sabato 30 aprile 2022

NEL CIBO BUONO, L'AMORE - E dopo il cibo buono, dopo il pane e il pesce, la domanda delle domande, solenne e terribile: “Mi ami?” Solo questo vale, solo questo conterà. - III Domenica di Pasqua / C - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Ronchi

NEL CIBO BUONO, L'AMORE
 

E dopo il cibo buono, dopo il pane e il pesce,
la domanda delle domande, solenne e terribile: “Mi ami?”
Solo questo vale, solo questo conterà.


I commenti di p. Ermes al Vangelo della domenica sono due:
  • il primo per gli amici dei social
  • il secondo pubblicato su Avvenire

(...) Quando già era l'alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. (...) Giovanni 21,1-19
per i social

NEL CIBO BUONO, L'AMORE

E dopo il cibo buono, dopo il pane e il pesce, la domanda delle domande, solenne e terribile: “Mi ami?” Solo questo vale, solo questo conterà.


Gesù è risorto, sta tornando al Padre, eppure implora amore, amore umano. Lui che ha detto a Maddalena: «non mi trattenere, devo salire», è invece trattenuto sulla terra da un bisogno, da una fame umanissima e divina. Può andarsene se è rassicurato di essere amato.

Gesù e Pietro in uno dei dialoghi più affasci­nanti della let­teratura: tre do­mande, come nel­la sera dei tradimenti, at­torno al fuoco nel cortile di Caifa, quando Cefa, la Roc­cia, ebbe paura di una ser­va. E da parte di Simone tre dichiarazioni d'amore a ri­comporre la sua innocenza, a guarirlo alla radice.

E dopo il cibo buono, preparato con cura, dopo il pane abbrustolito, un po’ di pesce e di olio buono, la domanda delle domande, solenne e terribile: “Mi ami?” Solo questo vale, solo questo conterà. Semplicità essenziale di parole che non bastano mai, perché la vita ne ha fame insaziabile.

Simone di Giovanni, mi ami più di costoro? Pietro sente il pianto salirgli in gola nel cercare una risposta a quella domanda enorme che lo fa tremare, e rispon­de dicendo sì e no al tempo stesso. Non si misura con gli altri che sono lì attorno al fuoco, non resta nei termini del­la questione: infatti mentre Gesù usa il verbo sublime dell'amore assolu­to, l’agape che tutto muove, Pietro risponde con il verbo umile, quotidiano, dell'amicizia e del­­l'affetto: ti voglio bene. Allora Gesù incalza:

Simone figlio di Giovan­ni, mi ami? Gesù ha capito la fatica dell’amico, e cambia domanda, chiede di meno. Pietro risponde, ma come prima non sa parlare di amore, non osa, si ag­grappa ancora all'amicizia, che conosce: io ti sono ami­co, lo sai, ti voglio bene.

Nella terza domanda, Ge­sù accetta che Pietro non riesca a ri­spondere sulla stessa lunghezza d’onda, si avvicina al suo cuore incerto, ne accoglie il limite, e adotta il suo verbo: Pietro, mi vuoi bene?

Gli domanda l'affetto se l'a­more è troppo; l'amicizia al­meno, se l'amore mette paura; semplicemente un po' di bene.

Gesù dimostra autentico amore proprio rallen­tando il passo sulla mi­sura del discepolo imperfetto, con tutta l'u­miltà dell'a­more vero, con l’umiltà di Dio. Il maestro dimostra la sua grandezza dimenticando lo sfolgorio dell'agàpe e abbassandosi ogni volta a livello della sua creatura: l'amore vero si mette ai piedi dell'amato.

A Gesù non interessa giudicare o assolvere; per lui nessun uomo coincide con i suoi peccati, né con le notti senza frutto; lui misura il valore della creatura a partire dal cuore, che lui intende ravvivare con il calore della sua presenza: “stare vicino a me è stare vicino al fuoco” , come afferma il Vangelo apocrifo di Tommaso.

Simone mostra la vera santità: essa non consiste nell’assenza di peccato, ma nel rinnovare la passione per Cristo, oggi, adesso, donando l’amore che puoi, meglio che puoi, quello che hai.

Allora chiamami, Signore, so che non cerchi uomini infallibili, ma solo appassionati. Chiamami ancora e ti seguirò.

per Avvenire

Sorpresi da Gesù: «Mi ami più di tutti?»  (...)




La fede al tempo della guerra di Santino Coppolino

 La fede al tempo della guerra
 di Santino Coppolino



“Papa Francesco interviene contro la guerra, ma ... Il Papa non può che dire ciò dice, ma ... “ fino all'imbarazzante: “Fate tacere il signor Bergoglio!”. C'è sempre un "ma" che, in tanti troppi stucchevoli commenti, accompagna il NO alla guerra del Papa per “contestualizzarlo" e "depotenziarlo". Il Papa continua a ripetere che la guerra è un'avventura senza ritorno, sulle orme dei suoi immediati predecessori, in particolare di S. Giovanni Paolo II, ma anche le parole di Papa Wojtyla, in occasione delle due guerre all'Iraq e di quella dei Balcani, vennero contestualizzate e derubricate anche e principalmente dentro la Chiesa. 

La fede cristiana riguarda la vita quotidiana nella trama complessiva degli avvenimenti, personali e collettivi, che la caratterizzano. Siamo figli di Dio nella Persona di Gesù di Nazareth, per opera dello Spirito Santo, e per comprendere cosa qualifica la nostra fede dobbiamo necessariamente riferirci al Signore Gesù, al suo esempio di vita, in buona sostanza alla più antica delle Tradizioni della Chiesa: il Vangelo. Gesù è il Volto e la Parola di Dio nella grazia della sua umanità, ma se le Chiese abbandonano il loro Maestro e Signore, “fonte d'acqua viva, per scavarsi cisterne screpolate che non contengono l'acqua” (Ger 2,13), tradiscono sé stesse, ma soprattutto il progetto d'amore che Dio sogna per ognuno di noi. Con singolare puntualità, ogni qualvolta la situazione diventa drammatica e la vita precaria, la tentazione di coprire la violenza sacralizzandola principalmente attraverso un uso distorto della Sacra Scrittura, diventa una pratica utilizzata con disinvoltura. 

Il Dio che protegge "le nostre truppe" che vanno ad uccidere le truppe dell'esercito nemico è una bestemmia che ancora oggi risuona blasfema fra i credenti, anche sulla bocca di cardinali, vescovi e preti. Occorre un sussulto di dignità e una denuncia lucida delle eresie che ascoltiamo da capi di stato e di governo, ma anche da capi di chiese. “La Tradizione Cristiana, quella autentica, non merita questi contro testimoni “ (cit.). I ministri della Chiesa sono le persone meno giustificate nell'usare i testi sacri contro qualcuno, come vessillo di una parte contro l'altra. Il cristianesimo e Cristo stesso non si prestano a queste strumentalizzazioni odiose, che diventano bestemmie anche sulla bocca dei gradi più alti della gerarchia ecclesiastica. Ciò è accaduto in passato e accade anche oggi. Quando si chiama in campo Dio per demonizzare ed ammazzare 'i nemici', i responsabili delle Chiese e i singoli fedeli hanno il dovere di non permettere che questo accada. Un ortodosso (Putin) e un cattolico (Biden) del tutto analfabeti nella Fede, che come capi di Stato sfigurano, deturpano e oltraggiano la Parola da cui dovrebbero essere guidati e orientati, è un gravissimo problema, perché si permette loro la peggiore idolatria, la bestemmia più grave: quella che sostituisce all'intenzione del testo sacro una sua lettura di parte, di separazione, di opposizione, di morte.

