lunedì 13 settembre 2021

Viaggio di Papa Francesco a Budapest e in Slovacchia (12-15 settembre 2021) Incontro con i Vescovi - Incontro con i rappresentanti del Consiglio ecumenico delle Chiese e con alcune comunità ebraiche (testi, foto e video)

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
A BUDAPEST, IN OCCASIONE DELLA SANTA MESSA CONCLUSIVA
DEL 52.mo CONGRESSO EUCARISTICO INTERNAZIONALE, E IN SLOVACCHIA
12-15 SETTEMBRE 2021


Domenica, 12 settembre 2021

BUDAPEST

9:15 Incontro con i Vescovi presso il Museo delle Belle Arti a Budapest
10:00 Incontro con i rappresentanti del Consiglio Ecumenico delle Chiese e alcune Comunità ebraiche dell’Ungheria presso il Museo delle Belle Arti a Budapest


INCONTRO CON I VESCOVI 

Museo delle Belle Arti (Budapest)

Quello rivolto ai vescovi ungheresi è il primo discorso di Papa Francesco a Budapest.
L'incontro con loro, nella Sala Rinascimentale del Museo delle Belle Arti, segue quello privato con il presidente della Repubblica e con il primo ministro nella Sala Romanica dello stesso Museo.

Papa Francesco è in Ungheria per la conclusione del 52mo Congresso Eucaristico Internazionale e Francesco parte proprio dall'offerta di Cristo del suo Corpo e del suo Sangue per parlare ai vescovi locali ricordando quanto la Chiesa ungherese, per la sua storia fatta di martirio e di sangue, sia associata al sacrificio di Cristo.




DISCORSO DEL SANTO PADRE 


Cari fratelli nell’Episcopato, buongiorno!

Sono molto contento di trovarmi qui in mezzo a voi in occasione della conclusione del 52° Congresso Eucaristico Internazionale. Sono grato a Mons. András Veres per il benvenuto che mi ha rivolto e anche per il regalo che mi ha fatto a nome di tutti voi: molto bello, molto bello! Grazie. E saluto tutti voi, ringraziandovi per l’accoglienza e per la promozione di questo evento, che ci ricorda la centralità dell’Eucaristia nella vita della Chiesa.

Desidero condividere alcuni pensieri proprio partendo dal gesto eucaristico: nel Pane e nel Vino vediamo Cristo che offre il suo Corpo e il suo Sangue per noi. La Chiesa di Ungheria, con la sua lunga storia, segnata da una incrollabile fede, da persecuzioni e dal sangue dei martiri, è associata in modo particolare al sacrificio di Cristo. Tanti fratelli e sorelle, tanti vescovi e presbiteri hanno vissuto ciò che celebravano sull’altare: sono stati macinati come chicchi di grano, perché tutti potessero essere sfamati dall’amore di Dio; sono stati torchiati come l’uva, perché il sangue di Cristo diventasse linfa di vita nuova; sono stati spezzati, ma la loro offerta d’amore è stata un seme evangelico di rinascita piantato nella storia di questo popolo.

Guardando a quella storia, storia passata, fatta di martirio e di sangue, possiamo incamminarci verso il futuro con lo stesso desiderio dei martiri: vivere la carità e testimoniare il Vangelo. Ma sempre bisogna tenere insieme, nella vita della Chiesa, queste due realtà: custodire il passato e guardare al futuro. Custodire le nostre radici religiose, custodire la storia da cui proveniamo, senza però restare con lo sguardo rivolto indietro: guardare al futuro, guardare avanti e trovare nuove vie per annunciare il Vangelo.

Conservo vivo nel cuore il ricordo delle Suore ungheresi della Società di Gesù (Englische Fräulein), le quali, a causa della persecuzione religiosa, dovettero lasciare la loro patria. Con il coraggio della loro personalità e la fedeltà alla vocazione fondarono il Collegio “Maria Ward” nella città di Plátanos, vicino alla capitale Buenos Aires. Dalla loro fortezza, dal loro coraggio, dalla loro pazienza e dal loro amore alla patria ho imparato molto; per me sono state una testimonianza. Ricordandole oggi qui, rendo anche omaggio a tanti uomini e donne che dovettero andare in esilio e anche a quanti hanno dato la vita per la patria e per la fede.

