni — la riproduzione biologica e la vita sessuale — che vanno protette da ogni tipo di colonizzazione. Sulla scorta di una storia millenaria, si riconosce alla famiglia il ruolo di insostituibile palestra dell’alterità concreta. Ci sono però diversi problemi che rimangono aperti. In primo luogo, dato che le cose sono già cambiate, che fare con le tante situazioni che già esistono? Come combinare il sostegno alla famiglia «riproduttiva» con il rispetto e la regolazione giuridica di altri legami che la cultura contemporanea ha ormai diffusamente introdotto?

In secondo luogo, per quanto sia chiaro che la famiglia (di qualsiasi tipo sia) abbia sempre una connotazione istituzionale, si converrà che la famiglia non può essere imposta per legge. Essa deve conquistare il suo consenso sul campo. Nella vita concreta delle persone. E partendo da qui, come negare che la crisi della famiglia dipende dal non essere riuscita a rispondere adeguatamente alle sfide poste dalla modernità avanzata? Ricorrere alla politica non è una scorciatoia pericolosa? Tanto più che non si può essere tanto ingenui da non vedere che la «difesa della famiglia» é (non da oggi) oggetto di strumentalizzazione da parte di forze politiche che hanno a cuore solo le prossime elezioni.

E infine, perché «famiglia tradizionale»? La famiglia non è un modello statico, ma una realtà viva, capace di adattamento alle diverse situazioni storiche. Perché rendere la famiglia oggetto di difesa invece che di proposta? I temi su cui lavorare sarebbero diversi. Penso, in primo luogo, ai rapporti di genere, che ancora aspettano di diventare pienamente rispettosi e valorizzanti la diversità. Penso, poi, ai rapporti tra le generazioni, ormai già cambiati in relazione alla ridefinizione della autorità oltre che all’allungamento della vita. Penso, infine, alle forme di vita e dell’abitare: il nucleo isolato della società industriale è anacronistico. Per respirare e rinnovarsi, la famiglia deve tornare a vivere e ad associarsi con altre famiglie. Con vantaggio proprio e dell’intera società.

Sollecitata dal cambiamento in atto, la famiglia - al di là delle sterili polemiche urlate — sopravviverà se saprà rilegittimarsi come nodo di relazioni dove la differenza — tra i generi e le generazioni — non si trasforma in disuguaglianza e dominio ma riesce a essere elaborata a vantaggio della libertà di tutti. A dispetto tanto di coloro che la vogliono liquidare quanto di coloro che la vogliono ossificare, la famiglia sopravviverà se, trasformandosi, scommetterà sul suo futuro più che sul suo passato. La famiglia più bella dobbiamo ancora vederla.

(Fonte: Corriere della Sera - 24 marzo 2019)

Leggi anche: 

venerdì 29 marzo 2019

«La Confessione è il passaggio dalla miseria alla misericordia, è la scrittura di Dio sul cuore.» Papa Francesco Liturgia penitenziale "24 ORE PER IL SIGNORE" 29/03/2019 (foto, testo e video)


LITURGIA PENITENZIALE - "24 ORE PER IL SIGNORE"
Basilica Vaticana
Venerdì, 29 marzo 2019


L’immagine, come ogni anno, è quella di un Papa penitente, inginocchiato davanti ad un sacerdote di uno dei 95 confessionali che costeggiano la navata destra della Basilica vaticana. Francesco celebra l’iniziativa “24 ore per il Signore” in San Pietro e, prima di confessare undici fedeli, tolti i paramenti, si dirige lui per primo a ricevere il sacramento della Riconciliazione. Per circa sei minuti Bergoglio rimane in ginocchio, con il capo chino e le mani giunte, con il sottofondo dei canti dei pueri cantores del coro della Cappella Sistina. Poi indossa la stola viola e si trasferisce in un confessionale dove incontra uomini e donne, tutti laici, provenienti da Italia, Colombia, Vietnam, Polonia. Intanto altri 80 sacerdoti confessano i numerosi fedeli di Roma e non solo riuniti in Basilica.
Al contrario degli ultimi due anni in cui aveva preferito per questa celebrazione quaresimale non pronunciare l’omelia ma concentrarsi nel silenzio della preghiera, per questa edizione dell’iniziativa - dedicata al tema “Neppure io ti condanno” tratto dal Vangelo di Giovanni (Gv 8, 11) - il Papa condivide con i presenti una sua riflessione.




OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

«Rimasero solo loro due: la misera e la misericordia» (In Joh 33,5). Così sant’Agostino inquadra il finale del Vangelo che abbiamo appena ascoltato. Sono andati via quelli venuti per scagliare pietre contro la donna o per accusare Gesù nei riguardi della Legge. Sono andati via, non avevano altri interessi. Gesù invece rimane. Rimane perché è rimasto quel che è prezioso ai suoi occhi: quella donna, quella persona. Per Lui prima del peccato viene il peccatore. Io, tu, ciascuno di noi nel cuore di Dio veniamo prima: prima degli sbagli, delle regole, dei giudizi e delle nostre cadute. Chiediamo la grazia di uno sguardo simile a quello di Gesù, chiediamo di avere l’inquadratura cristiana della vita, dove prima del peccato vediamo con amore il peccatore, prima dell’errore l’errante, prima della sua storia la persona.

«Rimasero solo loro due: la misera e la misericordia». Per Gesù quella donna sorpresa in adulterio non rappresenta un paragrafo della Legge, ma una situazione concreta nella quale coinvolgersi. Perciò rimane lì con la donna, stando quasi sempre in silenzio. E intanto compie per due volte un gesto misterioso: scrive col dito per terra (Gv 8,6.8). Non sappiamo che cosa abbia scritto e forse non è la cosa più importante: l’attenzione del Vangelo è posta infatti sul fatto che il Signore scrive. Viene alla mente l’episodio del Sinai, quando Dio aveva scritto le tavole della Legge col suo dito (cfr Es 31,18), proprio come fa Gesù ora. In seguito Dio, per mezzo dei profeti, aveva promesso di non scrivere più su tavole di pietra, ma direttamente sui cuori (cfr Ger 31,33), sulle tavole di carne dei nostri cuori (cfr 2 Cor 3,3). Con Gesù, misericordia di Dio incarnata, è giunto il momento di scrivere nel cuore dell’uomo, di dare una speranza certa alla miseria umana: di dare non tanto leggi esterne, che lasciano spesso distanti Dio e l’uomo, ma la legge dello Spirito, che entra nel cuore e lo libera. Così avviene per quella donna, che incontra Gesù e riprende a vivere. E va per non peccare più (cfr Gv 8,11). È Gesù che, con la forza dello Spirito Santo, ci libera dal male che abbiamo dentro, dal peccato che la Legge poteva ostacolare, ma non rimuovere.

Eppure il male è forte, ha un potere seducente: attira, ammalia. Per staccarcene non basta il nostro impegno, occorre un amore più grande. Senza Dio non si può vincere il male: solo il suo amore risolleva dentro, solo la sua tenerezza riversata nel cuore rende liberi. Se vogliamo la liberazione dal male va dato spazio al Signore, che perdona e guarisce. E lo fa soprattutto attraverso il Sacramento che stiamo per celebrare. La Confessione è il passaggio dalla miseria alla misericordia, è la scrittura di Dio sul cuore. Lì leggiamo ogni volta che siamo preziosi agli occhi di Dio, che Egli è Padre e ci ama più di quanto noi amiamo noi stessi.

«Rimasero solo loro due: la misera e la misericordia». Solo loro. Quante volte noi ci sentiamo soli e perdiamo il filo della vita. Quante volte non sappiamo più come ricominciare, oppressi dalla fatica di accettarci. Abbiamo bisogno di iniziare da capo, ma non sappiamo da dove. Il cristiano nasce col perdono che riceve nel Battesimo. E rinasce sempre da lì: dal perdono sorprendente di Dio, dalla sua misericordia che ci ristabilisce. Solo da perdonati possiamo ripartire rinfrancati, dopo aver provato la gioia di essere amati dal Padre fino in fondo. Solo attraverso il perdono di Dio accadono cose veramente nuove in noi. Riascoltiamo una frase che il Signore ci ha detto oggi attraverso il profeta Isaia: «Io faccio una cosa nuova» (Is 43,19). Il perdono ci dà un nuovo inizio, ci fa creature nuove, ci fa toccare con mano la vita nuova. Il perdono di Dio non è una fotocopia che si riproduce identica a ogni passaggio in confessionale. Ricevere tramite il sacerdote il perdono dei peccati è un’esperienza sempre nuova, originale e inimitabile. Ci fa passare dall’essere soli con le nostre miserie e i nostri accusatori, come la donna del Vangelo, all’essere risollevati e incoraggiati dal Signore, che ci fa ripartire.

