sabato 30 novembre 2019

“Vegliate, cercate di capire, siate pronti...” di Luciano Manicardi - I domenica di Avvento anno A

“Vegliate, cercate di capire, siate pronti...”


Commento al Vangelo della domenica
a cura di Luciano Manicardi
Priore della Comunità di Bose

I domenica di Avvento – Anno A

Letture: Isaia 2,1-5; Salmo 121; Romani 13,11-14; Matteo 24,37-44

Mt 24,37-44

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:«37Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. 38Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, 39e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo. 40Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. 41Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l'altra lasciata. 42Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. 43Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. 44Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo.»


Con la prima domenica di Avvento prende avvio un nuovo ciclo liturgico. Il ricominciamento non va per nulla colto come segno di monotona ripetitività, ma anzi, è buona notizia del ricominciamento sempre possibile al credente. Nella vita di fede noi siamo chiamati a ricominciare, quale che sia la situazione in cui ci troviamo, credendo maggiormente alla misericordia di Dio che all’evidenza della nostra debolezza e del nostro peccato. L’inizio di un nuovo anno liturgico è poi sempre caratterizzato da una pagina evangelica che pone l’accento sulla parusía, la venuta gloriosa del Figlio dell’uomo. Venuta che situa il credente nell’attesa. E l’attesa è un movimento umano e spirituale tutt’altro che scontato. Nei tempi della velocizzazione e della produttività, l’attesa è sentita come tempo morto, perdita di tempo. L’attesa invece è lavoro spirituale che prepara il futuro anticipandolo, sperandolo, invocandolo. L’attesa è una soglia. Soglia tra ora e dopo, tra oggi e domani, tra tempo ed eternità, tra storia e Regno di Dio. Nell’attesa il futuro, prossimo o remoto che sia, già abita il presente almeno nel nostro spirito. Si tratti di attendere una persona cara che dovrebbe arrivare entro pochi minuti, o di attendere la fine di una guerra, o l’avvento del Regno di Dio, sempre l’attesa prepara il futuro intervenendo nel presente, operando mutazioni già nel presente.

E la pagina evangelica di questa domenica dell’annata liturgica A, tratta dal Vangelo secondo Matteo, presenta un passo del discorso escatologico che Gesù rivolge ai suoi discepoli, mostrando la dimensione giudiziale dell’annuncio della venuta del Signore e la sua capacità di interpellare l’oggi del credente. In particolare, le parole di Gesù portano un giudizio sull’incoscienza e sull’ignoranza colpevoli con cui si anestetizzano gli uomini nel loro vivere il quotidiano.

Dopo aver annotato che nessuno conosce il giorno e l’ora della venuta del Signore (cf. Mt 24,36), Gesù sviluppa il tema dell’ignoranza del quando della parusía, istituendo un parallelo tra ciò che accadde alla generazione dei contemporanei di Noè, quando venne il diluvio, e ciò che avverrà alla venuta del Figlio dell’uomo. Gesù dunque si rifà alla narrazione presente in Gen 6,5-7,24. La generazione dei contemporanei di Noè non è descritta né come malvagia né come empia, ma semplicemente come incosciente, inconsapevole. I contemporanei di Noè “mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito” e in questo non vi è nulla di reprensibile. E non vi è nemmeno se vi aggiungiamo ciò che esplicita Luca nel passo parallelo: “compravano, vendevano, piantavano, costruivano” (Lc 17,28). Si tratta della quotidianità, delle attività vitali quotidiane di ogni persona. Il problema non è il che cosa, ma il come. Con il parallelo del diluvio, Gesù mette in guardia a non annegare nella banalità dei giorni, in un quotidiano divenuto orizzonte totalizzante di un’esistenza che così diviene cieca, inconsapevole di sé. L’annotazione soltanto di Matteo, che i contemporanei di Noè “non si accorsero di nulla” (Mt 24,39), mette il dito sulla piaga: viene stigmatizzata la non vigilanza, e dunque l’irresponsabilità.

Secondo i midrashim, cioè i commenti esegetici ebraici, che interpretano il racconto del diluvio, Noè era sbeffeggiato, deriso e giudicato pazzo dai suoi contemporanei perché compiva un’opera insensata. Si dice che essi ponevano domande irridenti a Noè chiedendogli che bisogno avesse di ciò che stava costruendo e non si rendevano conto che erano loro stessi che ne avevano bisogno. Noè seppe discernere il suo presente e così salvò se stesso e il futuro: il discernimento dell’oggi salva il futuro: “Per mezzo di Noè un resto sopravvisse sulla terra quando venne il diluvio” (Sir 44,17). Lo sguardo di Dio, di cui Noè è messo al corrente, vede ciò che la situazione presente di benessere e di tranquillità, prepara. Dio, e con lui Noè, vede al di là del momentaneo. La follia, o il genio, o la santità, o forse un po’ di tutte e tre queste cose, porta Noè a compiere un gesto coraggioso che salverà il futuro, ma che ha dovuto affrontare l’incomprensione e il dileggio. Come sempre avviene a chi vede al di là del quotidiano, del presente, o vede ciò che quel presente tiene in serbo per il futuro o vede in che cosa si convertirà quel presente.

La drammaticità della situazione dei contemporanei di Noè consiste nel fatto che perirono e non si resero conto di nulla. Perirono due volte: fisicamente, perché spazzati via dal diluvio, ma anche spiritualmente, perché non capirono e non si resero conto di nulla quando ne avrebbero avuto la possibilità. Così l’evento calamitoso diviene giudizio sul modo di vivere precedente la calamità. Matteo stigmatizza l’incoscienza, il vivere senza discernimento. Non perché questo eviti la calamità. Noè non ha evitato il verificarsi del diluvio, ma ha potuto attraversarlo. Sì, la nostra quotidianità può trasformarsi in catastrofe. Non è forse nel banale scorrere dei giorni che spesso si preparano i nostri disastri esistenziali e relazionali? Non ci succede, di fronte all’incrinarsi e allo spezzarsi di una relazione coniugale, alla fine traumatica di un’amicizia, al suicidio di una persona cara, di ritrovarci a pensare, a un certo punto, e a dirci “avrei dovuto”, “perché ho detto questo e non ho invece taciuto?”, “perché ho agito così e non in un altro modo?”. Ripensiamo a dettagli, a un battere di ciglia, a un gesto o a una parola a cui al momento non abbiamo accordato importanza e che, ora, con il senno di poi, ci appare carico di presagi di ciò che sarebbe poi successo. E magari ci colpevolizziamo. Anche l’ineluttabile infatti, ha una storia, anche l’ineluttabile è preparato nel quotidiano. Anche ciò che quando avviene è ineluttabile, in verità è stato preparato più o meno coscientemente dai nostri gesti, dai nostri comportamenti, dalle nostre parole o dalle nostre omissioni. Annunciando la venuta gloriosa Gesù illumina il nostro oggi, il nostro quotidiano e ci avverte che è nella superficialità che si annega, non nella profondità.

Il discorso di Gesù prosegue nei vv. 40-41 con l’esempio dei due uomini che lavorano nei campi e delle due donne che macinano alla mola, di cui uno viene preso, cioè salvato, e l’altro lasciato, cioè abbandonato al disastro. Di nuovo Matteo presenta la portata giudiziale della parusía che mette in luce ciò che prima poteva restare celato e smaschera ciò che prima era invisibile. I due che erano insieme si trovano divisi, separati. Ciò che era nascosto viene alla luce. “Non vi è nulla di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto” (Mt 10,26). Se i contemporanei di Noè “non si accorsero di nulla, non capirono nulla”, di questi uomini e di queste donne si può dire che “non si conobbero”. Nulla sembrava distinguerli, impegnati come erano nello stesso compito, lavorando accanto l’uno all’altro; vivevano accanto ma erano profondamente distanti. Potremmo chiederci: Si conoscevano davvero? La venuta del Signore è momento di svelamento della verità. La differenza si gioca nell’invisibile interiorità, là dove abita anche la verità personale di ciascuno.

