venerdì 30 aprile 2021

Card. Giovanni Battista Re: Il potere della preghiera

Al via la “maratona” orante con i santuari mariani del mondo voluta dal Papa

Il potere della preghiera
 
di Giovanni Battista Re
Decano del collegio cardinalizio


Questo momento tribolato e difficile per il dramma della perdurante pandemia e molto preoccupante per le sfide economiche e sociali, che la ripresa dopo il Covid-19 comporterà, ci fa sentire il bisogno di un aiuto dall’alto. L’esperienza della nostra fragilità e dei nostri limiti di fronte a questa tragica situazione ci spinge a ritrovare la fiducia in Dio ed a bussare alla sua porta con la preghiera affinché la sua mano ci venga in aiuto.

È pertanto con viva gioia che viene salutata nel mondo l’annunciata iniziativa di una singolare “maratona” o “staffetta” di preghiere trasmessa in video dai principali santuari del mondo durante il prossimo mese di maggio. Attesi i profondi bisogni e le rilevanti criticità del nostro tempo, da diverse istanze si auspicava una speciale iniziativa di preghiere. Si avverte infatti la necessità di un supplemento di aiuto superiore che venga in soccorso di una duplice esigenza: porre fine alla pandemia che continua a mietere vittime e poi superare le enormi sfide che la ripresa dopo il Covid-19 dovrà affrontare.

Perché ricorrere ad una più intensa e corale preghiera nei momenti di difficoltà?

Soprattutto perché ce l’ha insegnato Gesù stesso nel Vangelo: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e otterrete, bussate e vi sarà aperto» (Mt 7, 7). Inoltre perché avvertiamo la necessità che Dio ci dia una mano. L’uomo e la donna, grazie anche ai mirabili progressi della scienza e della tecnica, possono decidere e fare molte cose, ma poi vi è sempre qualche elemento o qualche dimensione che travalica le nostre possibilità ed i nostri piani, con ostacoli e imprevisti che è arduo calcolare, come imprevedibile era la tempesta scatenata nel mondo da un piccolo virus che ha cambiato la nostra vita.

Che mediante la preghiera noi possiamo ottenere e realizzare quello che con le sole nostre forze ci è impossibile, lo spiega bene san Tommaso, il quale, in una sua lunga “quaestio” sulla preghiera (Somma teologica II a- II ae, q.83) dice che, nella sua Provvidenza, Dio ha disposto che sia in nostro potere realizzare alcune cose, ma che altre possano essere da noi operate soltanto se lo chiediamo a chi può più di noi, cioè a Dio per il quale nulla è impossibile. In altri termini, mediante la preghiera noi possiamo cooperare affinché Dio operi qualche cosa che sta al di là delle nostre capacità.

La ragione profonda va ricercata nel disegno di Dio, che ci ha creati intelligenti e liberi e che, in coerenza con la grande dignità conferitaci, ci vuole suoi collaboratori e non ama agire senza di noi. Mediante la preghiera noi possiamo ottenere che lui compia quel che noi, uomini e donne, con le sole nostre forze non potremmo mai conseguire.

Blaise Pascal si chiedeva: «Perché Dio ha istituito la preghiera?» E rispondeva: «Per comunicare alle sue creature la possibilità di cooperare alle sue opere» (Pensieri, 513).

Chiedere l’aiuto di Dio ovviamente non dispensa dall’agire. Preghiera e impegno umano non si escludono, ma si implicano vicendevolmente.

Per questo san Francesco di Sales soleva raccomandare: «Prega come se tutto dipendesse da Dio, e impegnati come se tutto dipendesse da te», perché tutto dipende da Dio e insieme tutto dipende dall’uomo, ma a diverso e misterioso titolo.

I protagonisti e gli artefici di quanto avviene nella storia sono sempre due: l’uomo e Dio, l’uomo che nella sua libertà decide e opera, e Dio, che è onnipotente e la sorgente di tutto e per il quale non esiste passato e futuro, ma tutto Gli è presente.

Per noi che abbiamo fede non è il caso o l’influsso delle stelle a determinare il nostro destino o il corso degli avvenimenti, ma è — da un lato — l’uomo con le sue libere scelte e — dall’altro lato — Dio che veglia sulla grande storia del mondo e sulla piccola storia di ciascuno di noi; un Dio che sa scrivere dritto anche sulle righe storte e che con la sua mano può fare quello che va ben al di là delle possibilità umane.

La fede ci dà la certezza non solo di una mano che sta al di sopra di noi, ma anche di un cuore che agisce e guida nel profondo gli eventi e le coincidenze.

Così quando Monica, la madre di sant’Agostino, supplica Dio nel pianto perché suo figlio ritrovi la fede, non elude il suo impegno di madre, perché come madre aveva fatto tutto quello che riteneva di poter fare, ma senza aver ottenuto quanto desiderava.

Ma con la sua preghiera ottenne che Dio agisse nel profondo della coscienza di Agostino, perché è lì, nell’intimità del cuore, dove liberamente l’uomo gioca il suo destino, che si svolge il mistero dell’azione di Dio: la forza della preghiera di Monica toccò il cuore di Agostino che si convertì.

È l’insegnamento di Gesù che sostiene la nostra fiducia di ottenere dall’alto ciò che supera le nostre forze. Il Vangelo infatti ci dice che senza il Signore non possiamo realizzare nulla di buono (cfr. Gv 15, 5) e ci assicura anche: «Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà» (Mt 18, 19).

Il salmo 126 ci ricorda che «se il Signore non costruisce la casa, invano lavorano i costruttori. Se la città non è custodita dal Signore, invano veglia il custode».

Lo esprimeva a suo mondo anche un poeta del 1700, Pietro Metastasio: Per compiere le belle imprese, / l’arte giova e il senno ha parte, / ma vaneggian il senno e l’arte / se amico il Ciel non è.

Pregare — diceva san Giovanni Paolo II — è scegliere di affrontare la realtà delle varie situazioni non da soli, ma con la forza che ha la sua sorgente in Dio. Nella preghiera fatta con fede risiede il segreto per affrontare con successo le emergenze ed i problemi personali e sociali (cfr. Angelus dell’8 settembre 2002).

La presente drammatica situazione ci spinge a invocare con fiducia l’aiuto di Dio. E per arrivare al cuore di Dio, nel mese di maggio, ricorriamo alla Madonna, che come madre misericordiosa ci è vicina e comprende le nostre necessità; in pari tempo è in cielo vicino a Dio e può efficacemente intercedere per noi e soccorrerci in questo immane flagello.
(fonte: L'Osservatore Romano 30/04/2021)


Enzo Bianchi: Perché si ama anche chi se ne va

Perché si ama anche chi se ne va
di Enzo Bianchi


La Repubblica – 26 aprile 2021

Avevamo provato dolore e anche orrore vedendo file di camion militari che uscivano dalla città di Bergamo portando le bare dei morti di Covid in altri cimiteri o forni crematori, ma ora siamo sbigottiti, proviamo vergogna di fronte a quello che sta succedendo in alcune città italiane, a cominciare da Roma e Palermo: bare accatastate che da settimane attendono la sepoltura. Questa situazione dà la misura dell’accelerazione della barbarie in questi ultimi decenni, perché la qualità dell’umanizzazione si misura sulle relazioni tra uomini e donne viventi, certo, ma anche sui rapporti che si nutrono con gli uomini e le donne che ci hanno lasciato.

Sappiamo che l’atto della sepoltura dei morti risale all’uomo di Neanderthal, che non abbandonava i cadaveri in preda agli animali o alle intemperie ma dava al corpo morto una postura particolare, lo metteva in una grotta o sotto terra in posizione di riposo e lo attorniava con un decoro: pietre, oggetti, fiori che diventavano un segno di affetto e di onore. Dell’homo sapiens, nostro antenato, abbiamo trovato scheletri fossili di amanti abbracciati anche nella morte, quasi una dichiarazione che l’amore vive anche nella morte.