La Parola della Vita che è per tutti, diventa minaccia di morte per gli altri. Nessuno può permettersi di gettare nel fango la Parola di Dio, di ridurla a supporto delle sue politiche di potenza e di morte. “Il Dio di Gesù Cristo riprova queste parole, le sputa, le condanna e le sovverte” (cit.). L'inerzia di una tradizione della Chiesa opaca e distorta è ancora molto forte. “Il Concilio Vaticano II ha modificato doverosamente e con sapienza molti testi, ma non ha ancora modificato le teste” (cit.). Occorre che i cristiani: cattolici, ortodossi e quelli nati dalla riforma, maturino un linguaggio diverso in cui tutti possano comprendere che, se si vogliono scannare, non possono più farlo in nome di Dio: questo è l'ABC della fede

(testo pubblicato su Tabor7.0)

Guarda anche i nostri post già pubblicati: 



- Giuseppe Savagnone - La sconfitta di papa Francesco e la Pasqua di Gesù 

- PASQUA - MESSAGGIO URBI ET ORBI DI PAPA FRANCESCO: «Gesù, il Crocifisso, è risorto! ... Oggi più che mai abbiamo bisogno di Lui, che venga in mezzo a noi e ci dica ancora: "Pace a voi!" ... Fratelli e sorelle, lasciamoci vincere dalla pace di Cristo! La pace è possibile, la pace è doverosa, la pace è primaria responsabilità di tutti!» 17/04/2022

Giuseppe Savagnone Etica e politica nella guerra in Ucraina

Giuseppe Savagnone 
Etica e politica nella guerra in Ucraina

Photo by GR Stocks on Unsplash

La politica non può essere separata dalla morale

Quando, il 24 febbraio scorso, le truppe russe invasero senza preavviso l’Ucraina, con l’evidente intento di soffocare la libertà di un popolo che in passato troppe volte era stato umiliato e schiacciato dai potenti di turno del Cremlino, un giusto moto di indignazione si sollevò da parte della grande maggioranza dell’opinione pubblica mondiale.

Veniva smentita clamorosamente la tesi di Machiavelli, secondo cui la politica ha proprie regole, fondate non sul criterio del bene e del male, ma su quello dell’efficacia e dell’inefficacia, che la rendono indipendente dall’etica. In realtà l’unità dell’essere umano rende impossibile questa separazione. La guerra in Ucraina ne è stata una prova. Non possiamo valutarla soltanto nei termini asettici della realpolitik, mettendo tra parentesi la questione morale.

Ne sono una conferma le nostre reazioni di fronte alle atroci immagini di civili uccisi a sangue freddo a Bucha, che hanno contribuito a evidenziare la disumanità di questa aggressione. Da qui l’approvazione che dai più è stata data, fin dall’inizio, all’invio di armi che consentissero al coraggioso popolo ucraino, mobilitato in tutti i suoi strati sociali, di difendere la propria terra. Al di là di ogni logica di successo, questa scelta si è imposta perché è apparsa giusta.

Pacifismo e pace

Già in questa fase, per la verità, si erano levate delle voci di dissenso, in nome di un pacifismo che avrebbe preferito la resa incondizionata degli aggrediti ai sacrifici e ai lutti provocati dalla loro resistenza. Anche questa, peraltro, era una valutazione morale del problema politico. Solo che nasceva da una concezione molto riduttiva della pace, identificata automaticamente con l’assenza di guerra.

In realtà, proprio in una prospettiva etica, essa è molto di più. Lo spiegava papa Francesco durante l’Angelus del 4 gennaio 2015: «La pace non è soltanto assenza di guerra, ma una condizione generale nella quale la persona umana è in armonia con sé stessa, in armonia con la natura e in armonia con gli altri». Echeggia in queste parole la definizione che Agostino aveva dato del concetto di pace come «tranquillità dell’ordine». Dove “ordine” implica innanzi tutto libertà e giustizia. Senza di esse, lo si ridurrebbe a quello espresso nella famosa frase dal ministro francese Sebastiani, nel 1831, dopo la spietata repressione russa della rivolta polacca: «L’ordine regna a Varsavia».

Per questo, nel messaggio per la Giornata della pace del 1984, Giovanni Paolo II distingueva il significato di “pace” da quello di “pacifismo”: l’uomo di pace, osservava il pontefice, «ha il coraggio di difendere gli altri che soffrono e rifiuta di capitolare davanti all’ingiustizia, di compromettersi con essa; e, per quanto ciò sembri paradossale, anche colui che vuole profondamente la pace rigetta ogni pacifismo che equivalga a debolezza o a semplice mantenimento della tranquillità. In effetti, quelli che sono tentati di imporre il loro dominio incontreranno sempre la resistenza di uomini e donne intelligenti e coraggiosi, pronti a difendere la libertà per promuovere la giustizia».

Un pacifismo che rivendichi la ricerca della pace ad ogni costo dimentica che ci sono dei costi incompatibili con l’idea stessa di pace. E che vi è una legittima difesa che può richiedere il ricorso alla forza per contrastare la violenza.

La debolezza delle obiezioni utilitaristiche

La contrarietà alla mobilitazione in favore degli ucraini, però, oltre alle motivazioni etiche, ne ha avute anche altre, di natura molto più utilitaristica. Così, da parte di alcuni, si è insistito sui danni e sui disagi che le sanzioni avrebbero provocato alla nostra economia e al nostro tenore di vita. Si sono evocati scenari in cui il venir meno delle forniture di gas e di petrolio russi ci avrebbero costretto a soffrire il freddo d’inverno e il caldo d’estate.

Si è sottolineata la diversità d’interessi tra noi italiani e gli Stati Uniti. Si è parlato di una “guerra per procura”, combattuta dagli americani sulla pelle degli europei. A queste argomentazioni si è risposto, correttamente, che la difesa della libertà di un popolo vale più di tutti i vantaggi materiali a cui dovremo rinunziare e che, pur essendovi delle diversità d’interessi, vi è tuttavia con gli Stati Uniti una convergenza di fondo su valori essenziali che in questo momento la Russia sta calpestando.

L’invasione russa è moralmente legittima?

Più seria e più inquietante è stata e rimane un’obiezione che nasce da una più ampia visione geopolitica del conflitto in corso e che collega l’operazione militare di Putin all’espansionismo della Nato verso est in questi ultimi anni. Si sottolinea che, dopo la caduta del muro di Berlino, era stata data assicurazione verbale al presidente russo Gorbaciov che la Nato non avrebbe approfittato delle difficoltà della Russia per ulteriori espansioni, che invece ci sono state. A tal proposito è significativa la testimonianza diretta di Jack Matlock, ambasciatore americano a Mosca dal 1987 al 1991 in un’intervista rilasciata al «Corriere della Sera» del 15 luglio 2007 e citata nel libro dell’ex ambasciatore Sergio Romano Atlante delle crisi mondiali (Rizzoli, 2018).