La parte finale del testo (vv. 42-44) è esortativa e con tre imperativi dice in che cosa consista la vigilanza: “vegliate”, “cercate di capire” (lett.: “sappiate”), “siate pronti”. La motivazione, anch’essa tre volte ripetuta, è sempre l’ignoranza del giorno e dell’ora della parusía. Non essendovi scampo a tale ignoranza, l’unica sapienza è quella di tenere gli occhi ben aperti, di essere svegli, di non intontirsi e non cadere nell’ottundimento dei sensi; è quella di cercare di essere pronti, attenti, dunque consapevoli e responsabili, non come i contemporanei di Noè. Sì, il Figlio dell’uomo verrà come un ladro (“Ecco, io vengo come un ladro”: Ap 16,15; cf. 3,3): se il quando è incerto, la sua venuta è certezza. Si veglia, dunque, e ci si tiene pronti, e si attende una persona, cercando di ravvivare nell’oggi il desiderio della sua venuta. La vigilanza cristiana nasce in rapporto con la persona di Gesù Cristo che è venuto e che verrà: è l’ambito in cui avviene la relazione con il Signore, dunque lo spazio vitale della fede, della speranza e della carità. Ma anche lo spazio di una umanità desta, sveglia, attenta, luminosa. La vigilanza è atteggiamento globale dell’uomo di attenzione alla presenza del Signore, di tensione interiore per discernere la sua presenza e di apertura radicale di tutto l’essere alla sua venuta. Così l’annuncio della venuta gloriosa del Signore proietta una luce che giudica e orienta anche il nostro modo di vivere il tempo, in particolare il quotidiano. Quel quotidiano fatto di gesti ripetuti, di relazioni consuete, di abitudini che necessitano di essere illuminati e vivificati per non divenire la tomba del nostro vivere, facendolo cadere nell’inerzia e nell’insapore.


"Gesù è la carezza del Padre per l'umanità" p. Alberto Maggi (Video integrale)

"Gesù è la carezza del Padre
 per l'umanità" 
p. Alberto Maggi
 (Video integrale) 

Relazione " Il Padre mio opaera sempre (Gv 5,17)"
tenuta il 22 novembre 2019
nell'ambito del 
Convegno delle Comunità Missionarie del Vangelo
Promosso e realizzato da:
​ASSOCIAZIONE “NINO TRENTACOSTE” SOLIDARISTICA E DI SERVIZIO DEI MISSIONARI DEL VANGELO – APS in collaborazione con ROCCA rivista della PCC, Assisi
“ DEL GIARDINO DEL CREATO, PADRONI O AMMINISTRATORI ? SVILUPPO, SOSTENIBILITÀ, FUTURO. DALLA POPULORUM PROGRESSIO ALLA LAUDATO SII “
21-24 novembre 2019 
presso Hotel Costa Verde, Cefalù

" Gesù va incontro alle sofferenze degli uomini ... e l'incontro con Gesù fa risollevare le persone.
... L'accoglienza della Parola di Gesù rende capaci di camminare con le proprie gambe
 .. Per Gesù l'urgenza di fare il bene è più importante della Legge ... 
fin quando ci sono uomini nella sofferenza la creazione non è terminata  ... 

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Per approfondire vedi anche:

"La deriva blasfema del presepe sovranista" di Andrea Grillo

"La deriva blasfema del presepe sovranista" 
di Andrea Grillo


Il presepe sovranista è una bestemmia. Lo dico non tanto da cittadino, ma da teologo. Con la espressione “presepe sovranista” intendo quella comprensione distorta e capovolta del presepe, che lo riduce a “manifestazione di identità cristiana da contrapporre ad altre fedi o culture”. Chi utilizza in questo modo il presepe, quasi come una “bandiera”, o addirittura come un’”arma”, che contrapporrebbe la nostra identità alle identità “avversarie”, non solo non ne comprende il messaggio, ma lo capovolge e lo snatura in un modo che risulta davvero scandaloso. Vorrei mostrare in che senso questo “attentato al presepe” faccia parte di quella “campagna di menzogne” che la logica sovranista pretende di imporre alla attenzione distratta del paese. Questa dimostrazione è possibile solo se ci si dispone, con molta pazienza, ad analizzare il significato teologico del presepe, prima e oltre rispetto al suo “uso convenzionale”.

DISIMPARARE IL PRESEPE FALSO
In tutte le grandi tradizioni, i passaggi decisivi – come per noi il Natale e la Pasqua – diventano “luoghi di riconoscimento”, non solo religioso, ma culturale e sociale. Questo è un fatto inevitabile e non negativo. “Fare il presepe” a Natale, e “visitare i sepolcri” a Pasqua diventano luoghi di identità, che vanno al di là della fede. Ma, proprio in questa trasformazione culturale, le tradizioni si espongono al rischio della indeterminatezza, perché concentrano in un punto tutti i “messaggi” e proprio per questo “sovraccarico” corrono il pericolo di perderne il senso e di banalizzarlo. Il presepe, in modo esemplare, costituisce un caso tipico di questa “tentazione”. Infatti, se analizzato in modo più attento, il termine “presepe” dice, in latino, “mangiatoia” e costituisce la “versione di Luca” del rivelarsi del Salvatore. Che si rivela ai pastori irregolari e non ai buoni credenti regolari del tempo. La tensione, in quel testo di Luca, è tra la grandezza del Signore e la piccolezza umana che può riconoscere la gloria di Dio solo attraverso la profezia della irregolarità dei pastori. Nella versione di Matteo, invece, la dose è ancora rincarata: la tensione è tra la stella e i magi che la seguono, nella loro condizione di stranieri, e la ostilità viscerale dei residenti regolari e dei Governatori. Il “nostro presepe”, mescolando tutti questi messaggi, e aggiungendovi anche elementi decorativi, rischia di non aumentare, ma di diminuire la forza della tradizione, riducendola a un “soprammobile borghese”. Il presepe significa che ultimi, stranieri e irregolari sanno riconoscere Gesù, mentre Governatori, residenti regolari e uomini per bene cercano di ucciderlo. Esattamente come accade nel cammino verso la Pasqua, quando a riconoscere Gesù saranno una donna dai molti mariti, un handicappato grave come il cieco nato e un morto come Lazzaro. Queste sono le categorie privilegiate dal Vangelo. Per il fatto che ai nostri presepi “non facciamo mancare nulla” – pastori e magi, stella e mangiatoia, bue e agnelli, asini e pozzi, fuochi e artigiani, ruscelli e cieli stellati, oche e galline – non li comprendiamo più. O meglio li comprendiamo in modo distorto, come una “nostra affermazione”, come una “bandiera”, addirittura come una “difesa dall’altro”. Questo è il presepe che dobbiamo disimparare. Questo è il presepe della eresia sovranista.

