venerdì 29 novembre 2019

La forza interiore della resilienza di p. Giovanni Salonia

La forza interiore della resilienza 
di p. Giovanni Salonia

pubblicato su HOREB 
N. 1 del 2019 (82)
RISVEGLIARE PASSIONI GIOIOSE


Non conosciamo mai la nostra altezza
finché non siamo chiamati ad alzarci
E. Dickinson


Fra le doti umane
Con “triste saggezza”, Giobbe lo afferma: «Militia est vita hominis super terram». La vita su questa terra è una guerra. Risuona il “Vivere militare est” di Seneca. 
La vita è militia, ma noi umani siamo attrezzati a combatterla: riceviamo in dote la resilienza, la capacità di affrontare anche le peggiori difficoltà.Tale capacità di resilienza è, in effetti, costitutiva della condizione umana.
È vero che l’esistenza del singolo, come quella della comunità, è in ultima analisi un continuo attraversare difficoltà antiche e nuove, fisiologiche e traumatiche, fisiche o morali, personali o relazionali, ma è altrettanto vero che l’attivare o non attivare la capacità di resilienza trasforma le asperità. Senza la resilienza il dolore “pietrifica la soglia”, blocca la crescita, diventa danno: come una palla di neve che cadendo sempre più si ingigantisce, così il dolore diventato danno raccoglie difficoltà di ieri, di oggi e di domani e schiaccia l’uomo.
Essere capaci di resilienza significa non lasciarsi bloccare, andare avanti, attraversare il dolore e trasformarlo in doglia di parto. Significa, ovvero, apertura a vite nuove, maturazioni impreviste, illuminazioni che non sarebbero accadute senza tali attraversamenti, tali rotture di equilibri e di previsioni. È quanto accade alla madre se nel travaglio del parto non chiude il suo corpo ma continua a respirare (e – decisamente – ad espirare e non trattenere), attraversa la paura del dolore e della morte, si apre e permette che una nuova vita venga al mondo. Perché emerga la resilienza, sono necessarie alcune condizioni: essere in contatto con il proprio corpo, con l’altro e con il momento presente.
Abitare il proprio corpo è condizione preliminare. Solo chi respira dalla testa ai piedi, chi sente tutto il proprio corpo può avvertire quella forza interiore che – come detto – fa di ogni uomo un guerriero: «Iniziò a respirare flebilmente la sensazione di sentirsi smarrito […] Toccò il suo corpo, si guardò attorno e sentì “qui io sono e adesso” e non fu preda del panico»(1). Abitare il proprio corpo è una competenza che richiede un percorso di crescita, alla scoperta di se stesso, di quello straniero-a-noi-stessi che è il nostro corpo. Come ci ricordano le arti marziali, di fronte al nemico non bisogna accartocciarsi o rimpicciolirsi, ma essere nella integrità e nella pienezza del proprio esser-ci-nel-corpo e nel mondo. Il dolore – dice il poeta K. Gibran – apre la conchiglia per far nascere la perla della nostra forza, della nostra dynamis che – sola – può regalarci l’esperienza di sentirsi vivi e in pienezza.
Sentirsi dentro una relazione. Maria sta partorendo, ha un travaglio intenso, agitato. Cerca sostegno e si aggrappa al braccio dell’ostetrica che la respinge e la invita ad aggrapparsi alle maniglie fredde della sedia da parto. Lei insiste. Ad un tratto un’altra ostetrica, giovane tirocinante, si avvicina, le dà la mano e Maria afferra quella mano e si placa. Un corpo vicino. Un corpo – anche in silenzio – ma presente.
La presenza dell’altro permette di essere presenti a se stessi, di non entrare nel panico e nell’agitazione. Mai come quando attraversiamo il dolore avvertiamo nella nostra carne che siamo corpi tra corpi. E nessun corpo è un’isola, ma si conosce solo come corpo-tra-corpi:
l’intercorporeità che diventa sostegno, che accompagna l’attraversamento. 
Stare nella temporalità significa abitare il qui-e-adesso. Il dolore genuino, quello vero, quello di adesso si sopporta con maggiore facilità di un dolore che si è contaminato con altre problematiche. È necessario ricordare che quando nuotiamo l’unica acqua nella quale siamo immersi è quella che ci avvolge: il mare è altro, appartiene al registro visivo. Stare nel dolore di adesso non caricandolo del dolore previsto né di quello di ieri è necessario per sostenere il dolore. Qualcuno insegnò che «ad ogni giorno basta la sua pena».