«Quando ebbe luogo la riunificazione tedesca», diceva in essa Matlock, «noi promettemmo al leader sovietico Gorbačëv – io ero presente – che se la nuova Germania fosse entrata nella Nato non avremmo allargato l’Alleanza agli ex Stati satelliti dell’Urss nell’Europa dell’Est. Non mantenemmo la parola». Così, nel 1999 Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca divennero a tutti gli effetti membri della Nato. Nel 2004 fu la volta di quattro Paesi ex membri del Patto di Varsavia: Romania, Bulgaria, Slovacchia e Slovenia, nonché di tre ex repubbliche sovietiche, Lettonia, Estonia e Lituania. Nel 2009 aderirono Croazia e Albania. Nel 2017 il Montenegro. Nel 2020 la Macedonia del Nord.

Questo quadro, si osserva, non poteva non allarmare la Russia e sollevare da parte sua forti resistenze all’ingresso nella Nato di un’altra ex repubblica sovietica, appunto l’Ucraina. Basta guardare la carta dell’Europa orientale per rendersi conto che quello che si sta verificando è un accerchiamento della Russia da parte dell’America e dei suoi alleati. Che tra l’altro mirerebbero, secondo questa lettura a imporre la loro cultura decadente e immorale. Da qui la legittimità etica dell’intervento del Cremlino e il pieno sostegno dato ad esso dalla Chiesa ortodossa, nella persona del patriarca di Mosca.

Per una valutazione critica complessiva

Neppure questa obiezione all’appoggio dato all’Ucraina dall’Occidente appare però convincente. Sono molti gli indizi che fanno pensare a un preciso disegno di Putin, volto a ricostituire i confini del territorio, o almeno dell’egemonia, dell’ex Unione Sovietica. Significative, a questo proposito, le sue dichiarazioni, all’inizio della guerra, sul fatto che russi e ucraini sono un popolo solo (ampiamente contraddette, poi, dalla strenua resistenza ucraina).

Ma anche a prescindere da questo, la via da percorrere avrebbe dovuto essere quella del dialogo, non un’invasione ai danni di un Paese libero, devastando sistematicamente i centri abitati e causando l’esodo forzato di cinque milioni di persone. Non è certo così che si difendono i valori morali che si dice di voler difendere.

È vero, però, che il quadro offerto dall’espansione della Nato avrebbe potuto e dovuto essere, per l’America e per i suoi alleati, un motivo di riflessione e di negoziato, come lo era stato, nel 1962, l’invio di missili a Cuba, con il braccio di ferro determinatosi allora tra Russia e Stati Uniti e risolto con un accordo che segnò un rasserenamento dei rapporti tra le due potenze. Invece sia il presidente americano che quello ucraino, pur essendo al corrente dell’imminente attacco di Putin, non hanno fatto nulla per cercare di rassicurarlo su questo punto. Abbiamo già notato che probabilmente questo non sarebbe servito ad evitare l’invasione.

Ma è un dato di fatto che il Paese leader della Nato non ha messo, per evitare la guerra, neppure un briciolo dell’impegno che sta profondendo invece nel sostenerla. Perché è stato evidente l’atteggiamento di aggressività di Biden (con dichiarazioni così estreme da mettere in imbarazzo perfino i suoi collaboratori), in piena sintonia col presidente ucraino. Putin non ha voluto trattare, ma loro neppure. Così, l’iniziale intento di aiutare la vittima a difendersi dal suo aggressore, per arrivare a una onorevole pace, si è sempre più esplicitamente trasformato in quello di vincere la guerra.

E in questa direzione è andata anche l’escalation nella fornitura di armamenti sempre più pesanti all’esercito ucraino, incitandolo – come in questi giorni ha fatto il governo inglese esplicitamente – ad usarli anche per attaccare la Russia sul suo territorio. Qui non è più in gioco la difesa dell’Ucraina, ma uno scontro tra potenze che può terminare solo con la sconfitta e l’umiliazione del nemico. C’è da chiedersi se, a questo punto, sia ancora l’etica della pace a ispirare la politica, o non sia quest’ultima a servirsi dell’etica, sbandierandone i princìpi per i propri scopi. Machiavelli, allora, avrebbe vinto…

Con effetti che potrebbero essere devastanti anche dal punto di vista strettamente utilitaristico. Perché è vero che la morale è una componente essenziale della politica. La menzogna e la prepotenza non portano fortuna a chi ricorre ad esse. Ne è una prova l’andamento disastroso, anche in un’ottica di costi e benefici, dell’assurda aggressione di Putin.

Ma questo deve mettere in guardia tutti. Sappiamo cosa è accaduto in Iraq all’indomani della schiacciante vittoria americana (allora erano loro gli invasori) e della trionfale dichiarazione del presidente George Bush Jr: «Missione compiuta». Un caos, da cui a stento gli Stati Uniti, dopo avere provocato quella catastrofe, sono riusciti a svincolarsi. La disfatta della Russia sarebbe molto più pericolosa. Per tutti.

La verità è che oggi, ormai, da una guerra non possono uscire vincitori, ma solo perdenti. Putin sarà costretto a rendersene conto. Ma anche l’America e i suoi alleati farebbero bene a ricordarlo.
(fonte: Tuttavia 28/04/2022)

venerdì 29 aprile 2022

Africa Metà della ricchezza privata del continente concentrata in cinque paesi

Patrimoni privati in crescita del 38% nei prossimi 10 anni

Africa
Metà della ricchezza privata del continente concentrata in cinque paesi

L'uomo più ricco del continente, il tycoon nigeriano Aliko Dangote


Ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri. E l’Africa non fa eccezioni. Sudafrica, Egitto, Nigeria, Marocco e Kenya detengono insieme oltre il 50% della ricchezza privata del continente africano. È ciò che emerge dall’Africa Wealth Report 2022 pubblicato ieri.

La ricchezza privata attualmente detenuta nel continente africano ammonta a 2,1 trilioni di dollari e dovrebbe crescere del 38% nei prossimi dieci anni.

Secondo il rapporto, l’Africa ha attualmente 136mila “persone molto ricche” con un patrimonio privato di oltre 1 milione di dollari, 305 individui con oltre 100 milioni di dollari e 21 miliardari.

Il Sudafrica ospita almeno il doppio dei super ricchi rispetto a qualsiasi altro paese africano, mentre l’Egitto vanta il maggior numero di miliardari. L’uomo più ricco del continente resta l’imprenditore nigeriano Aliko Dangote, con un patrimonio (in crescita) di 14,7 miliardi di dollari.

A livello globale, il Sudafrica è al 28° posto per ricchezza privata totale, davanti alle principali economie come Argentina, Malesia, Tailandia e Turchia. È anche il più grande mercato del lusso in Africa con un fatturato di 2 miliardi di dollari all’anno.

Per quanto riguarda le città africane, le due più ricche sono in Sudafrica, con Johannesburg (con un patrimonio privato totale di 239 miliardi di dollari) e Città del Capo (131 miliardi di dollari). Segue Il Cairo (con 128 miliardi di dollari) e Lagos (97 miliardi di dollari).

In generale, «L’Africa ospita alcuni dei mercati in più rapida crescita al mondo, tra cui Rwanda, Uganda e Mauritius. Prevediamo una crescita della ricchezza privata di oltre il 60% in tutti e tre i paesi nel prossimo decennio, trainata da una performance particolarmente forte nei settori della tecnologia e dei servizi professionali» ha commentato Andrew Amoils, capo della ricerca presso New World Wealth, società di sudafricana intelligence patrimoniale curatrice dello studio in collaborazione con Henley & Partners. «Una forte crescita della ricchezza privata di oltre il 50% è prevista anche in Kenya, Marocco, Mozambico e Zambia nei prossimi 10 anni», ha aggiunto.
(fonte: Nigrizia 27 Aprile 2022)


Raniero La Valle LO SPETTRO DELLA VITTORIA

Raniero La Valle
LO SPETTRO DELLA VITTORIA



Chiesadituttichiesadeipoveri.it Newsletter n. 260 del 27 aprile 2022.