RIMPARARE IL PRESEPE VERO
Per infondere pace, concordia, rispetto, accoglienza, umanità, il Natale deve ancora “far paura”: questa sua virtù sconvolgente è dovuta non alla sua qualità “civile”, ma al suo significato religioso, come anticipazione drammatica, fin dai primi vagiti del Figlio di Dio, della fede pasquale.
Il Natale annuncia la pace e la accoglienza “sub contraria specie”, parlandoci di un disegno assassino, di un rifiuto, di un mancato riconoscimento, di una persecuzione. Senza questa interpretazione forte, senza questo dramma, senza questo pathos, i simboli del natale e della Pasqua, diventano “segni civili di appartenenza”, soprammobili, orecchini, disegni sulle T-Shirt o sui diari scolastici. Questo è un fenomeno inevitabile: ma uso e significato non coincidono. Il senso del Presepe e della Croce non sono semplicemente quello di un “valore umano”, ma di un “mistero divino”, che realizza la pace. Per questo resta “inquietante”, perché mette a nudo la fragilità di tutti i valori umani e la loro strutturale contraddittorietà. Ora, è evidente che la comunità civile non può immediatamente riconoscere la pienezza del messaggio che il simbolo propone. Ma la comunità cristiana deve anche sapere, e dire con autorevolezza, che non si può fare il presepe e non volere che bambini stranieri si iscrivano a scuola, come fanno anche potenti catene di scuole private cattoliche. Non si può, se si è parroco, fare il presepe e poi dichiarare di non voler ospitare profughi. Non si può difendere il presepe come politici e poi lavorare per ostacolare ogni presenza straniera sul territorio. Il presepe, come la croce, non è semplicemente un segno della fragile umanità, ma anche segno della profezia con cui Dio riscatta il povero, l’emarginato, lo straniero, l’orfano, la vedova, lo zoppo, il cieco e si prende cura anzitutto di essi, mettendoli al primo posto! “Prima gli ultimi” è scritto a chiare lettere su ogni presepe vero. Non si può pretendere che questo sia chiaro a uomini politici, che anzi vogliono solo “presepi falsi”. Deve però essere chiaro alle comunità ecclesiali, che annunciano, nelle forme pluralistiche moderne, il Vangelo della pace, della misericordia e della riconciliazione. Che non è mai semplicemente una evidenza civile. In questa differenza sta o cade la giustificazione del “fare presepi”, non per tacere, ma per parlare con efficacia, per discernere con lungimiranza, per agire con profezia.

IL PRESEPE COME “CAVALLO DI TROIA” DELLA TRADIZIONE
Anche la prima intuizione del presepe – quella di Francesco di Assisi a Greccio, così spoglia, così essenziale, fatta solo di mangiatoia (presepe, appunto) di bue e asinello, senza Giuseppe, senza Maria, senza “bambinello sostitutivo”, ma solo pieno di umiltà, di carità, di eucaristia e di parola evangelica – annuncia la pace a tutti. Tutti include, nessuno discrimina, abbatte i muri, accoglie ogni storia, ogni vita, ogni domanda. Anche nella immaginazione mistica di Francesco, il “primo presepe” proclama con forza questa lieta notizia: il bambino che nasce, e che nasce a Greccio come a Betlemme, facendo di Greccio una nuova Betlemme, realizza nel “cuore” e nelle “vite” una nuova possibilità di pace e di riconciliazione. Edifica una città pacificata, riconciliata, capace di accoglienza. Per questo un “presepe sovranista” è una contraddizione in termini. Per questo chiedere di “fare il presepe” come “difesa dalle diversità” è una bestemmia, anche se viene da una assessore regionale. Per questo una Chiesa con il filo nella schiena può arrivare a scrivere una “lettera sul presepe”, per sostenere l’uso di “fare il presepe vero”, di pace e di riconciliazione, e per arginare ogni bestemmia che usi il presepe – perfino il presepe – per alimentare odio, conflitto e divisione. Non esitiamo a fare il presepe vero. Lasciamo entrare nelle nostre case, nelle nostre scuole, nelle nostre strade, il “cavallo di Troia” delle nostre tradizioni. Che così, da indifferenti e diffidenti possono convertirsi alla non indifferenza e alla confidenza. Il presepe sovranista è una caricatura, una corruzione, una contraddizione del presepe.
Il presepe vero rivela un dramma di esclusione e di persecuzione, che Dio capovolge in pace e concordia. Il presepe sovranista fa la caricatura della pace, alimentando solo esclusione e indifferenza. Fare il presepe, quello vero, significa coltivare la speranza che il “sovrano” non è di questo mondo ed che entra nel mondo “sub contraria specie”, con il motto “prima gli ultimi”. Il suo nome è amore, misericordia, accoglienza, perdono

(Fonte: Blog)

«È la speranza di vivere con il Signore qui e poi vivere con il Signore da un’altra parte che sempre deve accompagnare la nostra vita» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)


S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
29 novembre 2019
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 

Papa Francesco:
“Vivere con speranza l’abbraccio con il Signore”


Nell’ultima settimana dell’anno liturgico la Chiesa invita a riflettere sulla fine, la fine del mondo, la fine di ognuno, e lo fa anche il Vangelo di venerdì 29 novembre in cui Luca (21, 29.33) ripete le parole di Gesù: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno».

È così — ha ribadito il Papa nell’omelia della messa celebrata nella cappella di Casa Santa Marta — «tutto finirà» ma «Lui rimarrà». E da questo Francesco ha preso spunto per invitare ciascuno a riflettere sul momento della fine, cioè della morte. Nessuno sa esattamente quando avverrà, anzi — ha fatto notare il Pontefice — si tende spesso a rimandare il pensiero credendosi eterni, ma non è così: «Tutti noi abbiamo questa debolezza di vita, questa vulnerabilità», ha spiegato il Papa che poi ha fatto un accenno personale: «Ieri meditavo su questo, su un bell’articolo che è uscito adesso sulla Civiltà Cattolica che ci dice che quello che accomuna tutti noi è la vulnerabilità: siamo uguali nella vulnerabilità». Quindi — è stata la sua riflessione — «tutti siamo vulnerabili e a un certo punto questa vulnerabilità ci porta alla morte. Per questo andiamo dal medico per vedere come va la mia vulnerabilità fisica, altri vanno per guarirsi qualche vulnerabilità psichica dallo psicologo».

La vulnerabilità dunque accomuna le persone nessuna illusione mette al riparo da essa. Francesco ha ricordato che nella sua terra c’era la moda di pagarsi in anticipo il funerale, con l’illusione di far risparmiare soldi alla famiglia. Venuta alla luce la truffa messa in atto da alcune ditte funebri, la moda passò. «Quante volte ci truffa l’illusione», è stato il commento del Pontefice, come quella di «essere eterni». La certezza della morte è invece scritta nella Bibbia e nel Vangelo, ma il Signore la presenta sempre come un «incontro con Lui» e la accompagna alla parola «speranza».

«Il Signore — ha chiarito il Pontefice — ci dice di essere preparati all’incontro, la morte è un incontro: è Lui che viene a trovarci, è Lui che viene a prenderci per mano e portarci con sé». Quindi rivolto direttamente ai fedeli presenti Francesco ha aggiunto: «Non vorrei che questa semplice predica fosse un avviso funebre! È semplicemente Vangelo, è semplicemente vita, è semplicemente dirsi uno all’altro: tutti siamo vulnerabili e tutti abbiamo una porta alla quale un giorno busserà il Signore».

Occorre dunque prepararsi bene al momento in cui il campanello suonerà, il momento in cui il Signore busserà alla porta: bisogna pregare l’uno per l’altro — è stato l’invito del Papa a quanti lo ascoltavano nella cappella di Santa Marta — per essere pronti, per aprire con fiducia la porta al Signore che viene.

Il pensiero è andato dunque ancora una volta alla caducità delle realtà terrene: «Di tutte le cose che noi abbiamo raccolto, che abbiamo risparmiato, lecitamente buone, non porteremo nulla... Ma, sì, porteremo l’abbraccio del Signore».