Come Pastori siete chiamati anzitutto a ricordare questo al vostro popolo: la tradizione cristiana – come affermava Benedetto XVI – «non è una collezione di cose, di parole, come una scatola di cose morte; la Tradizione è il fiume della vita nuova che viene dalle origini, da Cristo fino a noi, e ci coinvolge nella storia di Dio con l’umanità» (Udienza generale, 3 maggio 2006). Avete scelto come tema del Congresso un versetto del Salmo 88: «Sono in te tutte le mie sorgenti». Ecco, la Chiesa proviene dalla sorgente che è Cristo ed è inviata perché il Vangelo, come un fiume d’acqua viva, infinitamente più largo e accogliente del vostro grande Danubio, raggiunga l’aridità del mondo e del cuore dell’uomo, purificandolo e dissetandolo. Il ministero episcopale, allora, non serve a ripetere una notizia del passato, ma è voce profetica della perenne attualità del Vangelo, nella vita del Popolo santo di Dio e nella storia di oggi.

Vorrei suggerirvi alcune indicazioni per portare avanti questa missione.

La prima: essere annunciatori del Vangelo. Non dimentichiamo che al centro della vita della Chiesa c’è l’incontro con Cristo. A volte, specialmente quando la società che ci circonda non sembra entusiasta della nostra proposta cristiana, la tentazione è quella di chiuderci nella difesa delle istituzioni e delle strutture. Il vostro Paese, oggi, è attraversato da grandi cambiamenti che investono in generale l’Europa intera. Dopo il lungo tempo in cui è stato impedito di professare la fede, con l’avvento della libertà ci sono sfide nuove da affrontare, in un contesto in cui cresce il secolarismo e si affievolisce la sete di Dio. Ma ricordiamoci: la sorgente d’acqua viva, che sempre scorre e disseta, è Cristo. Le strutture, le istituzioni, la presenza della Chiesa nella società servono solo a risvegliare nelle persone la sete di Dio e a portare loro l’acqua viva del Vangelo. Perciò, a voi Vescovi è richiesto anzitutto questo: non la burocratica amministrazione delle strutture, questo lo facciano altri; non la ricerca di privilegi e vantaggi. Per favore, siate servi. Servitori, non principi. Che cosa vi chiedo? La passione ardente per il Vangelo, così com’è: il Vangelo. Fedeltà e passione al Vangelo. Essere testimoni e annunciatori della Buona Notizia, diffusori di gioia, vicini ai sacerdoti – vicini ai sacerdoti – e ai religiosi con cuore paterno, esercitando l’arte dell’ascolto.