Resilienza… cioè?
Che la vita fosse lotta (il famoso polemos, «re e padre di tutte le cose grandi», aveva compreso già Eraclito) e che l’uomo fosse dotato di una grande forza interiore sconosciuta di cui ci si appropria solo quando viene provocata è stato, in vari modi, saputo dalla saggezza umana e verbalizzato con determinazione da tutte le religioni. I nomi sono (stati) tanti: dalla razionalità assolutizzata alla follia che fa smuovere le montagne (pensiamo alla furia di Orlando), dalla forza di volontà («Volli sempre volli, fortissimamente volli») alla atarassia, dalla santità alla flessibilità resistente («Mi piego ma non mi spezzo»). Oggi si parla di resilienza, parola presa in prestito dai metalli, per indicare una forza flessibile che non è rigida né assente.
Nella storia della psicologia, Freud (2) inizialmente la descrisse come espressione di quella aggressività innata (il thanatos) che produce violenza e morte o che è dovuta alla frustrazione di una libido repressa. Indicò nella fase anale il tempo dell’emergere di questa forza oppositiva. Otto Rank (3) per primo sottolineò che anche l’aggressività nei confronti del terapeuta (Gegenwille) può essere espressione di guarigione. Fritz Perls, correggendo Freud, colse invece nella dentizione la fase in cui la forza del bambino destruttura il cibo e decide se inghiottirlo ed assimilarlo o meno (4).
Per Perls l’aggressività è una spinta positiva innanzitutto per esprimere la propria individualità e la propria creatività. Anche l’Infant Research (5) ha mostrato come sin dall’inizio il bambino ha una sua autonomia che esprime con energia nei confronti del corpo della madre (pianto, urla, rifiuto del cibo, morsi), dimostrazione della naturale tendenza ad esprimere un propriopotere, a non subire o soccombere, ma a rialzare sempre la testa, amuoversi verso l’autonomia e l’affermazione di sé.
Dagli ultimi studi condotti dalla ricerca in Gestalt Therapy (6) la capacità di controllare i propri sfinteri anali è stata letta come indispensabile percorso per la graduale costruzione della propria forza e della propria capacità di incidere sul mondo e di appropriarsi delle proprie potenzialità e della propria capacità d’azione.
È questa, in effetti, la declinazione psicologica della felice intuizione di Merleau-Ponty (7), che indicò nell’“Io posso” una esperienza costitutiva della propria identità. Anche nella percezione del mondo siamo condizionati dal reale potere che abbiamo sull’oggetto che percepiamo. Merleau-Ponty sottolinea come l’azione abbia una valenza originale e originaria rispetto al pensiero. L’uomo non ha la misura di se stesso solo nell’“Io penso”, ma include come intimo elemento della propria identità l’“Io posso”, per cui il bambino che riesce per la prima volta a prendere un oggetto, a camminare, avverte un cambiamento decisivo nella definizione di sé. L’azione, ovvero, può accadere senza essere preceduta da pensieri e – ciò nonostante, o appunto per questo – produrre pensieri nuovi, risultare geniale ed artistica.
La risposta intima e profonda al dolore, per tornare al nostro tema, è cioè tanto più efficace e determinante quanto più essa mi appartiene ed è il risultato della mia forza, del mio calore, della mia luce.
La resilienza genuina è fatta di luce (vedo verso dove sto andando), di calore (sono in contatto con la vita e con i viventi di ieri, di adesso e che verranno) e di forza (si sveglia il guerriero che dorme nel mio corpo ed è pronto a lottare per conservare e per donare la vita). Fallimentare la luce senza la forza (non permette di camminare), come la forza senza la luce (gira a vuoto), mentre la luce e la forza senza calore diventano freddezza rassegnata o cinica.
In fondo anche le due esperienze di base della vita – mangiare ed amare un altro corpo – richiedono queste caratteristiche. Chi mangia deve avere fiducia nel mettere il cibo in bocca (il tiranno fa assaggiare allo schiavo perché teme il veleno), ma deve anche esprimere la forza di addentare ed infine deve avere una direzione in cui vuole arrivare.
Anche nel rapporto sessuale sono necessari calore, forza e luce.
Contrariamente a come si è portati a pensare, la forza è anche femminile,il calore anche maschile, la direzione condivisa permette ai corpi e alle anime di esprimersi reciprocamente e di vibrare in un unico canto.