Perché questa specificità degli umani all’interno della comunità degli animali alla quale appartengono? Nel seppellimento possiamo discernere il sentimento della cura, l’affermazione di un legame, il bisogno di ricordare le persone scomparse dando loro un "sito", un luogo preciso dove poter andare per una visita, per una preghiera, per portare un fiore. Forse nel seppellimento c’è la speranza che la morte non abbia l’ultima parola. Già la dispersione delle ceneri dovrebbe essere un atto più meditato e consapevole: perché se conservate in casa rischiano di obbedire alla logica del feticismo, se disperse impediscono di avere un "memoriale". Ma ora lasciare che si accumulino bare senza sepoltura, impedendo per settimane l’ultimo saluto, il dono di un fiore, una visita vissuta insieme a chi ha amato quella persona morta, è veramente disumano, crudele.

In tal modo si minano le fondamenta della pietas umana: anche la Chiesa oggi, purtroppo, fatica a comprendere che non c’è solo una pastorale dei vivi ma c’è anche un servizio pastorale e umano per i morti. E se diventa impossibile anche una sepoltura che potrebbe trovare posto in tanta terra allora una dimensione essenziale dell’umanità sta per scomparire: quella della comunione tra vivi e morti.

Allora non c’è più spazio per pensarci nella continuità delle generazioni e viene meno la consapevolezza che ciascuno di noi è preceduto da altri verso i quali siamo in debito e occorrerebbe nutrire sentimenti di gratitudine.

Così la morte appare come un vicolo chiuso, l’ultima realtà trionfatrice.
(fonte: Blog dell'autore)

giovedì 29 aprile 2021

Omelia p. Gregorio Battaglia (VIDEO) - IV Domenica di Pasqua / B - 25/04/2021



Omelia p. Gregorio Battaglia


- IV Domenica di Pasqua / B - 

25/04/2021

Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto


... Vi vorrei invitare a risentire le parole di Gesù come dette a tutti noi e ad ognuno di noi... E' Lui che ha parlato e si rivolge ad ognuno di noi e ci chiede di fare un discernimento serio, profondo perché Lui non è il mercenario, Lui non è il lupo, Lui non è nemmeno il ladro, Lui è il pastore e chiede che noi impariamo a riconoscere il pastore da coloro che invece si presentano come imbonitori, come gente che vuole rubare la nostra vita, la nostra coscienza.
Ma per far questo dobbiamo avere la capacità di saper distinguere le sue parole, perché la voce del pastore è anche quella voce che ci comunica le sue parole, e noi dobbiamo imparare a saper distinguere tra le parole sue e le parole che provengono da altri e che non aiutano a costruire bene la nostra vita, non la alimentano, ci portano verso sentieri che ci conducono quasi ad incrementare ancora di più quella malvagità che contraddistingue la nostra storia umana, perché la nostra storia umana da sempre, quasi come un ritornello continuo, è la storia di un disastro, perché siamo come una macchina infernale che produce dolore ...

Mi sembra interessante richiamare alla memoria quello che abbiamo vissuto nei giorni della Passione ... sono quei giorni che ci hanno rivelato quell'amore fino alla fine, quanto Dio è capace di amarci, fin dove si può spingere l'amore suo e, in un mondo che è capace di costruire solo delle croci, Lui è capace di affrontare la morte per noi ... 
Nella veglia di Pasqua abbiamo esultato: Lui ha vinto la morte, Lui ha vinto la violenza, Lui ha vinto questa nostra malvagità così profonda, è il vincitore, è il Vivente e oggi ... si presenta a noi e dice io sono il buon pastore ... è buono ed è bello e la bellezza di questo pastore è in questo dono d'amore, questa capacità di non trattenere nulla per sé ...

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Santa Caterina da Siena: da analfabeta a Dottore della Chiesa e Compatrona d'Europa - Elogio della Piccolezza di Antonio Savone

Santa Caterina da Siena: 
da analfabeta a Dottore della Chiesa e Compatrona d'Europa


Semianalfabeta, non va a scuola e non ha maestri privati, i suoi genitori la vogliono dare in sposa già a 12 anni ma lei dice no. Diventerà mistica, consigliera spirituale per potenti e alti dignitari e santa patrona d'Italia e compatrona d'Europa. Grazie all'opera Il Dialogo della Divina Provvidenza (ovvero Libro della Divina Dottrina), un capolavoro della letteratura spirituale, l’eccezionale Epistolario e la raccolta delle Preghiere, Santa Caterina da Siena è stata proclamata Dottore della Chiesa il 4 ottobre 1970 per volere di papa Paolo VI, sette giorni dopo quella di santa Teresa d’ Avila (1515–1582).
Caterina (dal greco: “donna pura”) vive in un momento storico e in una terra, la Toscana, di intraprendente ricchezza spirituale e culturale, la cui scena artistica e letteraria è dominata da figure come Giotto (1267–1337) e Dante (1265–1321). 
...
Viaggiò molto per sollecitare la riforma interiore della Chiesa e per favorire la pace tra gli Stati: anche per questo motivo Giovanni Paolo II la volle dichiarare Compatrona d’Europa: il Vecchio Continente non dimentichi mai le radici cristiane che sono alla base del suo cammino e continui ad attingere dal Vangelo i valori fondamentali che assicurano la giustizia e la concordia».


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Elogio della Piccolezza
Santa Caterina da Siena
di Antonio Savone


Imparate da me...
Eccoci ad apprendere dalle smentite. Eccoci farci discepoli di ciò che anzitutto dentro di noi saremmo portati ad escludere, scartare, rimuovere. ‘La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo’ (Sal 117). L’ostacolo diventa opportunità, l’intralcio un’occasione.
Cogliere così la bellezza della vita proprio là dove essa sembra rivelare soltanto deformazione e pesi: questa capacità è ciò che Dio continua a rivelare ai piccoli. E questo non solo quando è accompagnata da una esplicita professione di fede. C’è una rivelazione continua di Dio da scorgere e da riconoscere in tanti gesti che per noi portano tutto il carattere dell’assurdo. Ai piccoli e ai poveri accade di riconoscerla. Quanta sapienza nella vita di persone che non hanno fatto altro che mettersi alla scuola della vita. Santa Caterina da Siena, di cui oggi celebriamo la festa, ne è un esempio.
A questa scuola è da apprendere, perciò, anzitutto come stare a contatto con il limite, con la frustrazione. Gesù ha appena ricevuto una grave opposizione da parte delle città più vicine a lui e, tuttavia, questo non ha generato in lui delusione ma capacità di scorgere lo stile sorprendente di Dio: Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole (1Cor 1,26ss). E così quello che poteva sembrare prerogativa di alcuni – i sapienti – è stato partecipato agli altri – i piccoli. Un Dio convertito al fascino della piccolezza. I piccoli, uomini e donne che pur non conoscendo il linguaggio teologico vivono una particolare relazione con il Padre fatta di sguardo sapiente e di cuore capace di fiducia e affidamento. i piccoli capaci di comprendere misteri del regno, cioè come funzionano le cose della vita.
Quali i piccoli che anche oggi Dio continua a mettere in cattedra, maestri di cui farci ascoltatori e discepoli? A chi e a cosa siamo chiamati a conferire diritto di parola in noi anzitutto e poi attorno a noi?
A scuola, quindi, di mitezza e di umiltà, a scuola di piccolezza, a scuola della misura umile di Dio. Una scuola verso la quale spetta a noi muovere i passi: venite a me… Per apprendere ciò che immediatamente riconosciamo non appartenerci. E l’invito è rivolto a chi finalmente si riconosce affaticato, gravato cioè dalla preoccupazione per molte cose. Affaticati sono coloro che stanno per cedere di fronte alla difficoltà che la fede incontra. A costoro è rivolta la chiamata alla sequela. Interessante!
Mitezza, umiltà, piccolezza da imparare: imparate da me… La mitezza, il lasciare che l’altro sia quello che è; l’umiltà, la giusta considerazione di sé che si apre a fare spazio all’altro, una grandezza che si contrae, sullo stile di Dio che arriva addirittura a considerare l’altro superiore a se stesso (cfr. Fil 2).
La piccolezza, la misura umile di Dio. Dio restituisce parola al piccolo che diventa, perciò, nuova misura delle cose dell’uomo. I piccoli, destinatari privilegiati nel cogliere la portata del messaggio evangelico. Spazio dunque ai piccoli. Parola ai piccoli, a coloro che pur non partecipando del potere o del sapere o di altro titolo di riconoscimento, Dio investe del compito di essere maestri della comunità cristiana.
(fonte: A casa di Cornelio)

