giovedì 11 maggio 2023

La conversazione del Pontefice con i gesuiti di Ungheria durante il viaggio apostolico «Questo è lo stile di Dio»

Antonio Spadaro

La conversazione del Pontefice con i gesuiti di Ungheria durante il viaggio apostolico
«Questo è lo stile di Dio»



«La Civiltà Cattolica» ha pubblicato ieri pomeriggio sul proprio sito, a firma del direttore, il resoconto della conversazione di Papa Francesco con i gesuiti ungheresi, incontrati il 29 aprile scorso nella nunziatura di Budapest, durante il viaggio apostolico in terra magiara. 
Riportiamo la trascrizione integrale della conversazione.

Durante il secondo giorno del suo viaggio apostolico in Ungheria, il 29 aprile scorso, papa Francesco ha incontrato i gesuiti del Paese.

Intorno alle 18,00 è entrato nella sala della Nunziatura, dove erano raccolti 32 gesuiti, tra i quali il Provinciale, p. Attila András. Quindi ha salutato molti di loro, uno per uno. L’incontro è iniziato con il saluto del p. András, che ha pure presentato la situazione della Provincia. Alla fine, il Papa ha ringraziato e ha detto: «Ora fate le domande che volete. Grazie!». I gesuiti avrebbero voluto fare un dono per ogni risposta data: «un gioco», dice il socio del Provinciale, p. Koronkai Zoltán. Francesco ha riso di cuore, ma ha chiesto di fare prima tutte le domande, e poi alla fine di fare i regali tutti insieme, perché temeva che poi non ci fosse tempo.

La prima domanda riguarda la pastorale giovanile: come comportarsi con i giovani?

Per me la parola è «testimonianza». Senza testimonianza non si può fare nulla. Si finisce come quella bella canzone di Mina: «parole, parole, parole...». Senza testimonianza non si fa nulla. E testimonianza significa coerenza di vita.

Caro Papa Francesco, è una gioia averla da noi. Che cosa l’ha spinta a tornare in Ungheria dopo il suo viaggio del 2021?

La ragione è che la prima volta dovevo andare in Slovacchia, ma a Budapest c’era il Congresso eucaristico. Allora sono venuto qui per poche ore. Ma ho fatto la promessa di tornare, e sono tornato.

Come comportarsi con i giovani in formazione nella Compagnia di Gesù e con i giovani più in generale? Quali consigli può darci?

Parlare chiaro. Uno diceva che per essere un buon gesuita bisogna pensare chiaro e parlare oscuro. Ma con i giovani non deve essere così: bisogna parlare chiaro, far vedere loro coerenza. I giovani hanno fiuto per capire quando non c’è coerenza. E con i giovani in formazione bisogna parlare da adulti, come si parla a uomini, non a bambini. E introdurli nell’esperienza spirituale, prepararli alla grande esperienza spirituale che sono gli Esercizi. I giovani non tollerano il doppio linguaggio, questo per me è chiaro. Ma essere chiari non significa affatto essere aggressivi. La chiarezza si deve sempre unire all’amabilità, alla fraternità, alla paternità.

La parola chiave è «autenticità». Che i giovani dicano quel che sentono. Per me è importante il dialogo tra un giovane e un anziano: parlare, discutere. Mi aspetto autenticità, che si dicano le cose come sono, le difficoltà, i peccati... E tu come formatore devi insegnare ai giovani la coerenza. Importante è poi che i giovani dialoghino con i vecchi. I vecchi non possono stare nell’infermeria da soli: devono stare in comunità, in modo che sia possibile lo scambio tra loro e i giovani. Ricordate quella profezia di Gioele: i vecchi avranno dei sogni e i giovani saranno profeti. La profezia di un giovane è quella che nasce dal rapporto tenero con i vecchi. «Tenerezza» è una delle parole chiave di Dio: vicinanza, compassione e tenerezza. Su questa strada non sbaglieremo mai. Questo è lo stile di Dio.