Quindi prima di congedarsi nel colloquio a tu per tu con i presenti il Papa ha riassunto le domande da porsi su questo tema: «Pensare alla propria morte: io morirò, quando? Nel calendario non è fissato ma il Signore lo sa. E pregare il Signore: “Signore, preparami il cuore per morire bene, per morire in pace, per morire con speranza”». Su questa parola l’ultima precisazione di Francesco: «È questa la parola che sempre deve accompagnare la nostra vita, la speranza di vivere con il Signore qui e poi vivere con il Signore da un’altra parte. Preghiamo gli uni per gli altri per questo».
(fonte: L'Osservatore Romano, articolo di Gabriella Ceraso)

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venerdì 29 novembre 2019

Papa Francesco incontra ospiti e volontari della Caritas di Roma: "Pazzia d’amore, pazzia di aiutare, pazzia di condividere la propria vulnerabilità con i vulnerabili. Questo è il programma!!!" (cronaca, foto, testi e video)

Papa Francesco incontra ospiti e volontari della Caritas di Roma:
"Pazzia d’amore, pazzia di aiutare, 
pazzia di condividere la propria vulnerabilità con i vulnerabili. 
Questo è il programma" 


È un Venerdì di misericordia e carità, ma anche di festa quello che porta il Papa fuori dal Vaticano, nella storica cittadella della Caritas, in occasione del 40esimo di fondazione. Una visita densa di momenti e incontri, iniziata con un tour di Francesco tra i locali e le realtà all’interno di questa grande struttura su via Casilina Vecchia. 
Accompagnato dal direttore della Caritas di Roma, don Benoni Ambarus, il Pontefice prega nella cappella “Santa Giacinta”, cuore del complesso, dove l’altare e l’ambone sono stati realizzati dal sacerdote, martire in Turchia, don Andrea Santoro, assassinato il 5 febbraio del 2006. 


 

Ascolta con attenzione la presentazione dell’Ambulatorio odontoiatrico, in cui oltre 40 dentisti volontari seguono gratuitamente più di 350 pazienti e lavorano per ridare ai poveri, spesso minori, il sorriso che la durezza della strada ha cancellato. 
Altra tappa è l’Emporio di Solidarietà: il primo supermercato gratuito nato in Italia, grazie al quale solo nel 2018 sono state distribuite oltre 490 tonnellate di prodotti alimentari, per un valore stimato di 770mila euro.


Papa Francesco ha quindi salutato gli ospiti della Casa di accoglienza Santa Giacinta, che lo hanno accolto davanti all’ingresso, qui ha avuto luogo l’unico momento strettamente privato del Papa, durante il quale si è intrattenuto con gli abitanti della Casa. 
Sorprendono, come se le vedessimo per la prima volta, le carezze e gli abbracci del Papa agli ospiti di Casa Santa Giacinta, che già da un po’ nella sala mensa, con emozione attendevano il suo ingresso: sono anziani, migranti, bambini che rompendo gli schemi, gli si stringono attorno, lo sommergono di regali e sorrisi, chiedendogli anche qualche selfie, a cui Francesco non si sottrae. Dopo aver salutato tutti i presenti, quasi uno ad uno, il Pontefice pronuncia al microfono un breve saluto e lancia un primo importante messaggio:

Grazie! Grazie a tutti voi dell’accoglienza. Sono contento di vedervi qui. Grazie tante! Continuate a essere insieme, aiutandoci uno l’altro, perché questo fa bene al cuore. Quando il cuore si ferma non c’è vita. E il cuore dell’amicizia deve essere sempre in movimento, perché così c’è la vita. E questo è il segnale della fraternità, dell’amicizia. Grazie per essere qui e pregate per me. E che Dio benedica tutti voi. Grazie!






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Francesco attraversa il cortile della cittadella, invaso da gente dietro le transenne che lo chiama e invoca anche solo una stretta di mano, per arrivare nella Sala Grande ed incontrare finalmente i volontari, gli operatori e gli altri ospiti, circa 220 persone, dell’organismo diocesano che oggi conta 52 opere-segno divise tra mense, ostelli, case famiglia, empori e ben 157 centri di ascolto parrocchiali in rete tra di loro. Anche qui è accerchiato, stretto da quell’affetto che difficilmente riesce a stare composto.


Don Benoni lo saluta a nome di tutti esordendo con un “caro padre Francesco!”. Mentre descrive e spiega gli impegni di Caritas nella famiglia, nella scuola, nel lavoro, tra le piaghe del prossimo e i solchi profondi della sofferenza umana, auspica che ogni incontro con il povero sia una perenne Eucarestia. Quindi ringrazia Bergoglio per aver sfidato la stanchezza e i fusi orari del recente viaggio in Thailandia e Giappone e per essere lì a ribadire che ogni uomo è caro di Dio, ogni povero è nel cuore del Papa e mai sarà dimenticato: “Accorgersi dei fratelli più piccoli e prendersi cura di loro è un dono da non perdere – dice - A volte basta anche solo un’attenzione minima, uno sguardo affettuoso che li strappi dall’invisibilità”. Per il Papa don Benoni ha un dono: si tratta di un piccolo vangelo di Giovanni, in etiopico antico; un testo consumato, scritto a mano che arriva da Giubuti. E’ il segno – spiega – di un pastore che corre di qua e di là per il mondo per annunciare il Vangelo, consumando le suole delle scarpe in uno stato di intimità itinerante con Gesù, ma anche segno di tanti fratelli che quando hanno una vita rammendata, sono accompagnati dalla stessa intimità itinerante del Signore.



La testimonianza di Ornella

Alle sue parole fanno eco quelle di Ornella, una volontaria Caritas che svolge il suo servizio presso il Centro di ascolto per stranieri di via delle Zoccolette in centro a Roma. A Francesco racconta di come in questi anni sia venuta a contatto con tante persone e tante storie diverse, chi scappa dalla guerra, chi è orfano, chi non ha lavoro, chi emigra per salvare la propria famiglia dalla fame, facendo con ciascuno esperienza di quella umanità che soffre, spera e che ti rimane sulla pelle: “Ecco – esclama - per tutto questo sono felice di essere una volontaria, mi ha insegnato a dire ogni giorno grazie e a smettere di lamentarmi sulle cose che non vanno come vorrei”.

Le parole di Alessio

Commuove il Papa la storia di Alessio che dopo aver perso il padre e il fratello è stato costretto anche a chiudere la sua azienda, una piccola casa editrice, fino a sperimentare l’inferno e il freddo della strada finché non ha avuto il coraggio di bussare all’Ostello di via Marsala: qui è rimasto per 13 mesi poi a Pasqua di quest’anno è riuscito finalmente con l’aiuto degli operatori, descritti come modello di testimonianza e di santità, a trovare un lavoro e una casa: “La Caritas, via Marsala, sono stati la Pasqua della mia vita – dice Alessio -. Non so se saprò mai restituire tutti i doni che ho ricevuto da Dio attraverso la Caritas”.

Le testimonianze di Ornella e Alessio, una volontaria e un ospite ‘salvato’ dalla strada, colpiscono profondamente il cuore del Papa che le riprende nel suo discorso pronunciato a braccio a conclusione della visita alla Cittadella della Caritas, compiuta in occasione dei 40 anni dell’organismo diocesano.


DISCORSO A BRACCIO

Grazie dell’accoglienza, di essere qui. Grazie a tutti.