“Ridare credito alla felicità” di Giovanni Salonia, psicoterapeuta

“Ridare credito alla felicità”
di p. Giovanni Salonia,
Direttore dell'Istituto
di Gestalt Therapy hcc Kairòs gtk


Pubblicato su "La Sicilia" il 04.04.2021

Parlare di felicità nel tempo della pandemia ha il sapore di una provocazione. Si avverte una sorta di imbarazzo. È un tema che ci appartiene ma che in questi giorni diventa sempre più fuori luogo e fuori senso. Attraversiamo momenti drammatici. Una spada di Damocle sembra pendere sulla vita di tutti. Contagio, non contagio. Positivi, negativi. E si parla di morti inumane, di separazioni atroci, di crolli economici, di contrazione dei nostri affetti e dei nostri corpi. Contrazione anche della nostra speranza di felicità? La cosa più logica sembra quella di metterla tra parentesi questa speranza, cresciuta spasmodicamente in Occidente dagli anni Sessanta in poi, anni in cui la combinazione di un periodo di ‘pace pragmatica’, del benessere economico, dello sviluppo tecnologico provocarono un cambiamento del pensiero: dall’ansia della sopravvivenza si passò lentamente, quasi inconsapevolmente, alla ricerca della felicità. O dei suoi dintorni. E gli scaffali delle librerie si andarono riempiendo di percorsi o di ricette per la felicità. In definitiva, non bastava più sopravvivere, trattenere la vita biologica come un bene assoluto e sempre minacciato: da pesti, da guerre, da carestie. Non era più – la felicità – un tema buono per una élite e di letterati e di filosofi, una ricerca da intellettuali. 
La felicità era un diritto universale non più scritto sulla carta ma pensato e sentito a disposizione di ognuno.

E invece, quest’anno appena trascorso pare averci ributtato indietro, aver rimesso al centro la sopravvivenza, il rischio connesso alla possibilità di mantenersi in vita. E se fosse questa l’occasione propizia per riscoprire la felicità? Ora che siamo diventati esperti nel distinguere la sopravvivenza dalla vita piena, il puro essere dall’essere felici? Riflettiamoci su. Prima del trauma collettivo andavamo dal dottore, dal terapeuta, dal sacerdote, dal counsellor a chiedere: «Dottore, come posso essere felice? Dottore, che sintomi ha la felicità?». Ci siamo affannati, disperati quasi, alla ricerca continua dello spessore emotivo, della consistenza (anche corporea) di un evento, la felicità appunto. Con il timore sempre vivo di sacrificarla a causa delle nostre rinunce, di non cogliere l’attimo del suo passaggio. Oggi è diverso. Prima cercavamo l’elisir della felicità, le coordinate giuste, la combinazione degli accadimenti. Eravamo dentro l’equivoco nascosto nella parola inglese happiness, dove è compresa l’idea che la felicità sia qualcosa che avviene, che essa coincida in fin dei conti con la fortuna. O che magari, come diceva Aristotele, ci vogliano necessariamente agiatezza, salute e amicizia per essere felici.

Ci viene tolto così il potere tutto umano di diventare felici, di poterlo essere al di là delle condizioni stabilite. Non si tratta di proteggerci dalla infelicità con pratiche scaramantiche (evitiamo il 13, non partiamo il martedì e il venerdì) ma nemmeno di pensarla come un compito. Si tratta di assumere in pieno la nostra condizione umana, anche nel momento in cui dovessimo sentirci gettati nell’esistenza senza paracadute. E questo tempo di piena (pienissima) pandemia ci fa da maestro.

Intanto perché abbiamo ritrovato il valore di alcune piccole cose che prima ritenevamo trascurabili. Essere felici di un abbraccio, di un contatto fino ad un anno fa era impensabile: oggi ci si presenta come una meta, una possibilità bella, calda, significativa. Come a ricordarci che la nostra esistenza è fatta di contatti e che il tatto incluso nel con-tatto è una funzione primordiale della nostra presenza alla vita. Prima di quest’anno credevamo che la felicità fosse il contrario della tristezza. Oggi sappiamo che è indispensabile ammettere la tristezza, senza affannarci a negarla, riconoscendo che le sue onde, così temute, se vissute in comunione creano dalla tempesta l’arcobaleno delle nostre esistenze. Aveva ragione Charlie Brown quando un giorno, sentendosi molto triste, chiese all’amico «A cosa serve la vita?» e, ricevuta una risposta prefabbricata – «Ma a fare felici gli altri, Charlie!» -, replicò: «Oggi qualcuno non ha fatto il proprio dovere». Non si tratta di dare risposte, ma di condividere sul serio la tristezza dell’altro. Senza mestizia, ma con l’immediatezza dei bambini, che ancora ci fanno da maestri. Per loro il vissuto di un corpo materno caldo e accogliente è la felicità, prima di ogni definizione.

Faremo nelle prossime settimane un po’ di strada assieme in cerca di pienezza, ripartendo dalla felicità. Provvisoriamente dobbiamo forse ammettere che la felicità accade ma sta a noi prepararle il terreno, dando senso e sapore alla realtà. Anche quando non siano date le condizioni di Aristotele, anche quando arriva la malattia, la sua sentenza. Ricordo sempre con gratitudine coloro che me lo hanno mostrato e insegnato. Enrico, pediatra pieno di luce, chiese di incontrarmi. Non ci conoscevamo. Ma fu subito simpatia e intesa, intellettuale e spirituale. Ammalato inguaribile, consapevole della propria discesa verso la morte, Enrico voleva conversare con me della sua fine. E ogni incontro fu una lezione di vita. Consapevolezza lucida del male coniugata con una incredibile serenità. Mi sembrava di sentire nella sua voce il fragore limpido di un fiume di vita che gli scorreva dentro. Un giorno parliamo del suo funerale. Enrico mi chiede se oltre alla Salve Regina si possa suonare anche la nona sinfonia di Beethoven: l’Inno alla gioia. Bisbigliamo assieme quel Freude!. «Gioia, Gioia, o Amici. Gioia scintilla divina». Un momento magico. La morte si avvicinava ma lui si immergeva nell’inno. In quel momento mi sono ricordato di Eichendorff: «In ogni cosa dorme un canto / Che sogna e continua a sognare / E il mondo riprende a cantare/ Se la parola magica riesci a trovare». Vivere non basta. Dobbiamo rimanere nel fuoco della gioia di vivere che continuamente rinasce nei nostri corpi e nelle nostre relazioni. 