Come si forma la resilienza?
Una battuta recita: vuoi essere felice? Scegliti due genitori sereni. La saggezza della battuta sta proprio nell’aver individuato che la matrice della resilienza va ricercata negli inizi, e cioè nella primissima socializzazione. Fino a qualche anno fa si discuteva e si oscillava tra l’attribuzione di merito al padre o alla madre. O si pensava che la virilità paterna forma e modella il bambino a resistere strenuamente di fronte alle difficoltà oppure che è il conforto materno che permette di raccogliere in sé la fiducia che fa risollevare. Né lo sguardo si allargava oltre. Oggi la risposta è ben diversa: per comprendere come si sviluppi una vera resilienza sono da guardare il padre, la madre e i fratelli.
La forza del codice paterno aiuta a creare la storia, a rispecchiarsi in quella biografia vissuta che nel corpo si forma di esperienza in esperienza e a riconoscerla nel proprio quotidiano agire. È la figura paterna che per lo più fornisce la spinta ad agire e a cercare il successo nella vita, che incoraggia e semplifica, che induce ad andare avanti ma che richiama anche all’appartenenza.
La forza del codice materno fornisce quel calore che sostienel’individualità e che permette di aver fiducia in se stessi e negli altri quando la tempesta infuria, di mantenere vivo il cuore e di sentire, ad esempio, vivo anche chi non è più nel mondo del visibile (la memoria storica).
Il codice fraterno è la forza paritaria, che “non prevarica e non si sottomette”, ma che sa vivere le esperienze così come sono: condividendole con i paritari, senza reprimerle (sarebbe un soffocarle) e senza amplificarle (sarebbe un restarne schiacciati).
A questo punto si apprende che la base di ogni capacità di resilienza è l’Ordo Amoris. Stare al proprio posto, nella propria collocazione all’interno della costellazione familiare e “avere la propria età”. Se il figlio è figlio e agisce da figlio ha la forza del figlio. Se un tredicenne agisce da tredicenne è forte, se agisce da undicenne o da quindicenne diventa insicuro,inconsistente.
La reazione resiliente (preziosità del termine!) (8) fluisce, quasi musicalmente, dall’accettare all’accogliere rimanendo integri, al proiettarsi in avanti. Una flessibilità sinuosa che dice tutto il cammino di crescita che il soggetto (e chi si è preso cura di lui) ha compiuto: come la lunga tenacianecessaria a crescere un bambino, a coltivare una pianta, a mantenere viva la fede. Come nelle arti marziali l’urlo, espressione della propria forza, richiede una preparazione progressiva e una raccolta in unità di tutto se stesso, così la resilienza è genuina se esprime integrità e pienezza ritmati in tre movimenti: mi piego, sento la mia forza e poi il balzo in avanti (9).