Due parole sono state dette che mi hanno colpito. Lei [operatrice del Centro di ascolto per stranieri] ha parlato di persone vulnerabili, di vulnerabilità. Mi sono accorto che Lei aveva trovato un rapporto con la vulnerabilità delle persone. E questo perché sa che anche Lei stessa è vulnerabile. La vulnerabilità ci accomuna tutti. Tutti siamo vulnerabili, e per lavorare nella Caritas bisogna riconoscere quella parola, ma riconoscerla fatta carne nel cuore. Venire a chiedere aiuto è dire: “Sono vulnerabile”; e aiutare bene, lo si fa soltanto a partire dalla propria vulnerabilità. È l’incontro di ferite diverse, di debolezze diverse, ma tutti siamo deboli, tutti siamo vulnerabili. Anche Dio ha voluto farsi vulnerabile per noi. È uno di noi e ha sofferto: non avere casa dove nascere, ha sofferto la persecuzione, scappare in un altro Paese, migrante; ha sofferto la povertà. Dio si è fatto vulnerabile. E per questo noi possiamo parlare con Gesù, perché è uno di noi!

E questa è la parola che ha detto don Benoni [Direttore Caritas Roma]: possiamo avere intimità con Gesù perché è uno di noi, itinerante. Camminare con Gesù nella vita, perché abbiamo la stessa carta d’identità: vulnerabili, amati e salvati da Dio. Questo è il cammino. Non si può fare l’aiuto ai poveri, non si può avvicinarsi ai poveri a distanza. Bisogna toccare, toccare le piaghe; sono le piaghe di Gesù. È misterioso: quando tu tocchi quella piaga, ti accorgi della tua. E questa è la grazia che ci danno i poveri, la grazia che ci dà la vulnerabilità dei poveri: sapere che anche noi siamo vulnerabili. Questo è bellissimo, perché significa che anche noi abbiamo bisogno di salvezza, abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica una parola buona: i volontari, anche i preti… Tutti abbiamo bisogno di un fratello Gesù; abbiamo bisogno di quell’intimità itinerante, di camminare con Gesù.

Grazie a tutti di far vedere che abbiamo la stessa carta d’identità. Ognuno ha la propria vulnerabilità, ma il cognome è lo stesso: vulnerabili. E questo è grande ed è bello, perché, cosa significa?, che abbiamo bisogno di salvezza, abbiamo bisogno di cura. E la salvezza Dio non la fa con un decreto. Dio la fa camminando con noi, avvicinandosi a noi in Gesù. Questa è la salvezza. Grazie per aver detto quella parola, “vulnerabile”, che ci accomuna tutti. E grazie a te [don Benoni] di aver parlato della “intimità itinerante” con Gesù. Mi ha fatto bene sentire voi due. Le due domande che mi hai fatto me le sono dimenticate! Mi è venuto da dire questo. E avanti! Avanti così.

Don Benoni:
Per i prossimi 40 anni…

Papa Francesco:
Ma io sono venuto qui nel Giubileo della Misericordia, no?

Don Benoni:
18 dicembre 2015, non qui, a Via Marsala, per l’apertura della Porta Santa.

Papa Francesco:
Ah ecco. L’apertura… Vicino a Termini. E questo è nuovo?

Don Benoni:
Sono due realtà diverse.

Papa Francesco:
Bravo. Adesso fa il postino della Madonna. Che la spieghi lui. Va bene.

Don Benoni:
Vuole dire una parola sulla Caritas dei prossimi 40 anni? Che cosa è essenziale, che cosa annunciare... Il Vangelo della carità…

Papa Francesco:
Il Vangelo va annunciato con la testimonianza, non con gli argomenti, il proselitismo… No. Con la testimonianza va annunciato. Gesù ci ha lasciato un esempio di testimonianza per i prossimi 40 anni: quell’uomo, che non era religioso, [si riferisce alla parabola del buon samaritano, Luca cap. 10] forse pensava di non essere religioso, non so, quell’uomo trova sulla strada uno che era ferito dai ladri, e se ne prende cura, lo porta alla locanda… È interessante: Gesù non riferisce parole dette da quest’uomo; soltanto dice che «ne ebbe compassione», che significa patire con. Lo prende, lo porta, parla coi locandieri, lo curano un po’ e dice: “Io devo andarmene, ma tra due giorni torno”. Dà due monete [al locandiere e dice]: “Se occorre qualcosa di più, pagherò”. Io penso: quel locandiere, cosa avrà pensato? Questo è un pazzo! Questa è la parola che io vorrei dirti: pazzia. Pazzia d’amore, pazzia di aiutare, pazzia di condividere la propria vulnerabilità con i vulnerabili. Non so. Pazzia. “Ma questi preti, invece di rimanere in chiesa, dire Messa, stare tranquilli, fanno tutto questo movimento… Sono pazzi!” – “Bravo: sono pazzi!”. Questo è il programma: pazzi. Pensare al locandiere.

Adesso chiederò al Signore che benedica tutti voi, tutti voi.

Dio benedica tutti voi e vi accompagni nel cammino della vita. Amen.

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Si potrebbe definire un incontro in famiglia quello del Papa, una visita del Vescovo di Roma alla sua diocesi.


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VIAGGIO APOSTOLICO DI PAPA FRANCESCO IN THAILANDIA E GIAPPONE (19 - 26 NOVEMBRE 2019) S. Messa con i giovani: «Dio ha un disegno per ognuno di voi... vi invito a mantenere viva la gioia e a non aver paura di guardare al futuro con fiducia..» (cronaca, foto, testi e video)


VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
IN THAILANDIA E GIAPPON
E

(19 - 26 NOVEMBRE 2019)
SANTA MESSA CON I GIOVANI
Cattedrale dell'Assunzione (Bangkok)
Venerdì, 22 novembre 2019


È una sorta di Gmg thailandese quella che va in scena nella Cattedrale dell’Assunzione di Bangkok, ultimo atto del viaggio del Papa nel Paese prima della partenza per il Giappone. La chiesa, dentro e nel piazzale fuori, è gremita. Circa diecimila giovani ascoltano Francesco che celebra la Messa e offre due immagini chiare ai ragazzi: radici profonde che affondano nella fede degli anziani ma anche l’amicizia con Gesù, olio necessario per illuminare il cammino e guardare con fiducia al futuro.

Indossati i paramenti rossi, il colore dei martiri, il Papa ha presieduto l’Eucaristia concelebrata dai cardinali e dai vescovi del Paese, dai rappresentanti della Fabc venuti da venti nazioni asiatiche e dagli ecclesiastici del suo seguito. Come la sera precedente nello stadio nazionale, Francesco ha usato un pastorale ligneo di manifattura artigianale locale donatogli dal cardinale arcivescovo di Bangkok. E ancora una volta durante il rito è stato dato spazio alle etnie minoritarie. Perciò alla preghiera dei fedeli le intenzioni sono state elevate oltre che in thailandese — così come le letture — anche nella lingua tribale degli akha, uno dei gruppi più diffusi nelle montagne del nord, le cui donne indossano caratteristici copricapi molto vistosi, adornati da cerchi in bambù, perline colorate e antiche monete. In particolare si è pregato «per la Chiesa cattolica in Thailandia, in occasione del 350° anniversario del vicariato apostolico di Siam», affinché possa «crescere in carità e unità e aiutare sempre il popolo nella ricerca della verità e della felicità».

È il cardinale Francis Xavier Kriengsak Kovithavanij, arcivescovo di Bangkok, all’inizio della celebrazione a ringraziare il Papa a conclusione della visita apostolica in Thailandia, in particolare per l’amore mostrato verso i giovani fin dall’inizio del suo Magistero: «A partire da questo momento, la Chiesa cattolica in Thailandia, passo dopo passo, giorno dopo giorno, si trasformerà», ha detto, «in una comunità testimone di una umanità fraterna calata nel tempo attuale e modellata secondo la relazione che in sé è ispirata dalla vita stessa della Trinità con il nuovo comandamento dell’amore reciproco: Amatevi gli uni gli altri come Io ho amato voi, proprio come accadeva nella prima comunità cristiana a Gerusalemme».