Vorrei porle una domanda sul tema dell’amore cristiano per chi ha commesso abusi sessuali. Il Vangelo ci chiede di amare, ma come si fa ad amare allo stesso tempo persone che hanno fatto esperienza di abuso e i loro abusatori? Dio ama tutti. Ama anche loro. Ma noi? Senza mai coprire nulla, ovviamente, come facciamo noi ad amare gli abusatori? Vorrei offrire la compassione e l’amore che il Vangelo mi chiede per tutti, anche per il nemico. Ma come è possibile?

Non è affatto facile. Noi oggi abbiamo compreso che la realtà dell’abuso è molto ampia: ci sono abusi sessuali, psicologici, economici, con i migranti... Tu ti riferisci agli abusi sessuali. Come avvicinarci, come parlare agli abusatori per i quali proviamo ribrezzo? Sì, anche questi sono figli di Dio. Ma come si può amarli? La tua domanda è molto forte. L’abusatore va condannato, infatti, ma come fratello. Condannarlo è da intendere come un atto di carità. C’è una logica, una forma di amare il nemico che si esprime anche così. E non è facile da capire e da vivere. L’abusatore è un nemico. Ciascuno di noi lo sente tale perché ci immedesimiamo nella sofferenza degli abusati. Quando senti che cosa l’abuso lascia nel cuore delle persone abusate, l’impressione che ne ricevi è tremenda. Anche parlare con l’abusatore ci fa ribrezzo, non è facile. Ma anche loro sono figli di Dio. E ci vuole una pastorale. Meritano una punizione, ma insieme anche una cura pastorale. Come farlo? No, non è facile. Hai ragione.

Qual è stato il suo rapporto con p. Ferenc Jálics? Che cosa è successo? Come ha vissuto in quanto Provinciale quella tragica situazione? Lei ha ricevuto pesanti accuse...

I padri Ferenc Jálics e Orlando Yorio lavoravano in un quartiere popolare e lavoravano bene. Jálics è stato mio padre spirituale e confessore durante il primo e secondo anno di teologia. Nel quartiere dove lavorava c’era una cellula di guerriglia. Ma i due gesuiti non avevano niente a che fare con loro: erano pastori, non politici. Ma sono stati fatti prigionieri da innocenti. Non hanno trovato niente per accusarli, ma loro hanno dovuto fare nove mesi di carcere, subendo minacce e torture. Poi sono stati liberati, ma queste cose lasciano ferite profonde. Jálics è venuto subito da me e abbiamo parlato. Io gli ho consigliato di andare da sua madre negli Stati Uniti. La situazione era davvero troppo confusa e incerta. Poi si è sviluppata la leggenda che sarei stato io a consegnarli perché fossero imprigionati. Sappiate che un mese fa la Conferenza episcopale argentina ha pubblicato due volumi dei tre previsti con tutti i documenti relativi a quanto accaduto tra la Chiesa e i militari. Trovate tutto lì.

Ma torniamo alle vicende che stavo raccontando. Quando sono andati via i militari, Jálics mi ha chiesto il permesso di venire per fare un corso di Esercizi spirituali in Argentina. Io l’ho fatto venire, e abbiamo anche celebrato la Messa insieme. Poi l’ho rivisto da arcivescovo e poi ancora anche da Papa: è venuto a Roma a vedermi. Avevamo tenuto sempre questo rapporto. Ma quando venne l’ultima volta a trovarmi in Vaticano, io vedevo che lui soffriva perché non sapeva come parlarmi. C’era una distanza. Le ferite di quegli anni passati sono rimaste sia in me sia in lui, perché entrambi abbiamo vissuto quella persecuzione.

Alcuni del governo volevano «tagliarmi la testa», e hanno tirato fuori non tanto questo problema di Jálics, ma hanno messo in questione proprio tutto il mio modo di agire durante la dittatura. Mi hanno, quindi, chiamato in giudizio. A me è stata data la possibilità di scegliere dove tenere l’interrogatorio. Io ho scelto di farlo in episcopio. È durato 4 ore e 10 minuti. Uno dei giudici era molto insistente sul mio modo di comportarmi. Io ho sempre risposto con verità. Ma, dal mio punto di vista, l’unica domanda seria, con fondamento, ben fatta, è venuta dall’avvocato che apparteneva al partito comunista. E grazie a quella domanda le cose si sono chiarite. Alla fine, fu accertata la mia innocenza. Ma in quel giudizio non si parlò quasi per nulla di Jálics, ma di altri casi di persone che avevano chiesto aiuto.