Mi permetto di uscire dal testo e di ricordarvi le quattro vicinanze del vescovo. La vicinanza a Dio è la prima. Io, come fratello, ti domando: tu preghi? O vai solo a dire il breviario? Il tuo cuore prega? Tu, prendi tempo per pregare? “Ma, è che sono tanto indaffarato…”. Ma nell’indaffaratismo di ogni giorno, metti anche quello: pregare. Secondo: vicinanza tra voi. La fratellanza episcopale, la conferenza episcopale, è una grazia. Nessuno di voi la pensa uguale all’altro: questa è ricchezza. Cercate però di mettere nell’unità dell’episcopato anche le differenze e non cercate la strada delle cordate. Tutti fratelli. Tu la pensi diversamente da me, ma sei fratello. Discutiamo? Discutiamo. Gridiamo? Gridiamo. Ma come fratelli, questo non si tocca: l’unità della Conferenza episcopale. È una grazia: dobbiamo chiederla. È custodire il popolo di Dio nell’unità dei vescovi. La terza vicinanza è quella che ho citato: vicinanza ai sacerdoti. Il “prossimo più prossimo” del vescovo è il prete. Io vi dico una cosa che mi addolora tanto. Ho trovato, in alcune diocesi, sia nella mia patria, quando stavo lì, nella diocesi precedente, sia adesso che sono a Roma, preti che si lamentano, difficili: ma si lamentano perché hanno voglia, hanno necessità di parlare con il vescovo. Così dicono. E tante volte ho sentito questo: “Ho chiamato e la segretaria ha detto che è troppo indaffarato, che ha guardato e mi ha detto: ‘entro tre settimane può darsi, vi darà un appuntamento di un quarto d’ora’”. E il prete dice: “no, grazie, così non voglio”, oppure: “sì”. Ma non va. Il prete sente lontano il vescovo, non lo sente padre. Vi do un consiglio, da fratello: quando voi tornerete in vescovado dopo una missione, dopo una visita a una parrocchia, stanchi, e vedrete la chiamata di un prete, chiamatelo: lo stesso giorno o al massimo il giorno seguente: non oltre. La vicinanza. E quel prete, se viene chiamato subito, saprà che ha un padre. Questo è molto importante. Vicinanza ai preti, e ciò significa anche ai religiosi. “Eh, ma sa, questo prete è difficile…”. Ma, dimmi, quale padre non ha un figlio difficile? Tutti. I figli si amano come sono, non come io vorrei che fossero. E poi, la quarta vicinanza: vicinanza al santo popolo fedele di Dio. Per favore, non dimenticatevi del vostro popolo, da dove il Signore vi ha preso. “Io ti ho preso da dietro il gregge”: non dimenticarti del gregge dal quale sei stato tolto. Paolo, che cosa raccomandava a Timoteo? “Ricorda tua mamma e tua nonna, il tuo popolo”. L’autore della Lettera agli Ebrei diceva: “Ricordati di coloro che ti hanno iniziato alla fede”. Quanti umili catechisti, quante nonne ci sono dietro. Il cuore stia vicino al popolo. È brutto quando il cuore di un vescovo si allontana dal popolo. Le quattro vicinanze. Fate un esame di coscienza su come vanno: credo bene, ma mi piace ribadirle. Vicinanza a Dio, vicinanza tra voi – “vedo alcuni con una peculiarità speciale storica, liturgica, e altri così differenti: vicinanza alla loro liturgia, alla loro storia, senza voglia di prenderli, latinizzarli: no, per favore, no. Vicinanza tra voi, vicinanza con i sacerdoti e vicinanza al santo popolo fedele di Dio. Per essere vescovo oggi – sempre, ma sottolineo, oggi – bisogna esercitare l’arte dell’ascolto. E non è facile. Non abbiate paura di dare spazio alla Parola di Dio e di coinvolgere i laici: saranno i canali attraverso i quali il fiume della fede irrigherà nuovamente l’Ungheria.

Una seconda indicazione: essere testimoni di fraternità. Il vostro Paese è luogo in cui convivono da tempo persone provenienti da altri popoli. Varie etnie, minoranze, confessioni religiose e migranti hanno trasformato anche questo Paese in un ambiente multiculturale. Questa realtà è nuova e, almeno in un primo momento, spaventa. La diversità fa sempre un po’ paura perché mette a rischio le sicurezze acquisite e provoca la stabilità raggiunta. Tuttavia, è una grande opportunità per aprire il cuore al messaggio evangelico: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12). Davanti alle diversità culturali, etniche, politiche e religiose, possiamo avere due atteggiamenti: chiuderci in una rigida difesa della nostra cosiddetta identità oppure aprirci all’incontro con l’altro e coltivare insieme il sogno di una società fraterna. Mi piace qui ricordare che proprio in questa Capitale europea, nel 2017, vi siete incontrati con i rappresentanti di altre Conferenze Episcopali dell’Europa centro-orientale e avete ribadito che l’appartenenza alla propria identità non deve mai diventare motivo di ostilità e di disprezzo degli altri, bensì un aiuto per dialogare con culture diverse. Dialogare, senza negoziare la propria appartenenza.

Sopra il grande fiume che attraversa questa città si staglia l’imponente Ponte delle Catene: sostituì un fragile ponte di legno e servì a unire Buda e Pest. Se vogliamo che il fiume del Vangelo raggiunga la vita delle persone, facendo germogliare anche qui in Ungheria una società più fraterna e solidale, abbiamo bisogno che la Chiesa costruisca nuovi ponti di dialogo. Come Vescovi, vi chiedo di mostrare sempre, insieme ai sacerdoti e ai collaboratori pastorali, il volto vero della Chiesa: è madre. È madre! Un volto accogliente verso tutti, anche verso chi proviene da fuori, un volto fraterno, aperto al dialogo. Siate Pastori che hanno a cuore la fraternità. Non padroni del gregge, ma padri e fratelli. Lo stile della fraternità, che vi chiedo di coltivare con i sacerdoti e con tutto il Popolo di Dio, diventi un segno luminoso per l’Ungheria. Così, prenderà forma una Chiesa in cui specialmente i laici, in ogni ambito della loro vita quotidiana, familiare, sociale e professionale, diventeranno lievito di fraternità evangelica. La Chiesa ungherese sia costruttrice di ponti e promotrice di dialogo!