Al termine, dopo un breve ringraziamento alle autorità che hanno reso possibile la sua visita e ai volontari che si sono spesi per la riuscita, tra cui molti giovani della maggioranza buddhista, il Papa ha benedetto 25 pietre per la costruzione di nuove chiese nel Paese.
Canti preparati per la circostanza hanno accompagnato l’uscita di Francesco, prima che salisse in macchina per rientrare in nunziatura.















OMELIA DEL SANTO PADRE

Andiamo incontro al Signore che viene!

Il Vangelo che abbiamo appena ascoltato ci invita a metterci in movimento e guardare al futuro per incontrarci con la cosa più bella che vuole regalarci: la venuta definitiva di Cristo nella nostra vita e nel nostro mondo. Diamogli il benvenuto in mezzo a noi con immensa gioia e amore, come solo voi giovani sapete fare! Prima che noi andiamo a cercarlo, sappiamo che il Signore ci cerca, ci viene incontro e ci chiama a partire dal bisogno di una storia da fare, da creare, da inventare. Andiamo avanti con gioia perché sappiamo che lì Lui ci aspetta.

Il Signore sa che attraverso di voi, giovani, entra il futuro in queste terre e nel mondo, e conta su di con voi per portare avanti la sua missione oggi (cfr Esort. ap. postsin. Christus vivit, 174). Come aveva un disegno per il popolo eletto, così Dio ha un disegno anche per ognuno di voi. Lui è il primo a sognare di invitarci tutti a un banchetto che dobbiamo preparare insieme, Lui e noi, come comunità: il banchetto del suo Regno da cui nessuno dovrebbe restare fuori.

Il Vangelo di oggi ci parla di dieci ragazze invitate a guardare al futuro e a partecipare alla festa del Signore. Il problema è stato che alcune di loro non erano pronte a riceverlo; non perché si fossero addormentate, ma perché mancò loro l’olio necessario, il combustibile interiore per mantenere acceso il fuoco dell’amore. Avevano uno slancio e una motivazione grandi, volevano partecipare alla chiamata e alla convocazione del Maestro, ma col tempo le forze e la volontà si erano spente, si erano esaurite, ed erano arrivate tardi. Una parabola su cosa potrebbe succedere a tutti i cristiani quando, pieni di slancio e di desiderio, sentiamo la chiamata del Signore a far parte del suo Regno e a condividere la sua gioia con gli altri. Capita spesso allora che, di fronte ai problemi e agli ostacoli, che tante volte sono molti, come ognuno di voi sa bene nel suo cuore; davanti alla sofferenza di persone care, o all’impotenza che si sperimenta in situazioni che sembrano impossibili da cambiare, l’incredulità e l’amarezza possono guadagnare spazio e infiltrarsi silenziosamente nei nostri sogni, facendo sì che si raffreddi il nostro cuore, che perdiamo la gioia e arriviamo tardi.

Per questo mi piacerebbe domandarvi: volete mantenere vivo il fuoco che può illuminarvi in mezzo alla notte e in mezzo alle difficoltà? Volete prepararvi per rispondere alla chiamata del Signore? Volete essere pronti a fare la sua volontà?

Come procurarsi l’olio che può mantenervi in movimento e incoraggiarvi a cercare il Signore in ogni situazione?

Voi siete eredi di una magnifica storia di evangelizzazione che vi è stata trasmessa come un tesoro sacro. Questa bella Cattedrale è testimone della fede in Cristo che hanno avuto i vostri antenati: la loro fedeltà, profondamente radicata, li ha spinti a compiere buone opere, a costruire l’altro tempio, ancora più bello, composto da pietre vive per poter portare l’amore misericordioso di Dio a tutte le persone del loro tempo. Hanno potuto fare questo perché erano convinti di quanto il profeta Osea ha proclamato nella prima Lettura di oggi: Dio aveva parlato loro con tenerezza, li aveva abbracciati con amore forte, per sempre (cfr Os 2,16.21).

Cari amici, perché il fuoco dello Spirito Santo non si spenga, e voi possiate mantenere vivo lo sguardo e il cuore, è necessario essere radicati nella fede dei nostri anziani: padri, nonni, maestri. Non per restare prigionieri del passato, ma per imparare ad avere quel coraggio che può aiutarci a rispondere alle nuove situazioni storiche. La loro è stata una vita che ha resistito a molte prove e a molta sofferenza. Ma, lungo la strada, hanno scoperto che il segreto di un cuore felice è la sicurezza che troviamo quando siamo ancorati, radicati in Gesù, radicati nella vita di Gesù, nelle sue parole, nella sua morte e risurrezione.

«A volte ho visto alberi giovani, belli, che alzavano i loro rami verso il cielo tendendo sempre più in alto, e sembravano un canto di speranza. Successivamente, dopo una tempesta, lo ho trovati caduti, senza vita. Poiché avevano poche radici, avevano disteso i loro rami senza mettere radici profonde nel terreno, e così hanno ceduto agli assalti della natura. Per questo mi fa male vedere che alcuni propongono ai giovani di costruire un futuro senza radici, come se il mondo iniziasse adesso. Perché è impossibile che uno cresca se non ha radici forti che aiutino a stare bene in piedi e attaccato alla terra». Ragazzi e ragazze, è molto «facile ‘volare via’ quando non si sa dove attaccarsi, dove fissarsi» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 179).

Senza questo forte senso di radicamento, possiamo restare sconcertati dalle “voci” di questo mondo, che si contendono la nostra attenzione. Molte di quelle sono allettanti, proposte ben “truccate”, che all’inizio sembrano belle e intense, ma con il tempo finiscono per lasciare solo il vuoto, la stanchezza, la solitudine e la svogliatezza (cfr ibid., 142) e vanno spegnendo quella scintilla di vita che il Signore ha acceso un giorno in ognuno di noi.

Cari giovani! Voi siete una nuova generazione, con nuove speranze, nuovi sogni e nuove domande; sicuramente anche con alcuni dubbi, ma, radicati in Cristo, vi invito a mantenere viva la gioia e a non aver paura di guardare al futuro con fiducia. Radicati in Cristo, guardate con gioia e guardate con fiducia. Questa condizione nasce dal sapersi desiderati, incontrati e amati infinitamente dal Signore. L’amicizia coltivata con Gesù è l’olio necessario per illuminare il cammino, il vostro cammino, ma anche quello di tutti coloro che vi circondano: amici, vicini, compagni di studio e di lavoro, compreso quello di quanti sono del tutto in disaccordo con voi.

Andiamo incontro al Signore che viene! Non abbiate paura del futuro e non lasciatevi intimidire; al contrario, sappiate che nel futuro il Signore vi sta aspettando per preparare e celebrare la festa del suo Regno.


Ringraziamento del Santo Padre al termine della Messa con i giovani

Al termine di questa celebrazione, desidero ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile la mia visita in Tailandia e che hanno collaborato alla realizzazione.

Rinnovo l’espressione della mia gratitudine a Sua Maestà il Re Rama X, al Governo e alle altre Autorità del Paese per la loro premurosa accoglienza. Ringrazio di cuore i miei fratelli Vescovi e in particolare il Cardinale Francis Xavier, come pure i sacerdoti, le religiose e i religiosi, i fedeli laici, e specialmente voi, i giovani!

Un grazie sentito ai volontari che hanno collaborato con tanta generosità; e a quanti hanno mi accompagnato con la loro preghiera e i loro sacrifici, in modo particolare ai malati e ai carcerati.

Il Signore vi ricompensi con la sua consolazione e la pace che solo Lui può dare. E vi lascio un compito: non dimenticatevi di pregare per me. Tante grazie!