(Fonte: sito ufficiale)

Vedi:
- il sito ufficiale dell'’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairòs gtk


mercoledì 28 aprile 2021

«Non è possibile la meditazione cristiana senza lo Spirito Santo. È Lui che ci guida all’incontro con Gesù.» Papa Francesco Udienza Generale 28/04/2021 (testo e video)

UDIENZA GENERALE

Biblioteca del Palazzo Apostolico
Mercoledì, 28 aprile 2021



Catechesi sulla preghiera: 31. La meditazione

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parliamo di quella forma di preghiera che è la meditazione. Per un cristiano “meditare” è cercare una sintesi: significa mettersi davanti alla grande pagina della Rivelazione per provare a farla diventare nostra, assumendola completamente. E il cristiano, dopo aver accolto la Parola di Dio, non la tiene chiusa dentro di sé, perché quella Parola deve incontrarsi con «un altro libro», che il Catechismo chiama «quello della vita» (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 2706). È ciò che tentiamo di fare ogni volta che meditiamo la Parola.

La pratica della meditazione ha ricevuto in questi anni una grande attenzione. Di essa non parlano solamente i cristiani: esiste una pratica meditativa in pressoché tutte le religioni del mondo. Ma si tratta di un’attività diffusa anche tra persone che non hanno una visione religiosa della vita. Tutti abbiamo bisogno di meditare, di riflettere, di ritrovare noi stessi, è una dinamica umana. Soprattutto nel vorace mondo occidentale si cerca la meditazione perché essa rappresenta un argine elevato contro lo stress quotidiano e il vuoto che ovunque dilaga. Ecco, dunque, l’immagine di giovani e adulti seduti in raccoglimento, in silenzio, con gli occhi socchiusi… Ma possiamo domandarci: cosa fanno queste persone? Meditano. È un fenomeno da guardare con favore: infatti noi non siamo fatti per correre in continuazione, possediamo una vita interiore che non può sempre essere calpestata. Meditare è dunque un bisogno di tutti. Meditare, per così dire, assomiglierebbe a fermarsi e fare un respiro nella vita.

Però ci accorgiamo che questa parola, una volta accolta in un contesto cristiano, assume una specificità che non dev’essere cancellata. Meditare è una dimensione umana necessaria, ma meditare nel contesto cristiano va oltre: è una dimensione che non deve essere cancellata. La grande porta attraverso la quale passa la preghiera di un battezzato – lo ricordiamo ancora una volta – è Gesù Cristo. Per il cristiano la meditazione entra dalla porta di Gesù Cristo. Anche la pratica della meditazione segue questo sentiero. E il cristiano, quando prega, non aspira alla piena trasparenza di sé, non si mette in ricerca del nucleo più profondo del suo io. Questo è lecito, ma il cristiano cerca un’altra cosa. La preghiera del cristiano è anzitutto incontro con l’Altro, con l’Altro ma con la A maiuscola: l’incontro trascendente con Dio. Se un’esperienza di preghiera ci dona la pace interiore, o la padronanza di noi stessi, o la lucidità sul cammino da intraprendere, questi risultati sono, per così dire, effetti collaterali della grazia della preghiera cristiana che è l’incontro con Gesù, cioè meditare è andare all’incontro con Gesù, guidati da una frase o da una parola della Sacra Scrittura.

Il termine “meditazione” nel corso della storia ha avuto significati diversi. Anche all’interno del cristianesimo esso si riferisce a esperienze spirituali diverse. Tuttavia, si può rintracciare qualche linea comune, e in questo ci aiuta ancora il Catechismo, che dice così: «I metodi di meditazione sono tanti quanti i maestri spirituali. […] Ma un metodo non è che una guida; l’importante è avanzare, con lo Spirito Santo, sull’unica via della preghiera: Cristo Gesù» (n. 2707). E qui viene segnalato un compagno di cammino, uno che ci guida: lo Spirito Santo. Non è possibile la meditazione cristiana senza lo Spirito Santo. È Lui che ci guida all’incontro con Gesù. Gesù ci aveva detto: “Vi invierò lo Spirito Santo. Lui vi insegnerà e vi spiegherà. Vi insegnerà e vi spiegherà”. E anche nella meditazione, lo Spirito Santo è la guida per andare avanti nell’incontro con Gesù Cristo.

Dunque, sono tanti i metodi di meditazione cristiana: alcuni molto sobri, altri più articolati; alcuni accentuano la dimensione intellettiva della persona, altri piuttosto quella affettiva ed emotiva. Sono metodi. Tutti sono importanti e tutti sono degni di essere praticati, in quanto possono aiutare l’esperienza della fede a diventare un atto totale della persona: non prega solo la mente, prega tutto l’uomo, la totalità della persona, come non prega solo il sentimento. Gli antichi solevano dire che l’organo della preghiera è il cuore, e così spiegavano che è tutto l’uomo, a partire dal suo centro, dal cuore, che entra in relazione con Dio, e non solamente alcune sue facoltà. Perciò si deve sempre ricordare che il metodo è una strada, non una meta: qualsiasi metodo di preghiera, se vuole essere cristiano, fa parte di quella sequela Christi che è l’essenza della nostra fede. I metodi di meditazione sono strade da percorrere per arrivare all’incontro con Gesù, ma se tu ti fermi nella strada e guardi soltanto la strada, non troverai mai Gesù. Farai della strada un dio, ma la strada è un mezzo per portarti a Gesù. Il Catechismo precisa: «La meditazione mette in azione il pensiero, l’immaginazione, l’emozione e il desiderio. Questa mobilitazione è necessaria per approfondire le convinzioni di fede, suscitare la conversione del cuore e rafforzare la volontà di seguire Cristo. La preghiera cristiana di preferenza si sofferma a meditare “i misteri di Cristo”» (n. 2708).

Ecco, dunque, la grazia della preghiera cristiana: Cristo non è lontano, ma è sempre in relazione con noi. Non c’è aspetto della sua persona divino-umana che non possa diventare per noi luogo di salvezza e di felicità. Ogni momento della vita terrena di Gesù, attraverso la grazia della preghiera, può diventare a noi contemporaneo, grazie allo Spirito Santo, la guida. Ma voi sapete che non si può pregare senza la guida dello Spirito Santo. È Lui che ci guida! E grazie allo Spirito Santo, anche noi siamo presenti presso il fiume Giordano, quando Gesù vi si immerge per ricevere il battesimo. Anche noi siamo commensali alle nozze di Cana, quando Gesù dona il vino più buono per la felicità degli sposi, cioè è lo Spirito Santo che ci collega con questi misteri della vita di Cristo perché nella contemplazione di Gesù facciamo l’esperienza della preghiera per unirci più a Lui. Anche noi assistiamo stupiti alle mille guarigioni compiute dal Maestro. Prendiamo il Vangelo, facciamo la meditazione di quei misteri del Vangelo e lo Spirito ci guida ad essere presenti lì. E nella preghiera – quando preghiamo – tutti noi siamo come il lebbroso purificato, il cieco Bartimeo che riacquista la vista, Lazzaro che esce dal sepolcro... Anche noi siamo guariti nella preghiera come è stato guarito il cieco Bartimeo, quell’altro, il lebbroso … Anche noi siamo risorti, come è stato risuscitato Lazzaro, perché la preghiera di meditazione guidata dallo Spirito Santo, ci porta a rivivere questi misteri della vita di Cristo e a incontrarci con Cristo e a dire, con il cieco: “Signore, abbi pietà di me! Abbi pietà di me”- “E cosa vuoi?” - “Vedere, entrare in quel dialogo”. E la meditazione cristiana, guidata dallo Spirito ci porta questo dialogo con Gesù. Non c’è pagina di Vangelo in cui non ci sia posto per noi. Meditare, per noi cristiani, è un modo di incontrare Gesù. E così, solo così, di ritrovare noi stessi. E questo non è un ripiegamento su noi stessi, no: andare da Gesù e da Gesù incontrare noi stessi, guariti, risorti, forti per la grazia di Gesù. E incontrare Gesù salvatore di tutti, anche di me. E questo grazie alla guida dello Spirito Santo.