Cari Amici,
se non si riesce a porre fine a questa guerra nefasta che ha già distrutto l’anima del mondo prima ancora che le istituzioni che ne assicurano la vita, è perché non è stato esorcizzato lo spettro della vittoria. È un luogo comune, ma del tutto falso, che la vittoria sia la conclusione migliore di una guerra. Si tratta di un mito antico: la vittoria è il premio della guerra; la vittoria alata si libra sul trionfo del condottiero, schiaccia l’elmo del vinto; non è concepibile se non la vittoria come uscita dalla guerra, padre e principio di tutte le cose, come è stata teorizzata da sempre, almeno a partire dal detto di Eraclito.
Perfino Gesù, che amava i nemici, ammetteva che la guerra si fa per vincerla: “quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano gli manda dei messaggeri per chiedergli pace”.
Ma in realtà non è affatto vero che, una volta precipitati nella guerra, la cosa migliore è vincerla. Se oggi celebriamo la vittoria del 25 aprile, è perché avevamo perso la guerra, ed era stata una fortuna, con i Tedeschi in casa! Chi oggi rimpiange di non aver vinto quella guerra? Nemmeno i fascisti. Altri orrori si sarebbero aggiunti agli orrori. E non avremmo avuto la Costituzione, la libertà, l’industria, il denaro, tutte le cose di cui oggi ci gloriamo.
Eppure siamo sempre là. Il segretario di Stato americano Antony Blinken e il capo del Pentagono Lloyd Austin nella loro fuggevole visita a Kiev di qualche giorno fa hanno promesso all’Ucraina di Zelensky di farle vincere la guerra, che poi vuol dire che a vincerla saranno gli Stati Uniti. La stessa cosa aveva promesso qualche giorno prima il presidente Biden in un “tweet” (che sono le nuove dichiarazioni di guerra che una volta si consegnavano agli ambasciatori) enumerando le armi e i soldi che gli Stati Uniti avrebbero fornito all’Ucraina, mentre Lloyd Austin ha aggiunto che bisogna fiaccare la Russia in modo che non possa fare più nessuna guerra. Più vittoria di questa!
Naturalmente anche Putin vuole vincere, tanto più ora quando gli hanno detto in tutti i modi che in gioco c’è non solo la sua sopravvivenza ma quella stessa della Russia; però non sa come fare, perché certo non basta, come ha chiesto al ministro della Difesa Shoigu, non far volare nemmeno una mosca sull’acciaieria Azovstal (che non sembra la metafora di una vittoria).
E vincere vuole soprattutto Zelensky, ben contento che ora le armi, come ha detto, gli arrivino “in tempo reale”, cioè subito e quante ne vuole.
Ma l’Ucraina ha già pagato un alto prezzo al mito della vittoria, questo spettro che viene dal regno dei morti, dagli Stati Uniti attraversa l’Atlantico, da Ramstein si aggira per l’Europa e minaccia il mondo dal mucchio di cadaveri su cui sale in Ucraina. Già una rovina era stata per l’Ucraina aver insistito con puntiglio a volere la NATO, nonostante ci fossero ben più di ventimila russi a premere sulla frontiera del Paese (e chissà per quale inconfessato disegno incoraggiati da Biden ad entrarvi, come sostengono Caracciolo e “Limes”). Ma la catastrofe è venuta per l’Ucraina quando ha cominciato a credere che la guerra poteva vincerla davvero con tutti gli incoraggiamenti e l’altruismo sospetto dell’Occidente, con gli aiuti di ogni genere, politici, militari, economici, sacrali, con il suo straziato popolo narrato come esercito, sia pure con lo stereotipo delle donne che accudiscono e portano in salvo i bambini mentre gli uomini restano o sono mandati indietro a combattere, e oltre cinque milioni di profughi, e le città bombardate e distrutte, e la fama di invitti su tutti i teleschermi e in molti Parlamenti del mondo, compreso il nostro.
In realtà, a questo punto della storia, dopo tutti gli errori che da una parte e dall’altra sono stati fatti, la vittoria, di chiunque essa sia, è la peggiore sciagura che possa capitare. Come dice il papa: che vittoria c’è sulle macerie? E Noam Chomski, nell’intervista a Truthout che gli chiede se siamo all’inizio di una nuova era di continuo confronto tra la Russia e l’Occidente risponde che è difficile sapere dove cadranno le ceneri, “e questa potrebbe non essere una metafora”. Infatti, secondo Chomski, “che piaccia o no, le opzioni ora si riducono o a un brutto risultato che premia piuttosto che punire Putin per l’atto di aggressione, o alla forte possibilità di una guerra terminale”. E questa, secondo Chomski, sarebbe “una condanna a morte per la specie, senza vincitori: siamo a un punto di svolta nella storia dell’umanità. Non lo si può negare. Non lo si può ignorare”.
“Senza vincitori”: perché che cosa sarebbe una vittoria per gli Stati Uniti e la NATO e l’Europa, se davvero essa dovesse consistere nell’accendere la miccia della terza guerra mondiale, mettendo fuori gioco la Russia, provocando la Cina e prospettando all’umanità intera un mondo fatto del solo Occidente?
E che cosa sarebbe una vittoria per la Russia, che andasse al di là della rivendicazione iniziale di un’interdizione della minaccia proveniente dall’Ovest, se ciò volesse dire diventare l’anatema delle nazioni, essere votata alla negazione genocida del suo esserci stesso, che si tratti del rublo, del popolo o del Lago dei cigni?
E che cosa sarebbe una vittoria per l’Ucraina se anche recuperasse la Crimea, e il Donbass, quando pur sempre rimarrebbe lì, a fare da antemurale dell’Occidente contro la Russia che, Putin o non Putin, certamente non sparirebbe e sarebbe pur sempre una grande Potenza ansiosa di rivincita, mentre l’Ucraina sarebbe ancora lì, gloria sì del mondo libero, ma sua prima vittima sul monte Moria? E l’Oscar all’attore protagonista!
In questa situazione è del tutto irresponsabile fare il tifo per la vittoria dell’uno o dell’altro, comunque questa vittoria la si voglia chiamare, difesa della Patria o dominio del mondo; ed è un’insensata complicità voler essere nel campo dei vincitori. Vera sapienza è la ricerca di un’alternativa alla vittoria per mettere fine alla guerra. Tale alternativa sta nel dialogo, nel negoziato, nel riconoscere ciascuno le ragioni dell’altro, nello “scambiarsi con l’altro”, nel sapere che la sicurezza dell’altro è la sicurezza anche propria, perché la sicurezza non consiste in uno “status”, ma in un rapporto, o è di tutti o non è di nessuno, come già aveva realizzato la saggezza dell’ONU.
Tra le macerie di questa guerra c’è l’illusione, o la speranza, che si potesse costruire un nuovo ordine mondiale, fondato non sulla potenza ma sul diritto, non sulla ragion di Stato, ma sulle ragioni dei popoli, non sulle guerre vinte, ma sulla guerra ripudiata. In ogni caso si può sempre ricominciare di nuovo. Come ha scritto in una sua poesia il politico Pietro Ingrao, “leva in alto la sconfitta”. Il vero germe della vocazione spirituale dell’Occidente, sia nella versione greca che in quella cristiana come ci ha suggerito Simone Weil, non è la gloria dei vincitori, ma è il sentimento della miseria umana, che è una condizione della giustizia e dell’amore: in Grecia, sostiene la Weil, per il trauma non rimosso del crimine della distruzione di Troia (l’Iliade!), nella tradizione cristiana perché al patimento della miseria umana neppure uno spirito divino può sottrarsi se unito alla carne (i Vangeli!), ciò che vuol dire non soggiacere al dominio della forza, il rifiuto di tutti i rapporti di dominio. Come ha ricordato papa Francesco celebrando la “resistenza e resa” della Pasqua, “con Dio si può sempre tornare a vivere”.