Infine, la terza cosa, essere costruttori di speranza. Se mettiamo il Vangelo al centro e lo testimoniamo nell’amore fraterno, possiamo guardare al futuro con speranza, anche se oggi attraversiamo piccole o grandi tempeste. Questo è ciò che la Chiesa è chiamata a diffondere nella vita delle persone: la certezza rasserenante che Dio è misericordia, che ci ama in ogni istante della vita ed è sempre pronto a perdonarci e a rialzarci. Non dimenticatevi lo stile di Dio, che è uno stile di prossimità, compassione e tenerezza. Questo è lo stile di Dio. Andiamo su questa strada, con lo stesso stile. La tentazione di abbatterci e scoraggiarci non viene mai da Dio. Mai. Viene dal nemico, ma si alimenta in tante situazioni: dietro la facciata del benessere, dietro un vestito di tradizioni religiose si possono nascondere tanti lati oscuri. La Chiesa in Ungheria ha avuto recentemente modo di riflettere su come il passaggio dall’epoca della dittatura a quello di una ritrovata libertà sia una transizione segnata da contraddizioni: il degrado della vita morale, l’aumento della malavita, il commercio della droga, fino alla piaga del traffico di organi e a tanti fatti di bambini, assassinati per questo. Ci sono problemi sociali: le difficoltà delle famiglie, la povertà, le ferite che colpiscono il mondo giovanile, in un contesto nel quale la democrazia ha ancora bisogno di consolidarsi. La Chiesa non può che essere protagonista di vicinanza, dispensatrice di attenzione e consolazione per le persone, affinché non si lascino mai rubare la luce della speranza. L’annuncio del Vangelo rinvigorisce la speranza perché ci ricorda che in tutto ciò che viviamo Dio è presente, ci accompagna, ci dà coraggio, ci dà creatività per iniziare sempre una storia nuova. È commovente ricordare quanto affermava il Venerabile Cardinale József Mindszenty, figlio e padre di questa Chiesa e di questa terra, il quale, alla fine di una vita colma di sofferenze a causa della persecuzione, ha lasciato queste parole di speranza: «Dio è giovane. Il futuro è suo. È Lui che evoca ciò che è nuovo, giovane e il domani negli individui e nei popoli. Perciò non possiamo abbandonarci alla disperazione» (Messaggio al Presidente del Comitato organizzatore e agli ungheresi in esilio, in J. Közi Horváth, Mindszenty bíboros, 111). Dio è giovane.

Davanti alle crisi, sociali o ecclesiali, possiate sempre essere costruttori di speranza. Come Vescovi del Paese, avere sempre parole di incoraggiamento. Non si trovino sulle vostre labbra espressioni che segnano distanze e impongono giudizi, ma che aiutino il Popolo di Dio a guardare con fiducia al futuro, aiutino le persone a diventare protagoniste libere e responsabili della vita, che è un dono di grazia da accogliere, non un rompicapo da risolvere. Il cubo del vostro bravo e celebre architetto Rubik rimane un gioco geniale, non un modello per la vita! E ricordatevi: pastori del gregge. Il pastore deve essere dentro al gregge: all’inizio del gregge per indicare il cammino, in mezzo al gregge per capirne l’odore, dietro al gregge per aiutare coloro che rimangono indietro e anche per lasciare che il gregge vada un po’ avanti, perché ha un fiuto speciale per indicare dove ci sono i terreni buoni, nutrienti.

Cari fratelli, anche l’Ungheria ha bisogno di un rinnovato annuncio del Vangelo, di una nuova fraternità sociale e religiosa, di una speranza da costruire giorno per giorno per guardare al futuro con gioia. Voi siete i Pastori protagonisti di questo processo storico, di questa bella avventura. Fratelli, Dio vi confermi nella gioia della missione – la gioia della missione! Io vi ringrazio per tutto quello che fate e vi benedico di cuore. La Madonna vi protegga e San Giuseppe vi custodisca. E, se avete un po’ di tempo, pregate per il Papa. Grazie.