Guarda il video della catechesi


Saluti:
...

* * *

Rivolgo un cordiale saluto ai fedeli di lingua italiana. in questo tempo pasquale vi invito a rinnovare con generosità il vostro impegno nel servire Dio e i fratelli.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Siate coraggiosi testimoni del Cristo risorto, il quale mostra ai discepoli le piaghe, ormai gloriose, della sua Passione.

A tutti la mia benedizione!


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Il vescovo Carlassare dopo l'attentato: «Perdono dal profondo del cuore» - Il perdono quando è insieme alla misericordia può portare a una vera giustizia e unisce Pastore e popolo

Il vescovo Carlassare dopo l'attentato:
«Perdono dal profondo del cuore» 
Il perdono quando è insieme alla misericordia 
può portare a una vera giustizia e unisce Pastore e popolo 

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Mons. Carlassare: “Tornerò a camminare. 
Continuerò servizio missionario come prima”


“Io sto prendendo forza di giorno in giorno e tutto andrà per il meglio. Tornerò a camminare e continuerò il mio servizio missionario come prima”. Così il vescovo eletto di Rumbek (Sud Sudan), mons. Christian Carlassare, in un’intervista di Maurizio Di Schino per il Tg2000, il telegiornale di Tv2000, in collegamento dal letto d’ospedale a Nairobi in Kenya racconta il suo stato di salute in seguito al grave attentato avvenuto nella notte tra il 25 e il 26 aprile. “Sono in un letto d’ospedale – ha aggiunto mons. Carlassare - dove i medici si stanno prendendo cura di me. Hanno visitato le mie gambe colpite da alcuni proiettili e hanno ripulito le ferite”. “Subito dopo l’attentato – ha proseguito mons. Carlassare a Tv2000 - quando sono stato portato all’ospedale di Rumbek e ho avuto la prima operazione molta gente è venuta a farmi visita. Ho visto donne, giovani, persone di governo. Tante persone che si sentivano di mostrarmi la loro solidarietà. Io ero a letto sofferente per i quattro proiettili che erano nelle mie gambe ma ho visto che la sofferenza della gente era molto più forte della mia. Se io avevo una speranza forte di guarire, loro avevano paura che li lasciassi o di avermi in qualche modo deluso”. “Per questo ho pensato – ha concluso mons. Carlassare a Tv2000 - che il messaggio del perdono è l’unico che in questa situazione può portare a una vera giustizia. Si cerca sempre la giustizia ma ci si dimentica sempre della misericordia. In questo momento speriamo che emerga la verità affinché questi avvenimenti non accadano mai più. Sappiamo che dal perdono può nascere una trasformazione”.

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Il vescovo Carlassare
«Perdono dal profondo del cuore»


«Perdono queste persone dal più profondo del cuore». Padre Christian Carlassare, il vescovo eletto della diocesi di Rumbek ferito alle gambe, nella notte tra domenica e lunedì, in un agguato in Sud Sudan mentre si trovava nella propria abitazione, risponde al telefono dal suo letto nell’ospedale di Nairobi, in Kenya. Nella notte ha subito una nuova operazione per ripulire le ferite dalle schegge di proiettile e il suo stato d’animo è tranquillo, quasi del tutto sereno. Alla domanda se, nel più profondo del cuore, si sente di condannare gli autori di un così terribile atto, risponde di no: «Perché sono giovani e certamente non l’hanno fatto per una ragione contro di me. Sospetto che qualcuno gli abbia commissionato questo gesto. Dunque, mi sento di perdonare come perdono chi li ha spinti ad agire. E lo faccio a nome di tutta la gente di Rumbek che, quando sono stato colpito, era fuori dall’ospedale cittadino e dall’aeroporto, dicendomi: padre non abbandonarci, padre ritorna. Non volevano lasciarmi partire per non perdere il loro vescovo».

Il direttore della sala stampa della Santa Sede, Matteo Bruni, ha informato che Papa Francesco è vicino con la preghiera al giovane pastore.

Il dubbio lacerante sul perché aggredire un missionario impegnato nella pacificazione nazionale e nella ricomposizione degli scontri tra etnie, non spaventa più di tanto Carlassare che ipotizza, però, come la vicenda «possa essere legata ad un avvertimento, un atto intimidatorio, dato che, se avessero voluto ammazzarmi, avrebbero potuto farlo con estrema facilità mentre la motivazione del furto la posso escludere con sicurezza». Una cosa è certa: il suo ferimento non cancellerà il profondo desiderio di portare avanti la sua azione pacificatrice nel tentativo di far cessare ogni odio etnico. «Questa — risponde più sicuro — non è la mia azione ma l’azione della Chiesa. È il messaggio del vangelo che non può cambiare davanti agli ostacoli e alle difficoltà. La situazione di croce che stiamo vivendo ci costringe, anzi, ad essere più fedeli ancora al messaggio del vangelo sapendo anche che si potrà pagarne il prezzo».
(fonte: L'Osservatore Romano, articolo di Federico Piana 27/04/2021)

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Morire insieme vivere insieme
Scritto da Tonio Dell'Olio - Mosaico dei Giorni 28/04/2021

"Torna, padre, se devi morire, moriremo insieme". È ciò che la gente di Rumbek ha gridato all'aeroporto mentre trasportavano il vescovo eletto Christian Carlassare a Juba (e poi a Nairobi) per consentirgli le cure necessarie dopo l'attentato che aveva subito la notte precedente.

Non ci interessa, in questa sede, entrare nel merito di una vicenda intricatissima di cui a noi occidentali mancano le chiavi di lettura. Mi interessa piuttosto quel sentimento che ha attraversato le persone di Rumbek e che è diventato urlo, invito, dichiarazione compromettente. In questa situazione si sono invertiti i ruoli al punto che non è il pastore che sceglie di dare la vita per il gregge che gli viene affidato, ma piuttosto quel popolo ad accettare, accogliere, scegliere la sorte toccata al pastore. È al di là del Vangelo. Un morire "con" te che supera persino il morire "per" te. Un filo come un'arteria che tiene uniti pastore e popolo in vita e in morte. E anche oltre. Se ne prende coscienza quando, con prove evidenti, l'altro dimostra di avermi talmente a cuore da decidere persino di dare per me quanto ha di più caro: la vita. La qualità delle nostre comunità, tanto di fede che sociali, si ritroverebbero in un balzo di qualità se solo lo si comprendesse.


Vescovi e laici a confronto: via libera al primo Sinodo della Chiesa italiana

Vescovi e laici a confronto: 
via libera al primo Sinodo della Chiesa italiana


L'annuncio del presidente della Cei, cardinale Bassetti, dopo un tira e molla durato sei anni con papa Francesco. Vinte le resistenze a un processo di riforma della presenza ecclesiale nel Belpaese

Papa Francesco con il presidente della Cei, Gualtiero Bassetti

Anche la Chiesa italiana avrà il suo primo Sinodo nazionale. Non sarà un evento unico, ma un percorso di confronto fra chierici, laici e religiosi sulla riforma della presenza cattolica nel Paese, al pari di quello già in corso nella turbolenta Germania, anche se difficilmente l'iniziativa nostrana avrà la stessa intensità e dialettica. Il via libera arriva dopo un tira e molla fra i vertici ecclesiali e papa Francesco lungo sei anni. Era il 2015, quando il Pontefice, intervenendo al V Convegno ecclesiale, svoltosi a Firenze, scosse la Chiesa in Italia, con l'intuizione di un inedito percorso sinodale. Confermate le indiscrezioni dei mesi scorsi, ora è il presidente dei vescovi, il cardinale Gualtiero Bassetti, ad annunciare ufficialmente, durante il suo saluto online all’assemblea dell’Azione cattolica, "l'autentica novità" dell'avvio di un cammino corale (da qui l'origine della parola sinodo) che dovrebbe avere come orizzonte il 2025, l’anno del prossimo Giubileo.