giovedì 28 aprile 2022

Enzo Bianchi, l’annuncio dopo la cacciata da Bose: al via il centro di ospitalità Casa Madia ad Albiano, “luogo di preghiera e di incontro”

Enzo Bianchi, l’annuncio dopo la cacciata da Bose:
al via il centro di ospitalità Casa Madia ad Albiano,
“luogo di preghiera e di incontro”

A darne notizia è stato lo stesso fondatore di Bose attraverso una lettera alle amiche e agli amici: "Ho acquistato, con l’aiuto di amici e attraverso un mutuo decennale, un cascinale nel comune di Albiano, dove poter vivere nella pace gli ultimi anni della mia vita"


“Ho acquistato, con l’aiuto di amici e attraverso un mutuo decennale, un cascinale nel comune di Albiano, dove poter vivere nella pace gli ultimi anni della mia vita. Sarà certamente un luogo di preghiera, di incontro, di fraternità e sororità”. A 79 anni, appena compiuti (il 3 marzo corso), l’ex priore di Bose, Enzo Bianchi, è pronto a dar vita ad una nuova realtà: “Casa Madia”, un centro di spiritualità, di incontro, di ospitalità. Ad annunciarlo è stato lo stesso fondatore della comunità di Bose attraverso una lettera alle amiche e agli amici pubblicata in queste ore sul suo blog. Bianchi, che ora vive da solo in una casa alla periferia di Torino, spiega i motivi di questa nuova avventura: “Ho trascorso poco meno di due anni di esilio dalla comunità alla quale ho dato inizio e nella quale ho vissuto per cinquantacinque anni ma non posso tornare a Bose per finire i miei giorni da monaco nella vita fraterna”.

Da qui la decisione di non arrendersi ad un’esistenza in solitaria che non ha mai fatto parte del dna dell’anziano monaco. Bianchi, non ha alcuna intenzione di replicare l’esperienza di Bose. E’ lui stesso a chiarirlo: “Chi genera un figlio non può rigenerarlo né farlo nascere di nuovo: ogni figlio è in un certo senso unico ed io non intendo rifare la comunità che da me ha avuto inizio, né fondare una nuova comunità religiosa canonicamente riconosciuta. Voglio solo vivere da monaco cenobita e non eremita come ho sempre vissuto. Cammin facendo vedremo cosa ci riserverà il Signore e cosa ci suggerirà lo Spirito santo”.

Ad Albiano (Torino) Bianchi e altri fratelli e sorelle che hanno lasciato o stanno per abbandonare Bose daranno vita a “Casa della madia”, questo il nome (da sempre) del cascinale (Camadio ovvero casa dove si fa il pane). L’idea dell’ex priore e degli altri che a lui si affiancheranno non è quella di un nuovo monastero, di un luogo lontano dalla realtà dove raccogliersi solo in preghiera ma di una casa che possa accogliere “chi vorrà vivere con me, gli amici e gli ospiti che cercheranno un luogo di silenzio, di dialogo e di ospitalità”. A “Casa della madia” ci sarà sempre – chiarisce il monaco – “una tavola approntata per la condivisione e lo scambio delle parole, degli affetti e della speranza”. Il progetto è all’inizio e il cascinale necessita di una ristrutturazione. A dare una mano a Bianchi sono scesi in campo anche dei cari amici del fondatore di Bose che hanno dato vita al sito casadellamadia.org per raccogliere i fondi necessari a pagare il mutuo decennale acceso e per portare a termine i lavori edili. A presiedere il comitato promotore è l’ex sindaco di Torino Valentino Castellani che da sempre è stato vicino a Bianchi. Con lui il manager emiliano Corrado Colli e Mauro Salizzoni, medico, professore sanitario e già vice presidente della Regione Piemonte.

Chi conosce Enzo Bianchi sa che da mesi stava lavorando a questo progetto. A maggio del 2020 a colpire Bianchi, una sorella e altri due fratelli fu il decreto singolare del Vaticano, approvato in forma specifica dal Pontefice che chiedeva l’allontanamento a tempo indeterminato del fondatore. Da quel momento la comunità è stata “commissariata” da padre Amedeo Cencini, delegato pontificio e psicoterapeuta canossiano che – secondo quanto riferito da diverse fonti a ilfattoquotidiano.it – ha creato un clima di tensione che ha diviso Bose. In quest’ultimi cinque anni di priorato di Luciano Manicardi, con il quale è nato il conflitto tra quest’ultimo e il fondatore, sono usciti da Bose 37 fratelli e sorelle e molti ospiti non hanno più frequentato la comunità. L’8 giugno dell’anno scorso Bianchi aveva abbandonato per sempre Bose ritirandosi nel silenzio e senza clamori in una casa dove vive dedicandosi ad un rigoglioso orto, all’incontro con gli amici, alla scrittura e alla preghiera. Chi ha incontrato Bianchi negli ultimi tempi sa quanto sia sereno e quanto abbia ancora il desiderio di condividere con i più giovani e non solo le sue riflessioni e preoccupazioni per il conflitto in corso e per l’ecumenismo per il quale ha dedicato la vita. A Bose, intanto, nei mesi scorsi è stato nominato il nuovo priore, Sabino Chialà ma per gli esiliati non è cambiato nulla.
(fonte: Il Fatto Quotidiano, articolo di Alex Corlazzoli 27/04/2022)



Enzo Bianchi La solitudine del cristiano

Enzo Bianchi 
La solitudine del cristiano


La Repubblica  - 25 aprile 2022 

Questa orribile guerra tra Russia e Ucraina non dà segni di possibile tregua e non sembra guadagnare posizioni che aprano a trattative di pace. Piuttosto è una guerra che si estende non tanto sul territorio quanto con il coinvolgimento di un numero crescente di paesi che inviando armi alla resistenza ucraina diventano di fatto, al di là di ogni tentativo di giustificazione ipocrita, dei belligeranti: non la combattono direttamente ma contribuiscono comunque, in nome di una presunta difesa, a una carneficina di povera gente che non voleva questo conflitto. Essendo poi coloro che si uccidono cristiani, molte sono le domande che essi si pongono sulla liceità di questa guerra, nella quale ogni chiesa benedice il proprio esercito, e chiede la vittoria grazie al fatto che Dio è schierato dalla sua parte.

Qui da noi i cristiani, quasi tutti cattolici, da un lato citano il Catechismo della Chiesa Cattolica di Giovanni Paolo II, che prevede la possibilità della difesa armata della patria quando vi sia un’aggressione, e a partire da questa posizione teologico-morale si giustifica l’invio di armamenti al paese aggredito. Ma si dimenticano altre condizioni necessarie “contemporaneamente”, che cioè ogni altro mezzo sia impraticabile, che ci siano fondate condizioni di riuscita, che il ricorso alle armi non provochi mali più gravi.