Io poi ho rivisto qui a Roma da Papa due di quei giudici. Uno insieme a un gruppo di argentini. Non lo avevo riconosciuto, ma avevo l’impressione di averlo visto. Io lo guardavo, lo guardavo. Tra me e me dicevo: «ma io lo conosco». Mi ha abbracciato e se n’è andato. L’ho poi rivisto ancora e si è presentato. Gli ho detto: «io merito cento volte una punizione, ma non per quel motivo». Gli ho detto di stare in pace con questa storia. Sì, io merito un giudizio per i miei peccati, ma su questo punto voglio essere chiaro. È venuto anche un altro dei tre giudici, e mi ha detto chiaramente che avevano ricevuto indicazione dal governo di condannarmi.

Ma voglio aggiungere che quando Jálics e Yorio sono stati presi dai militari, la situazione che si viveva in Argentina era confusa e non era per nulla chiaro che cosa si dovesse fare. Io ho fatto quel che sentivo di fare per difenderli. È stata una vicenda molto dolorosa.

Jálics era un uomo buono, un uomo di Dio, un uomo che cercava Dio, ma è stato vittima di un entourage al quale lui non apparteneva. Lui stesso l’ha capito. Era l’entourage della guerriglia attiva nel luogo dove lui andava a fare il cappellano. Ma nella documentazione che è stata pubblicata in due volumi voi troverete la verità su questo caso.

Il concilio Vaticano II parla del rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno. Come potremo riconciliare la Chiesa e la realtà che è già oltre il moderno? Come trovare la voce di Dio amando il nostro tempo?

Non saprei come risponderti teoricamente, ma certamente so che il Concilio è ancora in via di applicazione. Ci vuole un secolo perché un Concilio sia assimilato, dicono. E so che le resistenze sono terribili. C’è un restaurazionismo incredibile. Quello che io chiamo «indietrismo», come dice la Lettera agli Ebrei 10,39: «Noi però non siamo di quelli che tornano indietro». Il flusso della storia e della grazia va da giù in su come la linfa di un albero che dà frutto. Ma senza questo flusso tu rimani una mummia. Andando indietro non si conserva la vita, mai. Si deve cambiare, come scrive nel Commonitórium primum san Vincenzo di Lérins quando afferma che anche il dogma della religione cristiana progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età. Ma questo è un cambio dal basso in alto. Il pericolo oggi è l’indietrismo, la reazione contro il moderno. È una malattia nostalgica. Questo è il motivo per cui ho deciso che ora la concessione di celebrare secondo il Messale romano del 1962 è obbligatoria per tutti i nuovi preti appena consacrati. Dopo tutte le consultazioni necessarie, l’ho deciso perché ho visto che quella misura pastorale ben fatta da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI veniva usata in modo ideologico, per tornare indietro. Bisognava fermare questo indietrismo, che non era nella visione pastorale dei miei predecessori.

Fra tre settimane ci sarà la mia ordinazione sacerdotale. Lei si ricorda com’è stata la sua ordinazione sacerdotale? Vuole dare un consiglio a un prete appena ordinato?

Eravamo in cinque. Siamo rimasti vivi in due. Ho un bel ricordo. E sono grato ai superiori che ci hanno preparato bene, e hanno realizzato una celebrazione bella, semplice, senza pompa né ostentazione nel giardino della Facoltà. Momenti belli. Ed è stato bello per me anche vedere che era presente un gruppo dei miei compagni del laboratorio chimico dove lavoravo, tutti atei e comunisti. Erano presenti! Una di loro è stata sequestrata e poi uccisa dai militari. Vuoi un consiglio: non allontanarti dai vecchi!

* * *

Alla fine, Francesco si è alzato e ha detto: «Grazie tante di questa visita. Possiamo pregare la Madonna e così poi darò la benedizione». Quindi il Papa ha ricevuto vari regali, che ciascuno ha presentato dando spiegazioni dettagliate. Quindi Francesco ha salutato individualmente coloro che non aveva salutato all’ingresso e poi è stata scattata una foto di gruppo.
(fonte: L'Osservatore Romano 10 maggio 2023)