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INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DEL CONSIGLIO ECUMENICO DELLE CHIESE
E ALCUNE COMUNITÀ EBRAICHE DELL’UNGHERIA

Museo delle Belle Arti (Budapest)

È uno dei simboli dell’incantevole città di Budapest, il monumentale Ponte delle Catene, l’emblematica immagine scelta da Papa Francesco, durante il secondo discorso del viaggio apostolico, rivolto ai rappresentanti del Consiglio ecumenico delle Chiese e ad alcune comunità ebraiche dell’Ungheria, per descrivere il “percorso di comunione” dell’ecumenismo.
Le parole del Papa, al quale è stata donata una Torah, sono state precedute dai saluti di un rappresentante della comunità cristiana, József Steinbach, vescovo calvinista, presidente del Consiglio Ecumenico delle Chiese d’Ungheria, e di quella ebraica, il rabbino di Buda Sud, Zoltàn Radnóti.





DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO


Cari fratelli!

Sono felice di incontrarvi. Le vostre parole, di cui vi ringrazio, e la vostra presenza l’uno accanto all’altro esprimono un grande desiderio di unità. Raccontano un cammino, a volte in salita, in passato faticoso, ma che affrontate con coraggio e buona volontà, sorreggendovi a vicenda sotto lo sguardo dell’Altissimo, il quale benedice i fratelli che vivono insieme (cfr Sal 133,1).

Vedo voi, fratelli nella fede in Cristo, e benedico il percorso di comunione che portate avanti. Mi hanno toccato le parole del fratello calvinista [vescovo József Steinbach, Presidente del Consiglio Ecumenico delle Chiese d’Ungheria], grazie. Con la mente mi dirigo all’abbazia di Pannonhalma, centro spirituale pulsante di questo Paese, dove tre mesi fa vi siete trovati per riflettere e per pregare insieme. Pregare insieme, gli uni per gli altri, e darci da fare insieme nella carità, gli uni con gli altri, per questo mondo che Dio tanto ama (cfr Gv 3,16): ecco la via più concreta verso la piena unità.

Vedo voi, fratelli nella fede di Abramo nostro padre, e grazie a Lei [rabbino Zoltán Radnóti], per quelle parole così profonde che mi hanno toccato il cuore. Apprezzo tanto l’impegno che avete testimoniato ad abbattere i muri di separazione del passato; ebrei e cristiani, desiderate vedere nell’altro non più un estraneo, ma un amico; non più un avversario, ma un fratello. Questo è il cambio di sguardo benedetto da Dio, la conversione che apre nuovi inizi, la purificazione che rinnova la vita. Le solenni feste di Rosh Hashanah e dello Yom Kippur, che cadono proprio in questo periodo e per le quali vi faccio i migliori auguri, sono occasioni di grazia per rinnovare l’adesione a questi inviti spirituali. Il Dio dei padri apre sempre strade nuove: come ha trasformato il deserto in una via verso la Terra Promessa, così desidera portarci dai deserti aridi dell’astio e dell’indifferenza alla sospirata patria della comunione.

Non è un caso che quanti nella Scrittura sono chiamati a seguire in modo speciale il Signore debbano sempre uscire, camminare, raggiungere terre inesplorate e spazi inediti. Pensiamo ad Abramo, che lasciò casa, parentela e patria. Chi segue Dio è chiamato a lasciare. A noi è chiesto di lasciare le incomprensioni del passato, le pretese di avere ragione e di dare torto agli altri, per metterci in cammino verso la sua promessa di pace, perché Dio ha sempre progetti di pace, mai di sventura (cfr Ger 29,11).

Vorrei riprendere con voi l’evocativa immagine del Ponte delle Catene, che collega le due parti di questa città: non le fonde insieme, ma le tiene unite. Così devono essere i legami tra di noi. Ogni volta che c’è stata la tentazione di assorbire l’altro non si è costruito, ma si è distrutto; così pure quando si è voluto ghettizzarlo, anziché integrarlo. Quante volte nella storia è accaduto! Dobbiamo vigilare, dobbiamo pregare perché non accada più. E impegnarci a promuovere insieme una educazione alla fraternità, così che i rigurgiti dell’odio che vogliono distruggerla non prevalgano. Penso alla minaccia dell’antisemitismo, che ancora serpeggia in Europa e altrove. È una miccia che va spenta. Ma il miglior modo per disinnescarla è lavorare in positivo insieme, è promuovere la fraternità. Il Ponte ci istruisce ancora: esso è sorretto da grandi catene, formate da tanti anelli. Siamo noi questi anelli e ogni anello è fondamentale: perciò non possiamo più vivere nel sospetto e nell’ignoranza, distanti e discordi.