Dall’altro lato i credenti impegnati nei diversi movimenti per la pace chiedono che si percorrano altre strade (non quella dell’aiuto tramite le armi) per sostenere e difendere chi ha subito l’invasione. Questi ultimi si ispirano all’insegnamento non violento di Gesù, che andando oltre il comandamento assoluto “non uccidere”, vieta al discepolo atteggiamenti di violenza e di guerra anche in reazione a chi compie il male. Le parole di Gesù sull’amore e la benedizione del nemico sono inequivocabili e il porgere l’altra guancia a chi percuote è un imperativo. Gesù al momento del suo arresto non volle nessuna difesa e intimò ai discepoli di non usare la spada perché solo con la non violenza si può interrompere la violenza. Atteggiamento questo non facile, a caro prezzo, che i cristiani raramente hanno praticato nel corso della storia.

Se nei primi secoli i cristiani hanno rifiutato la partecipazione alla guerra e all’essere arruolati negli eserciti dell’impero, pagando questo rifiuto fino al martirio, con la svolta costantiniana hanno accettato la necessità di militare nell’esercito dell’impero romano diventato cristiano. Da allora, attraverso lo sviluppo della dottrina (in Occidente è stato determinante S. Agostino) si è elaborata la dottrina della “guerra giusta”. Nonostante gli interventi profetici dei papi recenti, purtroppo nel Catechismo permane questa posizione, sicché ci sono cattolici che chiedono di intervenire in questa guerra con l’offerta di armi all’Ucraina, perché questa sarebbe una guerra di difesa, una resistenza all’occupante aggressore. Altri cattolici, sovente legati ai movimento per la pace, chiedono di percorrere altre vie non armate e condannano ogni ricorso alle armi. Ecco come si è acceso lo scontro e come si sono polarizzate le posizioni che si sconfessano e si delegittimano a vicenda. I cristiani che si vogliono fedeli al “Vangelo e basta”, memori del comando assoluto “non uccidere”, seguono l’insegnamento non violento di Gesù a caro prezzo e non per evasione. Gli altri che si ispirano al Catechismo dovrebbero non dimenticare che, comunque, ogni partecipazione a una guerra giusta non può essere fatta nell’arroganza, nella fierezza di compiere il bene, bensì sapendo che si contribuisce a seminare morte, compiere il male, violare il comandamento e operare nel peccato. Per questo, la Chiesa antica prevedeva, per chi aveva partecipato alla guerra, un tempo di pentimento, di esclusione dalla comunione, perché il Vangelo era stato contraddetto.

Anche Dietrich Bonhoeffer, che scelse di partecipare all’attentato contro Hitler per fermare il tiranno, lo fece senza arroganza, sapendo di compiere il male per impedire un male maggiore. Per Bonhoeffer, la sua coscienza era l’ultimo giudizio che lo muoveva a quell’azione. Lui era solo, non diceva che Dio era con lui come lo dicevano i suoi nemici, ma si assumeva la responsabilità di operare anche ciò che era contro il Vangelo per impedire un male ancora più grande.

Il cristiano, in queste scelte, è solo: Dio non lo soccorre e tanto meno lo esenta dall’essere uomo responsabile tra gli uomini.
(fonte: Blog dell'autore)

mercoledì 27 aprile 2022

«La giovinezza si rivela capace di ridare entusiasmo all’età matura ... la vecchiaia si scopre capace di riaprire il futuro per la giovinezza ferita.» Papa Francesco Udienza 27/04/2022 (foto, testo e video)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 27 aprile 2022


Come era già accaduto mercoledì scorso, durante la prima udienza tornata dall’Aula Paolo VI in piazza San Pietro, Papa Francesco è arrivato fino alla sua postazione al centro del sagrato a bordo della papamobile. Ha salutato i fedeli sempre seduto e alzandosi solo a tratti per accarezzare e baciare qualche bambino che gli veniva porto dal personale di sicurezza, e al termine dell'udienza ne ha spiegato il motivo (lo stesso che domenica non gli aveva permesso di presiedere la Santa Messa e ieri lo aveva costretto ad annullare tutti gli impegni pubblici) dicendo Vi chiedo scusa se vi saluterò stando seduto, perché questo ginocchio non guarisce ancora e non posso stare in piedi tanto tempo.

Nella catechesi, dedicata ancora alla vecchiaia, ha preso in considerazione il rapporto tra suocera e nuora, sulla scorta del libro di Rut che ha definito “un gioiello della Bibbia”.

Un ennesimo appello per la pace in Ucraina, è stato lanciato dal Pontefice durante i saluti ai fedeli di lingua portoghese: “Vi chiedo di perseverare nella preghiera incessante per la pace. Tacciano le armi, affinché quelli che hanno il potere di fermare la guerra, sentano il grido di pace dell’intera umanità!”










Catechesi sulla Vecchiaia: 7. Noemi, l’alleanza fra le generazioni che apre il futuro


Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!

Oggi continuiamo a riflettere sugli anziani, sui nonni, sulla vecchiaia, sembra brutta la parola ma no, i vecchi sono grandi, sono belli! E oggi ci lasceremo ispirare dallo splendido libro di Rut, un gioiello della Bibbia. La parabola di Rut illumina la bellezza dei legami famigliari: generati dal rapporto di coppia, ma che vanno al di là del legame di coppia. Legami d’amore capaci di essere altrettanto forti, nei quali si irradia la perfezione di quel poliedro degli affetti fondamentali che formano la grammatica famigliare dell’amore. Questa grammatica porta linfa vitale e sapienza generativa nell’insieme dei rapporti che edificano la comunità. Rispetto al Cantico dei Cantici, il libro di Rut è come l’altra tavola del dittico dell’amore nuziale. Altrettanto importante, altrettanto essenziale, esso celebra infatti la potenza e la poesia che devono abitare i legami di generazione, di parentela, di dedizione, di fedeltà che avvolgono l’intera costellazione famigliare. E che diventano persino capaci, nelle congiunture drammatiche della vita di coppia, di portare una forza d’amore inimmaginabile, in grado di rilanciarne la speranza e il futuro.

Sappiamo che i luoghi comuni sui legami di parentela creati dal matrimonio, soprattutto quello della suocera, quel legame fra suocera e nuora, parlano contro questa prospettiva. Ma, appunto per questo, la parola di Dio diventa preziosa. L’ispirazione della fede sa aprire un orizzonte di testimonianza in controtendenza rispetto ai pregiudizi più comuni, un orizzonte prezioso per l’intera comunità umana. Vi invito a riscoprire il libro di Rut! Specialmente nella meditazione sull’amore e nella catechesi sulla famiglia.

Questo piccolo libro contiene anche un prezioso insegnamento sull’alleanza delle generazioni: dove la giovinezza si rivela capace di ridare entusiasmo all’età matura - questo è essenziale: quando la giovinezza ridà entusiasmo agli anziani - , dove la vecchiaia si scopre capace di riaprire il futuro per la giovinezza ferita. In un primo momento, l’anziana Noemi, pur commossa per l’affetto delle nuore, rimaste vedove dei suoi due figli, si mostra pessimista sul loro destino all’interno di un popolo che non è il loro. Perciò incoraggia affettuosamente le giovani donne a ritornare nelle loro famiglie per rifarsi una vita - erano giovani queste donne vedove -. Dice: “Non posso fare niente per voi”. Già questo appare un atto d’amore: la donna anziana, senza marito e senza più figli, insiste perché le nuore la abbandonino. Però, è anche una sorta di rassegnazione: non c’è futuro possibile per le vedove straniere, prive della protezione del marito. Rut sa questo e resiste a questa generosa offerta, non vuole andarsene a casa sua. Il legame che si è stabilito fra suocera e nuora è stato benedetto da Dio: Noemi non può chiedere di essere abbandonata. In un primo momento, Noemi appare più rassegnata che felice di questa offerta: forse pensa che questo strano legame aggraverà il rischio per entrambe. In certi casi, la tendenza dei vecchi al pessimismo ha bisogno di essere contrastata dalla pressione affettuosa dei giovani.