«Rimasero solo loro due: la misera e la misericordia». Che cosa fare per affezionarsi alla misericordia, per superare il timore della Confessione? Accogliamo ancora l’invito di Isaia: «Non ve ne accorgete?» (Is 43,19). Accorgersi del perdono di Dio. È importante. Sarebbe bello, dopo la Confessione, rimanere come quella donna, con lo sguardo fisso su Gesù che ci ha appena liberato: non più sulle nostre miserie, ma sulla sua misericordia. Guardare il Crocifisso e dire con stupore: “Ecco dove sono andati a finire i miei peccati. Tu li ha presi su di te. Non mi hai puntato il dito, mi hai aperto le braccia e mi hai perdonato ancora”. 
È importante fare memoria del perdono di Dio, ricordarne la tenerezza, rigustare la pace e la libertà che abbiamo sperimentato. Perché questo è il cuore della Confessione: non i peccati che diciamo, ma l’amore divino che riceviamo e di cui abbiamo sempre bisogno. Può venirci ancora un dubbio: “confessarsi non serve, faccio sempre i soliti peccati”. Ma il Signore ci conosce, sa che la lotta interiore è dura, che siamo deboli e inclini a cadere, spesso recidivi nel fare il male. E ci propone di cominciare a essere recidivi nel bene, nel chiedere misericordia. Sarà Lui a risollevarci e a fare di noi creature nuove. Ripartiamo allora dalla Confessione, restituiamo a questo sacramento il posto che merita nella vita e nella pastorale!

«Rimasero solo loro due: la misera e la misericordia». Anche noi oggi viviamo nella Confessione questo incontro di salvezza: noi, con le nostre miserie e il nostro peccato; il Signore, che ci conosce, ci ama e ci libera dal male. Entriamo in questo incontro, chiedendo la grazia di riscoprirlo.

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«Il cibo non è proprietà privata, ma provvidenza da condividere, con la grazia di Dio. » Papa Francesco Udienza Generale 27/03/2019 (foto, testo e video)


UDIENZA GENERALE
Piazza San Pieto
Mercoledì, 27 marzo 2019


Il Papa ha fatto il suo ingresso in piazza San Pietro, per il consueto appuntamento del mercoledì, alle 9.15 circa, e subito ha cominciato il giro con la papamobile per salutare i 16mila fedeli presenti oggi, in una giornata romana dal tempo variabile, che ha fatto aprire tra la folla alcuni ombrelli per qualche goccia di pioggia e ha fatto volare lo zucchetto bianco, rimesso al suo posto pochi minuti dopo. Al centro dell’attenzione di Francesco, come d’abitudine, i più piccoli, alcuni muniti di cappuccio, che il Papa ha baciato e accarezzato lungo il percorso. Molto nutrita la presenza dei ragazzi delle scuole, italiane e straniere, e quella dei fedeli sudamericani, provenienti da Messico, Colombia, Argentina e Brasile. Come sottofondo musicale, i pellegrini presenti hanno potuto ascoltare, tra gli altri brani, l’inno della Giornata mondiale della gioventù. Tra i doni ricevuti, anche quello di un pallone da calcio multicolore, che è stato offerto al Papa da un bimbo in impeccabile tenuta sportiva calcistica, insieme con la maglia della sua squadra. Sulla jeep bianca troneggia, inoltre, un mazzo di rose rosse, in un involto di carta bianca, anch’esso dono dei fedeli. Prima di percorrere il tragitto a piedi che lo separa dalla sua postazione al centro del sagrato, appena sceso dalla papamobile, Francesco si è recato nella prima fila delle transenne, per salutare un gruppo di fedeli che lo aveva richiamato a gran voce.
