Guarda il video della Santa Messa

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Guarda i post precedenti:



La forza interiore della resilienza di p. Giovanni Salonia

La forza interiore della resilienza 
di p. Giovanni Salonia

pubblicato su HOREB 
N. 1 del 2019 (82)
RISVEGLIARE PASSIONI GIOIOSE


Non conosciamo mai la nostra altezza
finché non siamo chiamati ad alzarci
E. Dickinson


Fra le doti umane
Con “triste saggezza”, Giobbe lo afferma: «Militia est vita hominis super terram». La vita su questa terra è una guerra. Risuona il “Vivere militare est” di Seneca. 
La vita è militia, ma noi umani siamo attrezzati a combatterla: riceviamo in dote la resilienza, la capacità di affrontare anche le peggiori difficoltà.Tale capacità di resilienza è, in effetti, costitutiva della condizione umana.
È vero che l’esistenza del singolo, come quella della comunità, è in ultima analisi un continuo attraversare difficoltà antiche e nuove, fisiologiche e traumatiche, fisiche o morali, personali o relazionali, ma è altrettanto vero che l’attivare o non attivare la capacità di resilienza trasforma le asperità. Senza la resilienza il dolore “pietrifica la soglia”, blocca la crescita, diventa danno: come una palla di neve che cadendo sempre più si ingigantisce, così il dolore diventato danno raccoglie difficoltà di ieri, di oggi e di domani e schiaccia l’uomo.
Essere capaci di resilienza significa non lasciarsi bloccare, andare avanti, attraversare il dolore e trasformarlo in doglia di parto. Significa, ovvero, apertura a vite nuove, maturazioni impreviste, illuminazioni che non sarebbero accadute senza tali attraversamenti, tali rotture di equilibri e di previsioni. È quanto accade alla madre se nel travaglio del parto non chiude il suo corpo ma continua a respirare (e – decisamente – ad espirare e non trattenere), attraversa la paura del dolore e della morte, si apre e permette che una nuova vita venga al mondo. Perché emerga la resilienza, sono necessarie alcune condizioni: essere in contatto con il proprio corpo, con l’altro e con il momento presente.
Abitare il proprio corpo è condizione preliminare. Solo chi respira dalla testa ai piedi, chi sente tutto il proprio corpo può avvertire quella forza interiore che – come detto – fa di ogni uomo un guerriero: «Iniziò a respirare flebilmente la sensazione di sentirsi smarrito […] Toccò il suo corpo, si guardò attorno e sentì “qui io sono e adesso” e non fu preda del panico»(1). Abitare il proprio corpo è una competenza che richiede un percorso di crescita, alla scoperta di se stesso, di quello straniero-a-noi-stessi che è il nostro corpo. Come ci ricordano le arti marziali, di fronte al nemico non bisogna accartocciarsi o rimpicciolirsi, ma essere nella integrità e nella pienezza del proprio esser-ci-nel-corpo e nel mondo. Il dolore – dice il poeta K. Gibran – apre la conchiglia per far nascere la perla della nostra forza, della nostra dynamis che – sola – può regalarci l’esperienza di sentirsi vivi e in pienezza.
Sentirsi dentro una relazione. Maria sta partorendo, ha un travaglio intenso, agitato. Cerca sostegno e si aggrappa al braccio dell’ostetrica che la respinge e la invita ad aggrapparsi alle maniglie fredde della sedia da parto. Lei insiste. Ad un tratto un’altra ostetrica, giovane tirocinante, si avvicina, le dà la mano e Maria afferra quella mano e si placa. Un corpo vicino. Un corpo – anche in silenzio – ma presente.
La presenza dell’altro permette di essere presenti a se stessi, di non entrare nel panico e nell’agitazione. Mai come quando attraversiamo il dolore avvertiamo nella nostra carne che siamo corpi tra corpi. E nessun corpo è un’isola, ma si conosce solo come corpo-tra-corpi:
l’intercorporeità che diventa sostegno, che accompagna l’attraversamento. 
Stare nella temporalità significa abitare il qui-e-adesso. Il dolore genuino, quello vero, quello di adesso si sopporta con maggiore facilità di un dolore che si è contaminato con altre problematiche. È necessario ricordare che quando nuotiamo l’unica acqua nella quale siamo immersi è quella che ci avvolge: il mare è altro, appartiene al registro visivo. Stare nel dolore di adesso non caricandolo del dolore previsto né di quello di ieri è necessario per sostenere il dolore. Qualcuno insegnò che «ad ogni giorno basta la sua pena».

Resilienza… cioè?
Che la vita fosse lotta (il famoso polemos, «re e padre di tutte le cose grandi», aveva compreso già Eraclito) e che l’uomo fosse dotato di una grande forza interiore sconosciuta di cui ci si appropria solo quando viene provocata è stato, in vari modi, saputo dalla saggezza umana e verbalizzato con determinazione da tutte le religioni. I nomi sono (stati) tanti: dalla razionalità assolutizzata alla follia che fa smuovere le montagne (pensiamo alla furia di Orlando), dalla forza di volontà («Volli sempre volli, fortissimamente volli») alla atarassia, dalla santità alla flessibilità resistente («Mi piego ma non mi spezzo»). Oggi si parla di resilienza, parola presa in prestito dai metalli, per indicare una forza flessibile che non è rigida né assente.
Nella storia della psicologia, Freud (2) inizialmente la descrisse come espressione di quella aggressività innata (il thanatos) che produce violenza e morte o che è dovuta alla frustrazione di una libido repressa. Indicò nella fase anale il tempo dell’emergere di questa forza oppositiva. Otto Rank (3) per primo sottolineò che anche l’aggressività nei confronti del terapeuta (Gegenwille) può essere espressione di guarigione. Fritz Perls, correggendo Freud, colse invece nella dentizione la fase in cui la forza del bambino destruttura il cibo e decide se inghiottirlo ed assimilarlo o meno (4).
Per Perls l’aggressività è una spinta positiva innanzitutto per esprimere la propria individualità e la propria creatività. Anche l’Infant Research (5) ha mostrato come sin dall’inizio il bambino ha una sua autonomia che esprime con energia nei confronti del corpo della madre (pianto, urla, rifiuto del cibo, morsi), dimostrazione della naturale tendenza ad esprimere un propriopotere, a non subire o soccombere, ma a rialzare sempre la testa, amuoversi verso l’autonomia e l’affermazione di sé.
Dagli ultimi studi condotti dalla ricerca in Gestalt Therapy (6) la capacità di controllare i propri sfinteri anali è stata letta come indispensabile percorso per la graduale costruzione della propria forza e della propria capacità di incidere sul mondo e di appropriarsi delle proprie potenzialità e della propria capacità d’azione.
È questa, in effetti, la declinazione psicologica della felice intuizione di Merleau-Ponty (7), che indicò nell’“Io posso” una esperienza costitutiva della propria identità. Anche nella percezione del mondo siamo condizionati dal reale potere che abbiamo sull’oggetto che percepiamo. Merleau-Ponty sottolinea come l’azione abbia una valenza originale e originaria rispetto al pensiero. L’uomo non ha la misura di se stesso solo nell’“Io penso”, ma include come intimo elemento della propria identità l’“Io posso”, per cui il bambino che riesce per la prima volta a prendere un oggetto, a camminare, avverte un cambiamento decisivo nella definizione di sé. L’azione, ovvero, può accadere senza essere preceduta da pensieri e – ciò nonostante, o appunto per questo – produrre pensieri nuovi, risultare geniale ed artistica.
La risposta intima e profonda al dolore, per tornare al nostro tema, è cioè tanto più efficace e determinante quanto più essa mi appartiene ed è il risultato della mia forza, del mio calore, della mia luce.
La resilienza genuina è fatta di luce (vedo verso dove sto andando), di calore (sono in contatto con la vita e con i viventi di ieri, di adesso e che verranno) e di forza (si sveglia il guerriero che dorme nel mio corpo ed è pronto a lottare per conservare e per donare la vita). Fallimentare la luce senza la forza (non permette di camminare), come la forza senza la luce (gira a vuoto), mentre la luce e la forza senza calore diventano freddezza rassegnata o cinica.
In fondo anche le due esperienze di base della vita – mangiare ed amare un altro corpo – richiedono queste caratteristiche. Chi mangia deve avere fiducia nel mettere il cibo in bocca (il tiranno fa assaggiare allo schiavo perché teme il veleno), ma deve anche esprimere la forza di addentare ed infine deve avere una direzione in cui vuole arrivare.
Anche nel rapporto sessuale sono necessari calore, forza e luce.
Contrariamente a come si è portati a pensare, la forza è anche femminile,il calore anche maschile, la direzione condivisa permette ai corpi e alle anime di esprimersi reciprocamente e di vibrare in un unico canto.