Di fatto, Noemi, commossa dalla dedizione di Rut, uscirà dal suo pessimismo e addirittura prenderà l’iniziativa, aprendo per Rut un nuovo futuro. Istruisce e incoraggia Rut, vedova di suo figlio, a conquistarsi un nuovo marito in Israele. Booz, il candidato, mostra la sua nobiltà, difendendo Rut dagli uomini suoi dipendenti. Purtroppo, è un rischio che si verifica anche oggi.

Il nuovo matrimonio di Rut si celebra e i mondi sono di nuovo pacificati. Le donne di Israele dicono a Noemi che Rut, la straniera, vale “più di sette figli” e che quel matrimonio sarà una “benedizione del Signore”. Noemi, che era piena di amarezza e diceva anche che il suo nome è amarezza, nella sua vecchiaia conoscerà la gioia di avere una parte nella generazione di una nuova nascita. Guardate quanti “miracoli” accompagnano la conversione di questa anziana donna! Lei si converte all’impegno di rendersi disponibile, con amore, per il futuro di una generazione ferita dalla perdita e a rischio di abbandono. I fronti della ricomposizione sono gli stessi che, in base alle probabilità disegnate dai pregiudizi di senso comune, dovrebbero generare fratture insuperabili. Invece, la fede e l’amore consentono di superarli: la suocera supera la gelosia per il figlio proprio, amando il nuovo legame di Rut; le donne di Israele superano la diffidenza per lo straniero (e se lo fanno le donne, tutti lo faranno); la vulnerabilità della ragazza sola, di fronte al potere del maschio, è riconciliata con un legame pieno d’amore e di rispetto.

E tutto questo perché la giovane Rut si è ostinata ad essere fedele a un legame esposto al pregiudizio etnico e religioso. E riprendo quello che ho detto all’inizio, oggi la suocera è un personaggio mitico, la suocera non dico che la pensiamo come il diavolo ma sempre la si pensa come una brutta figura. Ma la suocera è la mamma di tuo marito, è la mamma di tua moglie. Pensiamo oggi a questo sentimento un po’ diffuso che la suocera tanto più lontano meglio è. No! È madre, è anziana. Una delle cose più belle delle nonne è vedere i nipotini, quando i figli hanno dei figli, rivivono. Guardate bene il rapporto che voi avete con le vostre suocere: alle volte sono un po’ speciali, ma ti hanno dato la maternità del coniuge, ti hanno dato tutto. Almeno bisogna farle felici, affinché portino avanti la loro vecchiaia con felicità. E se hanno qualche difetto bisogna aiutarle a correggersi. Anche a voi suocere vi dico: state attente con la lingua, perché la lingua è uno dei peccati più brutto delle scuocere, state attente.

E Rut in questo libro accetta la suocera e la fa rivivere e l’anziana Noemi assume l’iniziativa di riaprire il futuro per Rut, invece di limitarsi a goderne il sostegno. Se i giovani si aprono alla gratitudine per ciò che hanno ricevuto e i vecchi prendono l’iniziativa di rilanciare il loro futuro, niente potrà fermare la fioritura delle benedizioni di Dio fra i popoli! Mi raccomando, che i giovani parlino con i nonni, che i giovani parlino con i vecchi, che i vecchi parlino con i giovani. Questo ponte dobbiamo ristabilirlo forte, c’è lì una corrente di salvezza, di felicità. Che il Signore ci aiuti, facendo questo, a crescere in armonia nelle famiglie, quell’armonia costruttiva che va dai vecchi ai più giovani, quel ponte bello che noi dobbiamo custodire e guardare.

Guarda il video della catechesi


Saluti
...

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Suore della Compagnia di Maria Nostra Signora, le Monache Clarisse di Anagni, l’Azienda Sanitaria di Napoli 3 Sud, la Società di Calcio Isola d’Elba: vinceranno il campionato! Un pensiero speciale ricolgo ai fedeli di Vignale Monferrato, accompagnati dal Vescovo e rinnovo la mia gratitudine per quanto hanno fatto in favore del giovane del Ghana, malato terminale. Grazie!

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. In questo periodo pasquale, che ci invita a meditare sul mistero della Risurrezione di Cristo, possa la gloria del Signore essere sorgente per ognuno di nuove energie nel cammino verso la salvezza. Aiuti voi, giovani, nel seguire fedelmente il Vangelo; sostenga voi, anziani e ammalati, ad andare avanti con fiducia e speranza; e guidi voi, sposi novelli, a fondare solide famiglie nel segno della verità evangelica.

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Vorrei dirvi una cosa. Vi chiedo scusa se vi saluterò stando seduto, perché questo ginocchio non guarisce ancora e non posso stare in piedi tanto tempo. Scusatemi per questo. Grazie.


Guarda il video integrale



ADOLESCENTI, I NUOVI "INDIFFERENTI"

ADOLESCENTI, I NUOVI "INDIFFERENTI"

L'Istat rileva che è raddoppiata la percentuale di teenager insoddisfatti e con un basso punteggio di salute mentale. Le cause principali vengono dall'esperienza della pandemia


Se non ci fosse la guerra in Ucraina, se non fossimo sgomenti di fronte alla presa di Mariupol e alle tante altre atrocità dell’invasione russa, sarebbe questa la notizia del giorno. Una notizia drammatica. E’ raddoppiata la percentuale di adolescenti insoddisfatti e con un basso punteggio di salute mentale: erano nel 2019 il 3,2% del totale, sono diventati 6,2% nel 2021. «Si tratta di circa 220 mila ragazzi tra i 14 e i 19 anni che si dichiarano insoddisfatti della propria vita e si trovano, allo stesso tempo, in una condizione di scarso benessere psicologico. D’altra parte, gli stessi fenomeni di bullismo, violenza e vandalismo a opera di giovanissimi, che negli ultimi mesi hanno occupato le cronache, sono manifestazioni estreme di una sofferenza e di una irrequietezza diffuse e forse non transitorie», ha spiegato il presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, nella presentazione del rapporto sul Benessere equo e sostenibile. Le cause di questo malessere vanno rintracciate negli effetti della lunga pandemia che ci stiamo lasciando alle spalle.

Davvero credevamo che rimanere nella propria camera per anni, seguire le lezioni su un computer, non avere rapporti diretti con i professori, con i compagni di scuola, con gli amici, non fare sport, non ritrovarsi in centro, dover rinunciare alla propria vita sociale, non avesse conseguenze per un adolescente? In questo gruppo, ci informa sempre il professor Blangiardo, la sedentarietà è passata dal 18,6 al 20,9 per cento. È diminuita «in modo tangibile» anche la soddisfazione per le relazioni con gli amici. Sembra di essere tornati a una nuova versione degli “Indifferenti” di Moravia, che è degli anni ‘20. I nuovi “Michele Ardengo”, incapaci di provare sentimenti ed emozioni di fronte alla vita, sono tra noi. Lo studio dell’Istat ha messo in evidenza che «le politiche giovanili, nel nostro Paese che invecchia, hanno di rado ricevuto attenzione prioritaria e risorse adeguate». Insomma: «E’ tempo di cambiare strategia. Fuori da ogni retorica, si può dire che le politiche per il benessere dei giovani siano, oggi più che mai, politiche per il benessere del Paese tutto intero». Un Paese che notoriamente non è per giovani.

