giovedì 17 ottobre 2019

Attacco turco in Siria, buttiamo la maschera di Chiara Zappa

Attacco turco in Siria, 
buttiamo la maschera 
di Chiara Zappa

Sull’invasione nella regione governata dai curdi imperversano gli slogan, 
ma al di là dell’indignazione nessuno si prende le sue responsabilità



La guerra sporca del presidente turco Erdoğan contro la regione autonoma proclamata dalle forze curde nel Nord della Siria ha sollevato reazioni di indignazione nell’opinione pubblica. E a buon diritto. Questo attacco, che come sempre accade sta provocando effetti drammatici sui civili, non potrà che aggravare l’instabilità dell’intera area, i cui equilibri mutevoli e delicatissimi sono influenzati da un’infinità di fattori interni, regionali e internazionali.

Gli slogan veicolati dai media, tuttavia, infarciti di una retorica che torna a sfruttare tristemente l’immagine delle “belle combattenti” curde (d’altra parte già in passato sui giornali avevamo letto della morte della “Angelina Jolie del Kurdistan”…), tendono a dare letture inesatte e versioni a senso unico di una situazione incredibilmente complessa e contradditoria, in cui a brillare per la sua chiarezza è solo l’incoerenza e la superficialità della politica internazionale, Europa in testa.

Certo è impossibile sintetizzare in poche righe tutti i fattori in gioco, eppure è importante cercare di capire alcuni punti della questione, per evitare di lasciarsi irretire da una bolla di propaganda pronta a sgonfiarsi appena i riflettori su quell’angolo di mondo diventeranno scomodi.

Cominciamo dai curdi. Per dire, prima di tutto, che non sono tutti uguali: i curdi siriani non sono quelli turchi né tantomeno quelli iracheni, gli unici che governano una regione autonoma e che con Erdoğan peraltro vanno d’accordo e concludono ottimi affari petroliferi. Le fratture interne al movimento curdo sono forti e non sono di oggi.

Non tutti i curdi, poi, sono ovviamente identificabili con le Ypg siriane e con il Pkk. Non solo perché la maggioranza tra loro – va da sé – non è costituita da combattenti, ma anche perché molti non condividono la scelta delle armi, mentre altri non si sentono in linea con l’ideologia progressista sostenuta da queste organizzazioni: non pochi curdi, che sono un popolo a larga maggioranza musulmana sunnita, si trovano più vicini, paradossalmente, all’approccio tradizionale e patriarcale caro al presidente turco. Un fatto che, peraltro, sottolinea l’importanza dell’azione di tante donne curde che attraverso l’azione di base, l’educazione, l’attivismo contro le molestie domestiche o le mutilazioni genitali femminili, stanno cercando di portare avanti un cambiamento nei loro contesti di vita.

Questa, insomma, non è una guerra tra islam conservatore e islam liberale.

Certo, il modello del Confederalismo democratico teorizzato dalle autorità del Rojava, di cui abbiamo già sostenuto il valore, resta una proposta di grande interesse nell’ottica di superare i confessionalismi e i settarismi che piagano la regione. Tuttavia, i fatti dimostrano che purtroppo questi settarismi sono tutt’altro che archiviati (ricordiamo solo i disordini seguiti alla sospensione delle lezioni in alcune scuole cristiane della provincia di Hassaké nell’agosto 2018, per la loro riluttanza a implementare i nuovi curricula scolastici imposti dalle forze autonomiste che prevedevano anche l’insegnamento obbligatorio della lingua curda in tutti gli istituti scolastici). Perché – ed è un altro equivoco che in questi giorni imperversa – il Nord della Siria non è solo “la terra dei curdi”. Questi ultimi non sono neppure la maggioranza a Qamishli, che dovrebbe essere la capitale della loro regione autonoma. E dove vivono arabi, assiri, armeni ortodossi e cattolici. Che sono già tutti rimasti, naturalmente, vittime dell’attacco turco, insieme.

Le vittime e i carnefici, dovremmo ricordarcelo, non si possono distinguere con un’etichetta. Parliamo allora dell’Esercito libero siriano, osannato “senza se e senza ma” da una delle fazioni dell’opinione pubblica finite in guerra nel pantano siriano: che dire oggi che lo stesso Esercito libero è al fianco di Erdoğan per annientare la ribellione curda? Forse solo una cosa: che dovremmo essere più coerenti nell’indignarci ogni volta che degli innocenti vengono sacrificati per calcoli politici o giochi di potere.

E veniamo al punto: l’attacco turco di questi giorni, dall’osceno nome di “Pace di primavera” (ma i nomi delle operazioni militari non brillano mai per decenza: ricordate una certa “Enduring freedom”, Afghanistan 2001?…) non è un fulmine a ciel sereno. Da anni Ankara, tra i suoi cambi di fronte repentini che hanno pesantemente influenzato l’andamento della guerra siriana, mantiene fisso un obiettivo: evitare la costituzione, ai suoi confini, di un’enclave governata da curdi vicini al Pkk. Un imperativo che nessun attore in campo ha mai immaginato di mettere in discussione. Non si tratta solo degli Stati Uniti, che ora se ne lavano pragmaticamente (e prevedibilmente) le mani, fedeli alla linea di disimpegnarsi dalle sabbie mobili mediorientali. È vero: i curdi delle Ypg hanno contribuito (insieme ad altri, e con la copertura aerea statunitense) a sconfiggere militarmente l’Isis in alcune importanti città. Lo hanno fatto perché sono grandi combattenti e perché loro stessi erano i primi ad essere in pericolo. Hanno svolto un ruolo importante (in mezzo alle ambiguità di tutte le guerre) che noi ora – si dice – dovremmo riconoscere.

Giusto. E allora dovremmo essere pronti, come Europa, ad alzare la voce e a non sottostare all’ultima edizione del solito ricatto turco: la minaccia di aprire le frontiere e lasciare che milioni di profughi siriani “invadano” il vecchio Continente. Sì, perché la grande questione dei nostri tempi, e il grande cavallo di battaglia dei populismi di ogni latitudine, restano i migranti. In Europa come negli Usa, come in Turchia.

La ragione principale per cui Erdoğan si è buttato in questa operazione sconsiderata in Siria è proprio elettorale. Nel Paese, la pressione di 3, 6 milioni di rifugiati siriani in un contesto di grave crisi economica è alla base del recente calo di consensi del presidente e del suo partito. Il folle piano di Ankara, che provocherebbe una letale destabilizzazione anche demografica dell’area e che sta già favorendo il revival delle fazioni jihadiste, è ora di deportare questi disperati in una zona opportunamente “liberata” appunto nella Siria settentrionale.

Il presidente Usa Trump l’ha definita “una cattiva idea”, la Lega araba ha indetto una riunione di emergenza per “discutere dell’aggressione turca in territorio siriano”. L’Europa, da parte sua, si scandalizza (il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker ha esortato la Turchia a “mostrare contegno”) ma si guarda bene dall’innescare un braccio di ferro che metterebbe in discussione l’accordo sui migranti siglato con la Turchia. Migranti che, anche in questo caso, diventano numeri buoni per la propaganda politica. Ma delle cui tragedie, a casa loro, a casa nostra o lungo la via della fuga, poco importa. Salvo piangere il tempo di qualche telegiornale davanti alle immagini di un bimbo riverso sulla spiaggia, senza vita, come il piccolo Aylan. Che – ironia della sorte – era proprio un curdo.

(Fonte: MondoeMissione)

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