In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. (...).
La parabola più bella, in quattro sequenze narrative.
Prima scena. Un padre aveva due figli. Nella bibbia, questo incipit causa subito tensione: le storie di fratelli non sono mai facili, spesso raccontano drammi di violenza e menzogne, riportano alla mente Caino e Abele, Ismaele e Isacco, Giacobbe ed Esaù, Giuseppe e i suoi fratelli, e il dolore dei genitori.
Un giorno il figlio minore se ne va, in cerca di se stesso, con la sua parte di eredità, di “vita”. E il padre non si oppone, lo lascia andare anche se teme che si farà male: lui ama la libertà dei figli, la provoca, la festeggia, la patisce. Un uomo giusto.
Secondo quadro. Quello che il giovane inizia è il viaggio della libertà, ma le sue scelte si rivelano come scelte senza salvezza («sperperò le sue sostanze vivendo in modo dissoluto»). Una illusione di felicità da cui si risveglierà in mezzo ai porci, ladro di ghiande per sopravvivere: il principe ribelle è diventato servo.
Allora rientra in sé, lo fanno ragionare la fame, la dignità umana perduta, il ricordo del padre: «quanti salariati in casa di mio padre, quanto pane!». Con occhi da adulto, ora conosce il padre innanzitutto come un signore che ha rispetto della propria servitù (R. Virgili). E decide di ritornare, non come figlio, ma come uno dei servi: non cerca un padre, cerca un buon padrone; non torna per senso di colpa, ma per fame; non torna per amore, ma perché muore. Ma a Dio non importa il motivo per cui ci mettiamo in cammino, a lui basta il primo passo
Terza sequenza. Ora l'azione diventa incalzante. Il padre, che è attesa eternamente aperta, «lo vede che era ancora lontano», e mentre il figlio cammina, lui corre. E mentre il ragazzo prova una scusa, il padre non rinfaccia ma abbraccia: ha fretta di capovolgere la lontananza in carezze. Per lui perdere un figlio è una perdita infinita. Non ha figli da buttare, Dio. E lo mostra con gesti che sono materni e paterni insieme, e infine regali: «presto, il vestito più bello, l'anello, i sandali, il banchetto della gioia e della festa».
Ultima scena. Lo sguardo ora lascia la casa in festa e si posa su di un terzo personaggio che si avvicina, di ritorno dal lavoro. L'uomo sente la musica, ma non sorride: lui non ha la festa nel cuore (R. Virgili). Buon lavoratore, ubbidiente e infelice. Alle prese con l'infelicità che deriva da un cuore che non ama le cose che fa, e non fa le cose che ama: io ti ho sempre ubbidito e a me neanche un capretto... il cuore assente, il cuore altrove.
E il padre, che cerca figli e non servi, fratelli e non rivali, lo prega con dolcezza di entrare: è in tavola la vita.
Il finale è aperto: capirà?
Aperto sull'offerta mai revocata di Dio.