La resilienza... un processo
Una delle scoperte più interessanti sulla resilienza é stata certamente quella della Kubler-Ross perché ci ha fatto passare da una visione “statica” della resilienza ad una visione processuale. La resilienza non va identificata con una reazione scontata alle difficoltà, data una volta per sempre (come una serenità inossidabile), ma come diverse reazioni che si susseguono a seconda dei tempi della sofferenza. Lei ha verificato come la persona, se ha una sua integrità di base, sperimenta diverse modalità (a volte apparentemente contraddittorie) di resilienza. Il paziente, ad esempio, che – nella fase della ribellione – esprime la propria rabbia per il dolore che sta affrontando, in realtà sta esprimendo la sua forza, la sua resilienza.
Permettere alla persona di esprimere le proprie reazioni di ira, di depressione, di rifiuto del dolore significa facilitare la resilienza come processo che necessita di tempo per approdare ad una riconciliazione ed accettazione del dolore. «Se non molliamo, la rosa prima o dopo finirà per sbocciare. Perfino nel momento dell’agonia, nascerà».
La resilienza si costruisce, quindi, dentro il paradigma del corpo abitato – del corpo che dà presenza – e del tempo che modifica i vissuti e, se le condizioni sono state rispettate, conduce a quell’Amen al dolore e alla vita che fa sperimentare ad ogni uomo la pienezza del suo essere uomo.
Non per nulla gli antichi affermavano che l’ars artium è l’ars patiendi e l’ars moriendi
Il cardinale Martini racconta di aver chiesto al Signore, negli ultimi anni di vita, il perché del dolore e della morte. Perché dobbiamo conoscere lo strazio del soffrire e l’indicile dolore del finire? E – aggiungeva – un giorno ho capito, guardando il Crocifisso, che solo nel dolore della morte possiamo fare l’esperienza suprema: quella di un consegnarsi senza una uscita di sicurezza, un consegnarsi fino in fondo e fino alla fine (10).
Allora, forse, in ultima analisi la resilienza va cercata nella storia del nostro progressivo e definitivo consegnarci con forza e con amore al Principio da cui proveniamo. Solo così dall’”intimo più intimo” del nostro corpo sgorgherà un grido più forte di quello di Munch: il “grido” di chi invoca un Padre.


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(1) P. GOODMAN, Empire city. A novel of New York city, Black Sparrow Press, Santa Rosa (CA) 2001.
(2) Cf. S. FREUD, Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), in ID., Opere, vol. 4, Bollati-Boringhieri, Torino 1989
      (ed. or. 1905).
(3) Cf. O. RANK, Volontè et psychoterapie, Payot, Paris 1976.
(4) Cf. F. PERLS, L’io, la fame e l’aggressività, Franco Angeli, Milano 1995 (ed. or.1942/1969).
(5) Cf. B. BEEBE - F.M. LACHMAN, Un modello sistemico-Diadico delle interazioni,
      Raffaello Cortina, Milano 2003 (ed. or. 2002)
(6) G. SALONIA, L’errore di Perls. Intuizioni e fraintendimenti del postfreudismo gestaltico,
       in GTK Rivista di Psicoterapia, 2 (2011) 49-66.
(7) Cf. F. FERGNANI, Introduzione all’edizione italiana, in M. MERLEAU-PONTY, Il corpovissuto, Il Saggiatore,
        Milano 1997.
(8)  L’etimo, da resalio, indica il salire, il balzare in avanti.
(9)  Al riguardo, per il concetto di maturità, si veda G. SALONIA, Maturità, in J.M. PRELLEZO – C. NANNI – 
       G. MALIZIA (edd.), Dizionario di Scienze dell’Educazione, LAS-LDC-SEI, Roma 1997, 662-665.
(10) Si veda anche A. JODOROWSKI, I vangeli per guarire, Mondadori, Milano 2003 (ed.or. 1996).
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