Come si forma la resilienza?
Una battuta recita: vuoi essere felice? Scegliti due genitori sereni. La saggezza della battuta sta proprio nell’aver individuato che la matrice della resilienza va ricercata negli inizi, e cioè nella primissima socializzazione. Fino a qualche anno fa si discuteva e si oscillava tra l’attribuzione di merito al padre o alla madre. O si pensava che la virilità paterna forma e modella il bambino a resistere strenuamente di fronte alle difficoltà oppure che è il conforto materno che permette di raccogliere in sé la fiducia che fa risollevare. Né lo sguardo si allargava oltre. Oggi la risposta è ben diversa: per comprendere come si sviluppi una vera resilienza sono da guardare il padre, la madre e i fratelli.
La forza del codice paterno aiuta a creare la storia, a rispecchiarsi in quella biografia vissuta che nel corpo si forma di esperienza in esperienza e a riconoscerla nel proprio quotidiano agire. È la figura paterna che per lo più fornisce la spinta ad agire e a cercare il successo nella vita, che incoraggia e semplifica, che induce ad andare avanti ma che richiama anche all’appartenenza.
La forza del codice materno fornisce quel calore che sostienel’individualità e che permette di aver fiducia in se stessi e negli altri quando la tempesta infuria, di mantenere vivo il cuore e di sentire, ad esempio, vivo anche chi non è più nel mondo del visibile (la memoria storica).
Il codice fraterno è la forza paritaria, che “non prevarica e non si sottomette”, ma che sa vivere le esperienze così come sono: condividendole con i paritari, senza reprimerle (sarebbe un soffocarle) e senza amplificarle (sarebbe un restarne schiacciati).
A questo punto si apprende che la base di ogni capacità di resilienza è l’Ordo Amoris. Stare al proprio posto, nella propria collocazione all’interno della costellazione familiare e “avere la propria età”. Se il figlio è figlio e agisce da figlio ha la forza del figlio. Se un tredicenne agisce da tredicenne è forte, se agisce da undicenne o da quindicenne diventa insicuro,inconsistente.
La reazione resiliente (preziosità del termine!) (8) fluisce, quasi musicalmente, dall’accettare all’accogliere rimanendo integri, al proiettarsi in avanti. Una flessibilità sinuosa che dice tutto il cammino di crescita che il soggetto (e chi si è preso cura di lui) ha compiuto: come la lunga tenacianecessaria a crescere un bambino, a coltivare una pianta, a mantenere viva la fede. Come nelle arti marziali l’urlo, espressione della propria forza, richiede una preparazione progressiva e una raccolta in unità di tutto se stesso, così la resilienza è genuina se esprime integrità e pienezza ritmati in tre movimenti: mi piego, sento la mia forza e poi il balzo in avanti (9).

La resilienza... un processo
Una delle scoperte più interessanti sulla resilienza é stata certamente quella della Kubler-Ross perché ci ha fatto passare da una visione “statica” della resilienza ad una visione processuale. La resilienza non va identificata con una reazione scontata alle difficoltà, data una volta per sempre (come una serenità inossidabile), ma come diverse reazioni che si susseguono a seconda dei tempi della sofferenza. Lei ha verificato come la persona, se ha una sua integrità di base, sperimenta diverse modalità (a volte apparentemente contraddittorie) di resilienza. Il paziente, ad esempio, che – nella fase della ribellione – esprime la propria rabbia per il dolore che sta affrontando, in realtà sta esprimendo la sua forza, la sua resilienza.
Permettere alla persona di esprimere le proprie reazioni di ira, di depressione, di rifiuto del dolore significa facilitare la resilienza come processo che necessita di tempo per approdare ad una riconciliazione ed accettazione del dolore. «Se non molliamo, la rosa prima o dopo finirà per sbocciare. Perfino nel momento dell’agonia, nascerà».
La resilienza si costruisce, quindi, dentro il paradigma del corpo abitato – del corpo che dà presenza – e del tempo che modifica i vissuti e, se le condizioni sono state rispettate, conduce a quell’Amen al dolore e alla vita che fa sperimentare ad ogni uomo la pienezza del suo essere uomo.
Non per nulla gli antichi affermavano che l’ars artium è l’ars patiendi e l’ars moriendi
Il cardinale Martini racconta di aver chiesto al Signore, negli ultimi anni di vita, il perché del dolore e della morte. Perché dobbiamo conoscere lo strazio del soffrire e l’indicile dolore del finire? E – aggiungeva – un giorno ho capito, guardando il Crocifisso, che solo nel dolore della morte possiamo fare l’esperienza suprema: quella di un consegnarsi senza una uscita di sicurezza, un consegnarsi fino in fondo e fino alla fine (10).
Allora, forse, in ultima analisi la resilienza va cercata nella storia del nostro progressivo e definitivo consegnarci con forza e con amore al Principio da cui proveniamo. Solo così dall’”intimo più intimo” del nostro corpo sgorgherà un grido più forte di quello di Munch: il “grido” di chi invoca un Padre.


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(1) P. GOODMAN, Empire city. A novel of New York city, Black Sparrow Press, Santa Rosa (CA) 2001.
(2) Cf. S. FREUD, Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), in ID., Opere, vol. 4, Bollati-Boringhieri, Torino 1989
      (ed. or. 1905).
(3) Cf. O. RANK, Volontè et psychoterapie, Payot, Paris 1976.
(4) Cf. F. PERLS, L’io, la fame e l’aggressività, Franco Angeli, Milano 1995 (ed. or.1942/1969).
(5) Cf. B. BEEBE - F.M. LACHMAN, Un modello sistemico-Diadico delle interazioni,
      Raffaello Cortina, Milano 2003 (ed. or. 2002)
(6) G. SALONIA, L’errore di Perls. Intuizioni e fraintendimenti del postfreudismo gestaltico,
       in GTK Rivista di Psicoterapia, 2 (2011) 49-66.
(7) Cf. F. FERGNANI, Introduzione all’edizione italiana, in M. MERLEAU-PONTY, Il corpovissuto, Il Saggiatore,
        Milano 1997.
(8)  L’etimo, da resalio, indica il salire, il balzare in avanti.
(9)  Al riguardo, per il concetto di maturità, si veda G. SALONIA, Maturità, in J.M. PRELLEZO – C. NANNI – 
       G. MALIZIA (edd.), Dizionario di Scienze dell’Educazione, LAS-LDC-SEI, Roma 1997, 662-665.
(10) Si veda anche A. JODOROWSKI, I vangeli per guarire, Mondadori, Milano 2003 (ed.or. 1996).
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