C'è voluta sicuramente l'insistenza del Papa, primate d'Italia in quanto vescovo di Roma, per vincere le resistenze di una parte dell’episcopato rispetto all’indizione di un iter indigesto ai sostenitori del ’si è sempre fatto così’. Non a caso Francesco, in risposta al silenzio assordante dei piani alti della conferenza episcopale rispetto alla sua proposta di quattro anni prima, era dovuto tornare a rilanciarla nel corso dell’Assemblea dei vescovi del 2019, sostenendo allora l’urgenza di un confronto “dal basso verso l’alto“ e "dall’alto verso il basso". Quindi, persistendo il 'chi tace dissente', si era rifatto sentire, stavolta con piglio deluso e ultimativo, nel gennaio scorso durante un incontro promosso dall’Ufficio catechistico della Cei. D'altronde che il Papa abbia scelto il Sinodo come via maestra del suo ministero è risaputo. Prima di tutti ai vescovi che in questi otto anni di pontificato hanno potuto seguire e partecipare alle assise sulla famiglia, i giovani e l'Amazzonia.

Nel percorso sinodale italiano entreranno tematiche ad intra, dalla liturgia alla carità, passando per la pastorale giovanile e familiare, ma lo sguardo sarà proiettato anche sulla società, toccando gli ambiti della cultura, delle nuove povertà, della cittadinanza e del lavoro. Come anticipato, non si tratterà di un evento unico, un convegno. Piuttosto si lavora a un’iniziativa diffusa, spalmata nel tempo che coinvolgerà le 16 regioni ecclesiastiche, le 226 Chiese particolari, le oltre 25mila parrocchie, oltre a movimenti e associazioni ecclesiali. Punto di partenza per un dialogo costruttivo, che nelle intenzioni della vigilia servirà alla Chiesa per liberarsi di certe sovrastrutture, sburocratizzarsi e archiviare incrostazioni pastorali, sarà sicuramente l'Instrumentum laboris. Il documento, atteso nei prossimi mesi, sarà distribuito fra i fedeli e servirà a tratteggiare una road map al momento ancora piuttosto fumosa.

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Per approfondire leggi:


ed anche una selezione dei nostri numerosi post sull'argomento a partire dall'intervento di Papa Francesco a Firenze:

martedì 27 aprile 2021

Addio a Nadia, missionaria laica italiana uccisa a colpi di machete in Perù. Presenza limpida, operosa, instancabile tra i più poveri, che ci ricorda quanto sia delicato il lavoro dei tanti missionari nel mondo.

Addio a Nadia, missionaria laica italiana 
uccisa a colpi di machete in Perù. Presenza limpida, operosa, instancabile tra i più poveri, che ci ricorda quanto sia delicato il lavoro dei tanti missionari nel mondo.


NADIA, UNA VITA DEDICATA AL SERVIZIO DEGLI ALTRI

Era in Perù dal 1995, faceva parte, come missionaria laica, del movimento Operazione Mato grosso.Lavorava in una baraccopoli a due ore da Lima. Era stata trovata ferita gravemente in casa forse da colpi di machete il 20 aprile. Oggi la notizia della sua morte.


Aveva 50 anni Nadia De Munari, dal 1995 era impegnata in Perù con il movimento Operazione Mato Grosso, che opera a favore dei più poveri in America Latina. Era una missionaria laica, originaria di Giavenale, quartiere di Schio (Vicenza). Nella notte del 20 aprile aveva subito una feroce aggressione, le colleghe non vedendola arrivare a colazione si sono preoccupate e l'hanno trovata gravemente ferita, colpi di machete probabilmente, forse aggredita mentre dormiva. Era ferita ma viva. La corsa all'ospedale prima locale e poi di Lima e gli interventi, pure se tecnicamente riusciti, non sono bastati a salvarla. Nadia non ce l’ha fatta: il suo cuore si è fermato. Nadia, era maestra, si era formata dalle Canossiane a Schio, la sua città - dove tornava quando veniva in Italia - gestiva scuole primarie e d'infanzia presso la casa Mamma mia, nella baraccopoli a Nuevo Chimbote, sulla costa centro-settentrionale del Perù, dove aiutava alcune ragazze che si dovevano formare come insegnanti di scuola primaria. Ma la baraccopoli è un posto poverissimo e sregolato. Nadia portava anche aiuti nelle case, ma a quel che si sa era molto amata. L'ipotesi prevalente è che si sia trattato di una rapina finita male, ma è un'ipotesi che non convince la famiglia. “La mamma di Nadia – ha riferito don Gaetano Santagiuliano, parroco di Schio all'agenzia AdnKronos – ha detto che la figlia è una martire. Parole che non potrebbero essere più vere perché Nadia ha donato la sua vita, ci ha messo il sangue”. Il paese vicentino ovviamente “è sotto choc. "Nadia tornava a casa ogni due o tre anni", ha riferito il parroco, ed era entusiasta, orgogliosa del servizio che svolgeva“.

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Omicidio De Munari, il vescovo di Huari: “Era limpida e instancabile”


In questi giorni, dopo la notizia della morte della volontaria vicentina Nadia De Munari, sono intercorsi stretti e continui contatti tra la diocesi di Vicenza e la diocesi di Huari (Perù), in modo particolare nel corso della giornata di lunedì 26 aprile, in uno scambio di notizie e solidarietà. Lo comunica la Diocesi di Vicenza.

I vescovi di Vicenza, Beniamino Pizziol, e di Huari, Giorgio Barbetta hanno espresso tutto il loro dolore per la morte della volontaria scledense dell’Operazione Mato Grosso a Nuevo Chimbote. L’aggressione di cui è stata vittima è avvenuta lo scorso 20 aprile. Le sue condizioni sono apparse da subito gravi, ma è stata sottoposta ad un delicato intervento alla testa con la speranza di poterla salvare.
La morte di Nadia De Munari – dichiara il vescovo Beniamino Pizziol – avvenuta lo scorso 24 aprile ci lascia sgomenti e ci ricorda quanto sia delicato il lavoro dei tanti missionari nel mondo. Esprimo ancora a nome personale e della diocesi di Vicenza la mia vicinanza alla famiglia, che ho sentito telefonicamente, e continua il ricordo nella preghiera per tutti loro. Esprimo anche il mio cordoglio ai volontari dell’O.M.G. e alla chiesa peruviana, che hanno perso una persona stimata e benvoluta da tutti. Invito tutti a intensificare la preghiera in questi giorni difficili, invocando il dono della consolazione dal Signore”. “Nadia era una presenza limpida, operosa, instancabile tra la gente di Nuovo Chimbote”, la ricorda così monsignor Giorgio Barbetta, vescovo di Huari e membro dell’O.M.G., che continua: “La sua morte è arrivata come un fulmine a ciel sereno che ha scosso me e tutti coloro che la conoscevano. Le tante notizie che stanno circolando stanno creando anche un certo disorientamento in tutti noi. Penso che sia importante attendere la conclusione delle indagini della polizia peruviana. Nel frattempo, ciascuno sta cercando di fare la propria parte con onestà e preghiera”.


"È il momento della vergogna" Ancora 130 persone 'lasciate morire' nel Mediterraneo nell’indifferenza generale del mondo. #BastaMortiInMare

"È il momento della vergogna" 
Ancora 130 persone 'lasciate morire' nel Mediterraneo nell’indifferenza generale del mondo.