Un ponte mette insieme due parti. In questo senso richiama il concetto, fondamentale nella Scrittura, di alleanza. Il Dio dell’alleanza ci chiede di non cedere alle logiche dell’isolamento e degli interessi di parte. Non desidera alleanze con qualcuno a discapito di altri, ma persone e comunità che siano ponti di comunione con tutti. In questo Paese voi, che rappresentate le religioni maggioritarie, avete il compito di favorire le condizioni perché la libertà religiosa sia rispettata e promossa per tutti. E avete un ruolo esemplare verso tutti: nessuno possa dire che dalle labbra degli uomini di Dio escono parole divisive, ma solo messaggi di apertura e di pace. In un mondo lacerato da troppi conflitti è questa la testimonianza migliore che deve offrire chi ha ricevuto la grazia di conoscere il Dio dell’alleanza e della pace.

Il Ponte delle Catene, oltre a essere il più noto, è anche il più antico di questa città. Molte generazioni l’hanno attraversato. Esso invita così a fare memoria del passato. Vi troveremo sofferenze e oscurità, incomprensioni e persecuzioni ma, andando alle radici, scopriremo un patrimonio spirituale comune più grande. È questo il tesoro che ci permette di costruire insieme un avvenire diverso. Penso anche con commozione a tante figure di amici di Dio che hanno irradiato la sua luce nelle notti del mondo. Cito, tra i tanti, un grande poeta di questo Paese, Miklós Radnóti, la cui brillante carriera fu spezzata dall’odio accecato di chi, solo perché era di origini ebraiche, prima gli impedì di insegnare e poi lo sottrasse alla famiglia.

Rinchiuso in un campo di concentramento, nell’abisso più oscuro e depravato dell’umanità, continuò a scrivere poesie, fino alla morte. Il suo Taccuino di Bor è l’unica raccolta poetica sopravvissuta alla Shoah: testimonia la forza di credere al calore dell’amore nel gelo del lager e di illuminare il buio dell’odio con la luce della fede. L’autore, soffocato dalle catene che gli stringevano l’anima, trovò in una libertà superiore il coraggio di scrivere: «Prigioniero, ho preso la misura a ogni speranza» (Taccuino di Bor, Lettera alla moglie). E pose una domanda, che risuona anche per noi oggi: «E tu, come vivi? Trova eco la tua voce in questo tempo?» (Taccuino di Bor, Prima Ecloga). Le nostre voci, cari fratelli, non possono che farsi eco di quella Parola che il Cielo ci ha donato, eco di speranza e di pace. E se anche non veniamo ascoltati o siamo incompresi, non smentiamo mai con i fatti la Rivelazione di cui siamo testimoni.

Alla fine, nella solitudine desolata del campo di concentramento, mentre si rendeva conto che la vita stava appassendo, Radnóti scrisse: «Sono anch’io una radice adesso… Ero fiore, sono diventato radice» (Taccuino di Bor, Radice). Anche noi siamo chiamati a diventare radici. Spesso cerchiamo i frutti, i risultati, l’affermazione. Ma Colui che fa fruttare la sua Parola in terra con la stessa dolcezza della pioggia che fa germogliare il campo (cfr Is 55,10), ci ricorda che i nostri cammini di fede sono semi: semi che si trasformano in radici sotterranee, radici che alimentano la memoria e fanno germogliare l’avvenire. È questo che il Dio dei nostri padri ci chiede, perché – come scriveva un altro poeta – «Dio aspetta da un’altra parte, aspetta proprio al fondo di tutto. Giù. Dove ci sono le radici» (R.M. Rilke, Wladimir, il pittore di nuvole). Si giunge in alto solo se radicati in profondità. Radicati nell’ascolto dell’Altissimo e degli altri aiuteremo i nostri contemporanei ad accogliersi e amarsi. Soltanto se saremo radici di pace e germogli di unità saremo credibili agli occhi del mondo, che guarda a noi, con la nostalgia che sbocci la speranza. Grazie, e buon cammino insieme, grazie! Scusate se ho parlato seduto, ma non ho 15 anni. Grazie.

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