Naturalmente questo malessere adolescenziale si allarga al pianeta degli over 20, a cominciare dagli universitari. Il presidente dell’Istat ha posto l’accento sui laureati che lasciano l’Italia e cercano opportunità all’estero. Le direttrici principali dei flussi continuano ad essere verso l'estero e dal Mezzogiorno al Centro-nord. Il bilancio delle migrazioni dei cittadini italiani dai 25 ai 39 anni con un titolo di studio di livello universitario si chiude con un saldo dei trasferimenti di residenza da e per l'estero di meno 14.528 unità. In particolare il Mezzogiorno si dissangua dei suoi figli: soltanto nel corso del 2020 ha perso 21.782 giovani laureati emigrati in Italia e all’estero. Ai giovani più istruiti e qualificati l'Italia non offre chances. E così, nonostante le limitazioni imposte durante il primo anno di pandemia e l'incertezza che ha caratterizzato il 2020, le emigrazioni all'estero dei giovani laureati italiani si sono intensificate rispetto al 2019, in netta controtendenza rispetto alla popolazione nel complesso. C’è chi ha deciso di partire nonostante le limitazioni dovute al Covid. Insomma, mentre la maggior parte degli italiani si incapannava in casa, la meglio gioventù cercava di fuggire da questo Paese in cui – registra sempre l’Istat - aumentano i divari sociali: tra Nord e Sud, tra ricchi e poveri, tra vecchi e giovani.


martedì 26 aprile 2022

A Caltanissetta «fast food» a 1 euro - L'iniziativa contro la povertà nel rispetto della dignità di tutti.

A Caltanissetta «fast food» a 1 euro
L'iniziativa contro la povertà nel rispetto della dignità di tutti.

Primo fast food a un euro contro la povertà. E’ partito a Caltanissetta il progetto Open Food, iniziativa di innovazione sociale che si impegna a ridurre lo spreco alimentare e eliminare il divario sociale con i cittadini che versano in disagio economico. Un’iniziativa messa in pratica da Equo Food, con un “fast food inclusivo” aperto in via Michele Amari 13 a Caltanissetta in cui è possibile acquistare tutti i giorni (ad eccezione del lunedì) dalle 12 alle 14, esclusivamente con servizio d’asporto, ogni porzione di cibo al costo simbolico di 1 euro.
La responsabile è Cinzia Milazzo, poi ci sono Angelo Cartone detto «box», Isabella Riggi e Cristian Abbate, tutti schierati a servire chi arriva. Si entra a gruppi, uno alla volta, ma niente farebbe pensare che questo sia un posto speciale se non ci fossero i volontari della Croce Rossa che portano le pietanze dalla vicina cucina dell'Ipab Testasecca dove vengono preparate dai tre cuochi Dimitri Ruvolo, Alessandra Michela La Jacona e Yunusa Yaffa, che viene dal Gambia.


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In Sicilia il «fast food» a 1 euro per combattere la povertà 

«Open food» prende il via a Caltanissetta per aiutare le persone in difficoltà.



Nel cuore della Sicilia nasce il primo «Fast Food» a un 1 Euro contro la povertà. Il progetto «Open Food», a Caltanissetta, capoluogo di provincia posto nella Sicilia centrale, mira a ridurre lo spreco alimentare ad agire in maniera efficace per aiutare le persone in difficoltà e punta a far diminuire il divario sociale fra chi possiede le ricchezze e chi non possiede le risorse minime necessarie.

Come funziona «Open Food»

Sul piano concreto verrà attuata con “Equo Food”, un “fast food inclusivo” (aperto in via Michele Amari a Caltanissetta). Sarà possibile acquistare tutti i giorni, ad eccezione del lunedì, dalle 12 alle 14, esclusivamente con servizio d’asporto, ogni porzione di cibo al costo simbolico di 1 euro. Solidarietà e qualità gastronomica. Verranno serviti 150 pasti tra primi, secondi, contorni di alta qualità, garantita dai sostenitori del progetto. Dunque una rete di solidarietà ben strutturata che guarda al cibo come elemento essenziale per la vita, come diritto fondamentale.

Come si può contribuire al progetto?

E’ possibile anche donare un ulteriore contributo sia direttamente sul posto, sia attraverso la cartolina del dono distribuita nello stesso locale, dove, inquadrando il codice QR sarà possibile donare mediante bonifico bancario o attraverso PayPal. Open Food è nato grazie ad una sinergia tra mondo sociale, istituzioni, produttori. E’ stato promosso da Regione Sicilia, Croce Rossa Italiana - Comitato di Caltanissetta, Cooperativa Sociale Etnos, Un Posto Tranquillo Impresa Sociale Srl, Ipab - Istituto Testasecca, Coldiretti Caltanissetta, con il supporto del Comune di Caltanissetta. Il presidente del Comitato Cri di Caltanissetta, Nicolò Piave, spiega: “Grazie a un bando erogato dalla Regione Sicilia abbiamo avuto la possibilità di pensare a un luogo dove le persone possano andare a mangiare senza sentir sulle spalle il peso del proprio disagio economico”. Il sindaco Roberto Gambino ha insistito molto nella presentazione del progetto sul connubio fra solidarietà e dignità: “Caltanissetta sposa l’idea di dare dignità alla povertà. Assistiamo a episodi dove le persone che usufruiscono del cosiddetto pacco, si ritrovano poi a dover buttare qualcosa di cui non hanno bisogno. Con Open Food, invece, hanno la possibilità di scegliere”.

La città di Caltanissetta

Caltanissetta: tradizione sociale, culturale e sindacale Caltanissetta si è già distinta per iniziative sociali innovative, storie di umanità e solidarietà. Ed è una realtà dall’importante tradizione culturale e sindacale. Nel Novecento, fra gli anni ‘30 ed i ‘50, fu considerata una “Piccola Atene” della cultura isolana. Nell’Istituto Magistrale “IX Maggio” venne a studiare dall’Agrigentino un giovanissimo Leonardo Sciascia ed ebbe come insegnante Vitaliano Brancati (due protagonisti della storia letteraria italiana). Nella città nissena gravitarono diversi intellettuali e sindacalisti. A Caltanissetta studiò e si formò Emanuele Macaluso. Cultura e solidarietà Solidarietà e cultura sociale. Il progetto “Open Food” con il primo fast food a 1 euro ha una doppia dimensione, quella di aiuto diretto a chi è in difficoltà, e quella di una visione sociale volta alla partecipazione attiva di più persone nell’aiuto al prossimo. Un metodo per provare ad ovviare alle diseguaglianze crescenti.

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Fast food solidale a un euro:
nasce a Caltanissetta l'iniziativa contro la povertà

Le telecamere di Fanpage.it hanno raggiunto Caltanissetta all'interno del locale Open Food, promotore dell'iniziativa solidale "Open Food". Un pasto a un euro. Un progetto contro la povertà che elimina il divario sociale con i cittadini che versano in disagio economico. Un esempio di grande solidarietà.