Ocean Viking testimone delle conseguenze di un naufragio

Dichiarazione di Luisa Albera, coordinatrice di Ricerca e Soccorso a bordo della Ocean Viking

Ocean Viking, Mediterraneo centrale – 22 aprile 2021: “Oggi, dopo ore di ricerca, la nostra peggiore paura si è avverata. L’equipaggio della Ocean Viking ha dovuto assistere alle devastanti conseguenze del naufragio di un gommone a Nord-Est di Tripoli. Mercoledì mattina era scattato l’allarme rispetto a questa stessa imbarcazione con circa 130 persone a bordo.

Nelle ultime 48 ore, il network telefonico civile Alarm Phone ci ha avvisato di un totale di tre barche in difficoltà in acque internazionali al largo della Libia. Tutte si trovavano ad almeno dieci ore dalla nostra posizione nel momento in cui abbiamo ricevuto le segnalazioni. Abbiamo cercato due di queste barche, una dopo l’altra, in una corsa contro il tempo e con il mare molto mosso, con onde fino a 6 metri.

In assenza di un coordinamento efficace da parte dello Stato, tre navi mercantili e la Ocean Viking hanno cooperato per organizzare la ricerca in condizioni di mare estremamente difficili. Oggi, mentre cercavamo senza sosta – nella totale mancanza di supporto dalle autorità marittime competenti – tre cadaveri sono stati avvistati in acqua dalla nave mercantile MY ROSE.

Un aereo di Frontex ha individuato poco dopo il relitto di un gommone. Dal momento in cui siamo arrivati sul posto oggi non abbiamo trovato nessun sopravvissuto, ma abbiamo visto almeno dieci corpi nelle vicinanze del relitto. Abbiamo il cuore spezzato. Pensiamo alle vite che sono state perse e alle famiglie che potrebbero non avere mai la certezza di ciò che è successo ai loro cari. 
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"Vi confesso che sono molto addolorato per la tragedia che ancora una volta si è consumata nei giorni scorsi nel Mediterraneo. Centotrenta migranti sono morti in mare. Sono persone, sono vite umane, che per due giorni interi hanno implorato invano aiuto, un aiuto che non è arrivato. Fratelli e sorelle, interroghiamoci tutti su questa ennesima tragedia. È il momento della vergogna. Preghiamo per questi fratelli e sorelle, e per tanti che continuano a morire in questi drammatici viaggi. Preghiamo anche per coloro che possono aiutare ma preferiscono guardare da un’altra parte. Preghiamo in silenzio per loro." (Papa Francesco dopo la recita del Regina Coeli 25/04/2021)


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130 morti nel Canale di Sicilia. 
Dov’è l’Europa?



Dal 2014, l’anno successivo alla più grande tragedia dell’immigrazione nel Canale di Sicilia, quando si è cominciato a documentare i viaggi della speranza (e del terrore) di queste persone, al giorno prima della tragedia di giovedì scorso, i morti e i dispersi nel Mediterraneo sono stati 23.135.
“Solo” quelli di cui siamo a conoscenza.

Giovedì sono stati 130 i morti in mare, in un’altra strage annunciata.
Tutte le autorità europee sapevano, da due giorni, che nel Canale di Sicilia c’erano 3 barconi messi in mare dai trafficanti libici.
Ma nessuno ha inviato navi per soccorrere queste persone in balia del mare grosso, prossime all’annegamento.

Possiamo fermarci un attimo per immaginare i loro ultimi pensieri? Le loro paure?
Un attimo.
Sapevano di dover morire e non c’era nessuno a salvarle.
Sapevano che non avrebbero rivisto chi amavano.
Sapevano che sarebbero annegate.
Se fa male immaginare è un bene. Crediamo che debba fare male.

La portavoce dell’Oim, l’organizzazione dell’Onu per i migranti, Safa Mshli ha detto: “Gli Stati si sono opposti e si sono rifiutati di agire per salvare la vita di oltre 100 persone. Hanno supplicato e inviato richieste di soccorso per due giorni prima di annegare nel cimitero del Mediterraneo. È questa l’eredità dell’Europa?”.

Per la prima volta, da molti anni, tre navi commerciali hanno deciso di unirsi alla Ocean Viking di Sos Mediterranee nella ricerca dei dispersi. Ma non sono state coordinate da nessuna delle centrali di soccorso. Nell’area sono passati velivoli di Frontex, ma nessun messaggio di allerta è stato diramato.

Quando sarà abbastanza? Povere persone. Quante speranze, quante paure. Destinate a schiantarsi contro tanta indifferenza”, ha scritto Carlotta Sami, portavoce dell’alto commissariato per i rifugiati (Unhcr-Acnur).

Quando sarà abbastanza?
Oltre le nostre parole, oltre i numeri che servono per capire le dimensioni immani di una ecatombe senza fine, ci sono storie su storie, storie di vite che erano e avrebbero potuto essere, ogni volta che un barcone affonda.
Storie di famiglie spezzate, di bambini che volevano crescere, di donne che magari li avevano ancora in grembo.
Eppure restano solo corpi, corpi accarezzati dall’acqua, rimasti abbracciati stretti anche in fondo al blu più profondo. Uomini, donne e bambini che cercavano un futuro, proteggendosi a vicenda oltre l’ultimo respiro.

Naufragio, migranti, Mediterraneo.
Sono parole che sembrano scivolare velocemente, senza che quasi ce ne accorgiamo. Le leggiamo, le scriviamo, le ripetiamo, nella quotidianità.

Si levano, assurdamente, fazioni al cospetto di tragedie simili, laddove c’è invece bisogno di immediate soluzioni, di corridoi umanitari sicuri per persone che al sicuro non sono e meritano una vita migliore. Una vita.
Non certo una morte in fondo al mare, con la zavorra dell’indifferenza, senza che nessuno si sia neanche mosso per salvarle dalla morte.

“Nell’indifferenza generale del mondo è la similitudine tra ieri e oggi, non è tanto il triste fatto specifico, ma l’indifferenza con cui si chiude il mare, con i barconi degli immigrati che senza nome vengono dimenticati, annegano e il mare si chiude sopra. È il mare dell’indifferenza”.
Liliana Segre

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Una foto che parla. 
Quelle grida senza ascolto pensiamoli nostri figli


In una foto diffusa da Sos Mediterranée il cadavere di un uomo galleggia in mare, avvinto a un salvagente. Indossa una giacca a vento, il cappuccio nero gli nasconde il volto. Non è annegato: forse ha retto a lungo, nell’attesa di un salvataggio che non è arrivato. L’uomo è morto di ipotermia, cioè di freddo, giovedì scorso, insieme ad altri 130 migranti. In acque Sar, acque internazionali di competenze libica quanto ai soccorsi. Alarm Phone, il centralino civile che raccoglie gli Sos, aveva lanciato l’allarme mercoledì alle 14. In oltre 24 ore né Frontex né la cosiddetta Guardia costiera libica si sono mosse. Nemmeno un mezzo militare italiano. «Li hanno lasciati morire», dicono dall’Oim, l’Agenzia Onu per i migranti.
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Poi, per ore e ore, nessuno interviene. Quando la Ocean Viking e tre mercantili civili arrivano sul posto trovano un gommone sfasciato, e dieci annegati.


Sos Mediterranee / Flavio Gasperini

Quel poveretto ferocemente attaccato, nel rigore della morte, a un salvagente, è quanto ci è dato di vedere di questa terribile notte. Guardiamolo bene, però. È giovane, come lo sono tutti quelli che riescono a superare estenuanti odissee dall’Africa subsahariana, e poi fuggono dalla Libia. Sotto alla giacca a vento chissà quante maglie aveva: fanno così, i migranti, contro il freddo, s’infilano addosso tutto il poco che hanno. Ben coperto, l’uomo confidava di farcela. Come i suoi compagni certo sapeva a memoria il cellulare della madre o del padre, per chiamare, appena toccato terra. Vent’anni aveva, forse? L’età in cui i nostri figli ci sembrano ancora ragazzini, cui perdonare ogni cosa.
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Non succede a voi di sovrapporre per un istante la faccia di un figlio, alla faccia dello sconosciuto in mare? (Forse per questo tre mercantili hanno deviato dalle loro rotte, perché, stando in mezzo alla tempesta, qualcuno ha pensato ai suoi figli, e ha avuto pietà).