Catechesi sul “Padre nostro”: 11. Dacci il nostro pane quotidiano

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Passiamo oggi ad analizzare la seconda parte del “Padre nostro”, quella in cui presentiamo a Dio le nostre necessità. Questa seconda parte comincia con una parola che profuma di quotidiano: il pane.

La preghiera di Gesù parte da una domanda impellente, che molto somiglia all’implorazione di un mendicante: “Dacci il pane quotidiano!”. Questa preghiera proviene da un’evidenza che spesso dimentichiamo, vale a dire che non siamo creature autosufficienti, e che tutti i giorni abbiamo bisogno di nutrirci.

Le Scritture ci mostrano che per tanta gente l’incontro con Gesù si è realizzato a partire da una domanda. Gesù non chiede invocazioni raffinate, anzi, tutta l’esistenza umana, con i suoi problemi più concreti e quotidiani, può diventare preghiera. Nei Vangeli troviamo una moltitudine di mendicanti che supplicano liberazione e salvezza. Chi domanda il pane, chi la guarigione; alcuni la purificazione, altri la vista; o che una persona cara possa rivivere... Gesù non passa mai indifferente accanto a queste richieste e a questi dolori.

Dunque, Gesù ci insegna a chiedere al Padre il pane quotidiano. E ci insegna a farlo uniti a tanti uomini e donne per i quali questa preghiera è un grido – spesso tenuto dentro – che accompagna l’ansia di ogni giorno. Quante madri e quanti padri, ancora oggi, vanno a dormire col tormento di non avere l’indomani pane a sufficienza per i propri figli! Immaginiamo questa preghiera recitata non nella sicurezza di un comodo appartamento, ma nella precarietà di una stanza in cui ci si adatta, dove manca il necessario per vivere. Le parole di Gesù assumono una forza nuova. L’orazione cristiana comincia da questo livello. Non è un esercizio per asceti; parte dalla realtà, dal cuore e dalla carne di persone che vivono nel bisogno, o che condividono la condizione di chi non ha il necessario per vivere. Nemmeno i più alti mistici cristiani possono prescindere dalla semplicità di questa domanda. “Padre, fa’ che per noi e per tutti, oggi ci sia il pane necessario”. E “pane” sta anche per acqua, medicine, casa, lavoro… Chiedere il necessario per vivere.

Il pane che il cristiano chiede nella preghiera non è il “mio” ma è il “nostro” pane. Così vuole Gesù. Ci insegna a chiederlo non solo per se stessi, ma per l’intera fraternità del mondo. Se non si prega in questo modo, il “Padre nostro” cessa di essere una orazione cristiana. Se Dio è nostro Padre, come possiamo presentarci a Lui senza prenderci per mano? Tutti noi. E se il pane che Lui ci dà ce lo rubiamo tra di noi, come possiamo dirci suoi figli? Questa preghiera contiene un atteggiamento di empatia, un atteggiamento di solidarietà. Nella mia fame sento la fame delle moltitudini, e allora pregherò Dio finché la loro richiesta non sarà esaudita. Così Gesù educa la sua comunità, la sua Chiesa, a portare a Dio le necessità di tutti: “Siamo tutti tuoi figli, o Padre, abbi pietà di noi!”. E adesso ci farà bene fermarci un po’ e pensare ai bambini affamati. Pensiamo ai bambini che sono in Paesi in guerra: i bambini affamati dello Yemen, i bambini affamati nella Siria, i bambini affamati in tanti Paesi dove non c’è il pane, nel Sud Sudan. Pensiamo a questi bambini e pensando a loro diciamo insieme, a voce alta, la preghiera: “Padre, dacci oggi il pane quotidiano”. Tutti insieme.

Il pane che chiediamo al Signore nella preghiera è quello stesso che un giorno ci accuserà. Ci rimprovererà la poca abitudine a spezzarlo con chi ci è vicino, la poca abitudine a condividerlo. Era un pane regalato per l’umanità, e invece è stato mangiato solo da qualcuno: l’amore non può sopportare questo. Il nostro amore non può sopportarlo; e neppure l’amore di Dio può sopportare questo egoismo di non condividere il pane.