Ma ai centralini di soccorso di Tripoli e a quelli di Roma, di La Valletta e dei controllori europei dei confini l’allarme rimbalzava reciprocamente (tocca a loro, tocca ad altri – e poi, nel caso, dove li portiamo?) In Libia è vietato riportare migranti. Non restava che l’Italia, o Malta. Che notte fonda, quella di questo 22 aprile, e non solo nel Mediterraneo. Mentre tutti i media italiani ed europei erano su Superlega o sul Covid, sui lockdown o i colori delle zone, sui permessi per le seconde case, quanto nera doveva essere la notte, negli occhi di quegli uomini in mare. Di quell’uomo forsennatamente attaccato a un salvagente, tanto che nessuna onda è riuscito a strapparglielo.

Che disperata voglia di vivere doveva avere, e che forza nelle braccia – la forza dei vent’anni. Guardiamo i nostri figli, questa sera. Davvero non gli somigliano per niente? E questa Europa, invece, a cosa somiglia? A un’enclave chiusa da alte mura. Dentro, stiamo morendo di paura più ancora che di Covid. E, ossessionati, non alziamo lo sguardo. A un disperato Sos non risponde nessuno. «Gentile signore/ signora, grazie della vostra email…». Come una voce registrata nell’ufficio vuoto di una città abbandonata, a Ferragosto. A questo, l’altra notte, somigliavamo.



lunedì 26 aprile 2021

«Gesù Buon Pastore difende, conosce, e soprattutto ama le sue pecore... L’amore di Cristo non è selettivo, abbraccia tutti.» Papa Francesco Regina Coeli 25/04/2021 (testo e video)

REGINA CAELI

Piazza San Pietro
Domenica, 25 aprile 2021



Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

In questa quarta domenica di Pasqua, detta domenica del Buon Pastore, il Vangelo (Gv 10,11-18) presenta Gesù come il vero pastore, che difende, conosce e ama le sue pecore.

A Lui, Buon Pastore, si contrappone il “mercenario”, al quale non importano le pecore, perché non sono sue. Fa questo mestiere solo per la paga, e non si preoccupa di difenderle: quando arriva il lupo fugge e le abbandona (cfr vv. 12-13). Gesù, invece, pastore vero, ci difende sempre, ci salva in tante situazioni difficili, situazioni pericolose, mediante la luce della sua parola e la forza della sua presenza, che noi sperimentiamo sempre e, se vogliamo ascoltare, tutti i giorni.

Il secondo aspetto è che Gesù, pastore buono, conosce – il primo aspetto: difende, il secondo: conosce – le sue pecore e le pecore conoscono Lui (v. 14). Come è bello e consolante sapere che Gesù ci conosce ad uno ad uno, che non siamo degli anonimi per Lui, che il nostro nome gli è noto! Per Lui non siamo “massa”, “moltitudine”, no. Siamo persone uniche, ciascuno con la propria storia, [e Lui] ci conosce ciascuno con la propria storia, ciascuno con il proprio valore, sia in quanto creatura sia in quanto redento da Cristo. Ognuno di noi può dire: Gesù mi conosce! È vero, è così: Lui ci conosce come nessun altro. Solo Lui sa che cosa c’è nel nostro cuore, le intenzioni, i sentimenti più nascosti. Gesù conosce i nostri pregi e i nostri difetti, ed è sempre pronto a prendersi cura di noi, per sanare le piaghe dei nostri errori con l’abbondanza della sua misericordia. In Lui si realizza pienamente l’immagine del pastore del popolo di Dio, che avevano delineato i profeti: Gesù si preoccupa delle sue pecore, le raduna, fascia quella ferita, cura quella malata. Così possiamo leggere nel Libro del profeta Ezechiele (cfr 34,11-16).

Dunque, Gesù Buon Pastore difende, conosce, e soprattutto ama le sue pecore. E per questo dà la vita per loro (cfr Gv 10,15). L’amore per le pecore, cioè per ognuno di noi, lo porta a morire sulla croce, perché questa è la volontà del Padre, che nessuno vada perduto. L’amore di Cristo non è selettivo, abbraccia tutti. Ce lo ricorda Lui stesso nel Vangelo di oggi, quando dice: «E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore» (Gv 10,16). Queste parole attestano la sua ansia universale: Lui è pastore di tutti. Gesù vuole che tutti possano ricevere l’amore del Padre e incontrare Dio.

E la Chiesa è chiamata a portare avanti questa missione di Cristo. Oltre a quanti frequentano le nostre comunità, ci sono tante persone, la maggioranza, che lo fanno solo in casi particolari o mai. Ma non per questo non sono figli di Dio: il Padre affida tutti a Gesù Buon Pastore, che per tutti ha dato la vita.

Fratelli e sorelle, Gesù difende, conosce e ama tutti noi. Maria Santissima ci aiuti ad accogliere e seguire noi per primi il Buon Pastore, per cooperare con gioia alla sua missione.


Dopo il Regina Caeli

Cari fratelli e sorelle!

Venerdì scorso, a Santa Cruz del Quiché, in Guatemala, sono stati beatificati José María Gran Cirera e nove compagni martiri. Si tratta di tre sacerdoti e sette laici della Congregazione dei Missionari del Sacro Cuore di Gesù, uccisi tra il 1980 e il 1991, tempo di persecuzione contro la Chiesa Cattolica impegnata nella difesa dei poveri. Animati dalla fede in Cristo, sono stati eroici testimoni di giustizia e di amore. Il loro esempio ci renda più generosi e coraggiosi nel vivere il Vangelo. E un applauso ai nuovi Beati!

Esprimo la mia vicinanza alla popolazione delle Isole di Saint Vincent e Grenadine, dove un’eruzione vulcanica sta provocando gravi danni e disagi. Assicuro la mia preghiera e benedico quanti prestano soccorso e assistenza.

E sono vicino anche alle vittime dell’incendio di un ospedale per i malati di Covid a Baghdad. Fino a questo momento sono ottantadue morti. Preghiamo per tutti.

Vi confesso che sono molto addolorato per la tragedia che ancora una volta si è consumata nei giorni scorsi nel Mediterraneo. Centotrenta migranti sono morti in mare. Sono persone, sono vite umane, che per due giorni interi hanno implorato invano aiuto, un aiuto che non è arrivato. Fratelli e sorelle, interroghiamoci tutti su questa ennesima tragedia. È il momento della vergogna. Preghiamo per questi fratelli e sorelle, e per tanti che continuano a morire in questi drammatici viaggi. Preghiamo anche per coloro che possono aiutare ma preferiscono guardare da un’altra parte. Preghiamo in silenzio per loro.

Si celebra oggi in tutta la Chiesa la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, che ha come tema «San Giuseppe: Il sogno della vocazione». Ringraziamo il Signore perché continua a suscitare nella Chiesa persone che per amore di Lui si consacrano all’annuncio del Vangelo e al servizio dei fratelli. E oggi, in particolare, ringraziamo per i nuovi sacerdoti che ho ordinato poco fa nella Basilica di San Pietro… Non so se sono qui… E chiediamo al Signore che mandi buoni operai a lavorare nel suo campo e moltiplichi le vocazioni alla vita consacrata.

E ora saluto di cuore tutti voi, romani e pellegrini. In particolare, saluto i familiari e gli amici dei novelli sacerdoti; come pure la comunità del Pontificio Collegio Germanico Ungarico, che stamattina ha fatto il tradizionale pellegrinaggio delle Sette Chiese.

A tutti auguro una buona domenica. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

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