Una volta c’era una grande folla davanti a Gesù; era gente che aveva fame. Gesù domandò se qualcuno avesse qualcosa, e si trovò solo un bambino disposto a condividere la sua provvista: cinque pani e due pesci. Gesù moltiplicò quel gesto generoso (cfr Gv 6,9). Quel bambino aveva capito la lezione del “Padre nostro”: che il cibo non è proprietà privata – mettiamoci questo in testa: il cibo non è proprietà privata -, ma provvidenza da condividere, con la grazia di Dio. Il vero miracolo compiuto da Gesù quel giorno non è tanto la moltiplicazione – che è vero -, ma la condivisione: date quello che avete e io farò il miracolo. Egli stesso, moltiplicando quel pane offerto, ha anticipato l’offerta di Sé nel Pane eucaristico. Infatti, solo l’Eucaristia è in grado di saziare la fame di infinito e il desiderio di Dio che anima ogni uomo, anche nella ricerca del pane quotidiano. 

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Saluti:

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Come ogni anno, venerdì e sabato prossimi, ci incontreremo per la tradizionale iniziativa: «24 ore per il Signore». Venerdì, alle ore 17.00, nella Basilica Vaticana, celebrerò la Liturgia Penitenziale. Quanto sarebbe significativo che anche le nostre chiese, in questa particolare occasione, fossero aperte a lungo, per chiedere la misericordia di Dio ed accoglierla nel Sacramento del Perdono.

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.
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Un pensiero particolare rivolgo ai giovani, agli anziani, agli ammalati e agli sposi novelli.

La visita alle Tombe degli Apostoli sia per tutti voi occasione per crescere nell’amore di Dio e per lasciarvi trasformare dalla grazia divina, che è più forte di qualsiasi peccato.

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Cari fratelli e sorelle,

oggi abbiamo la gioia di avere con noi una persona che desidero presentarvi. È Suor Maria Concetta Esu, della Congregazione delle Figlie di San Giuseppe di Genoni. E perché faccio questo?

Suor Maria Concetta ha 85 anni, e da quasi 60 è missionaria in Africa, dove svolge il suo servizio di ostetrica. Un applauso. Io l’ho conosciuta a Bangui, quando sono andato ad aprire il Giubileo della Misericordia. Là lei mi ha raccontato che nella sua vita ha aiutato a nascere migliaia di bambini. Che meraviglia! Anche quel giorno era venuta dal Congo in Canoa – a 85 anni – a fare le spese a Bangui.

In questi giorni è venuta a Roma per un incontro con le sue sorelle, e oggi è venuta all’udienza con la sua Superiora. Allora ho pensato di approfittare di questa occasione per darle un segno di riconoscenza e dirle un grande grazie per la sua testimonianza!

Cara Sorella, a nome mio e della Chiesa, ti offro un’onorificenza. È un segno del nostro affetto e del nostro “grazie” per tutto il lavoro che hai fatto in mezzo alle sorelle e ai fratelli africani, al servizio della vita, dei bambini, delle mamme e delle famiglie.

Con questo gesto dedicato a te, intendo anche esprimere la mia riconoscenza anche a tutti i missionari e le missionarie, sacerdoti, religiosi e laici, che spargono il seme del Regno di Dio in ogni parte del mondo. Il vostro lavoro, cari missionari e missionarie, è grande. Voi “bruciate” la vita seminando la parola di Dio con la vostra testimonianza… E in questo mondo voi non fate notizia. Voi non siete notizia sui giornali. Il cardinale Hummes, che è l’incaricato dell’Episcopato brasiliano, di tutta l’Amazzonia, va spesso a visitare le città e i villaggi dell’Amazzonia. E ogni volta che arriva lì – me lo ha raccontato lui stesso – va al cimitero e visita le tombe dei missionari; tanti morti giovani per le malattie contro le quali non hanno gli anticorpi. E lui mi ha detto: “Tutti costoro meritano di essere canonizzati”, perché hanno “bruciato” la vita nel servizio.

Cari fratelli e sorelle, Suor Maria Concetta, dopo questo impegno, in questi giorni tornerà in Africa. Accompagniamola con la preghiera. E il suo esempio ci aiuti tutti a vivere il Vangelo là dove siamo.

Grazie, Sorella! Il Signore ti benedica e la Madonna ti protegga.

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