mercoledì 3 ottobre 2018

Lampedusa, 5 anni dopo: cosa resta di quel 3 ottobre 2013?

Lampedusa, 5 anni dopo

Era ancora scuro, la notte tra il due e il tre ottobre 2013, quando quel barcone carico di profughi è arrivato a meno di un chilometro da Lampedusa. La prua era puntata verso la Spiaggia dei Conigli. Una grossa unità sbucata dal buio lo ha affiancato a distanza e poi ha girato tutt’intorno, disegnando in mare quasi un cerchio completo, per poi allontanarsi rapidamente. Per attrarne l’attenzione, qualcuno sul barcone ha dato fuoco a un telo intriso di benzina. Ne è scaturito un incendio, che ha spinto i profughi tutti sulla fiancata opposta, rompendo l’equilibrio già precario del natante sovraccarico e provocandone il ribaltamento. Ci furono 366 vittime. Una strage che ha cambiato di colpo, in milioni di persone, la percezione del problema immigrazione, con un fiume di impegni e promesse, a tutti i livelli, perché non ci fosse mai più un’altra Lampedusa per i disperati in fuga dal Sud del mondo verso l’Europa. Cinque anni dopo non resta granché di quella emozione e, soprattutto, di quegli impegni: le promesse sono diventate parole al vento. In occasione del quinto anniversario della strage, il Comitato Nuovi Desaparecidos ha diffuso il comunicato che pubblichiamo.

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Cinque anni fa, la tragedia di Lampedusa: 366 giovani vite spezzate a poche centinaia di metri dalla spiaggia, quando la libertà e un futuro migliore sembravano ormai a un passo.

Il quinto anniversario di questa tragedia arriva proprio all’indomani del nulla osta del Consiglio dei Ministri a un decreto che erige l’ennesima barriera di morte in faccia a migliaia di altri rifugiati e migranti come i ragazzi spazzati via in quell’alba grigia del 3 ottobre 2013. Non sappiamo se esponenti di questo governo e di questa maggioranza o, più in generale, se altri protagonisti della politica degli ultimi anni, intendano promuovere o anche solo partecipare a cerimonie ed eventi in memoria di quanto è accaduto. Ma se è vero, come è vero, che il modo migliore di onorare i morti è salvare i vivi e rispettarne la libertà e la dignità, allora non avrà senso condividere i momenti di raccoglimento e di riflessione, che la data del 3 ottobre richiama, con chi da anni costruisce muri e distrugge i ponti, ignorando il grido d’aiuto che sale da tutto il Sud del mondo. Se anche loro vogliono “ricordare Lampedusa”, che lo facciano da soli. Che restino soli. Perché in questi cinque anni hanno rovesciato, distrutto o snaturato quel grande afflato di solidarietà e umana pietà suscitato dalla strage nelle coscienze di milioni di persone in tutto il mondo

Che cosa resta, infatti, dello “spirito” e degli impegni di allora? Nulla. Si è regrediti a un cinismo e a una indifferenza anche peggiori del clima antecedente quel terribile 3 ottobre. E, addirittura, nonostante le indagini in corso da parte della magistratura, non si è ancora riusciti a capire come sia stato possibile che 366 persone abbiano trovato la morte ad appena 800 metri da Lampedusa e a meno di due chilometri da un porto zeppo di unità militari veloci e attrezzate, in grado di arrivare sul posto in pochi minuti.

La vastità della tragedia ha richiamato l’attenzione, con la forza enorme di 366 vite perdute, su due punti in particolare: la catastrofe umanitaria di milioni di rifugiati in cerca di salvezza attraverso il Mediterraneo; il dramma dell’Eritrea, schiavizzata dalla dittatura di Isaias Afewerki, perché tutti quei morti erano eritrei.

Al primo “punto” si rispose con Mare Nostrum, il mandato alla Marina italiana di pattugliare il Mediterraneo sino ai margini delle acque territoriali libiche, per prestare aiuto alle barche di migranti in difficoltà e prevenire, evitare altre stragi come quella di Lampedusa. Quel piano di ricerca e soccorso è stato un vanto per la nostra Marina, con migliaia di vite salvate. A cinque anni di distanza non solo non ne resta nulla, ma sembra quasi che buona parte della politica lo consideri uno spreco o addirittura un aiuto dato ai trafficanti. Sta di fatto che esattamente dopo dodici mesi, nel novembre 2014, Mare Nostrum è stato “cancellato”, moltiplicando – proprio come aveva previsto la Marina – i naufragi e le vittime, inclusa l’immane tragedia del 15 aprile 2015, con circa 800 vittime, il più alto bilancio di morte mai registrato nel Mediterraneo in un naufragio. E, al posto di quella operazione salvezza, sono state introdotte via via norme e restrizioni che neanche l’escalation delle vittime è valsa ad arrestare, fino ad arrivare ad esternalizzare sempre più a sud, in Africa e nel Medio Oriente, le frontiere della Fortezza Europa, attraverso tutta una serie di trattati internazionali, per bloccare i rifugiati in pieno Sahara, “lontano dai riflettori”, prima ancora che possano arrivare ad imbarcarsi sulla sponda sud del Mediterraneo. Questo hanno fatto e stanno facendo trattati come il Processo di Khartoum (fotocopia del precedente Processo di Rabat), gli accordi di Malta, il trattato con la Turchia, il patto di respingimento con il Sudan, il ricatto all’Afghanistan (costretto a “riprendersi” 80 mila profughi), il memorandum firmato con la Libia nel febbraio 2017 e gli ultimi provvedimenti di questo Governo. Per non dire della criminalizzazione delle Ong, alle quali si deve circa il 40 per cento delle migliaia di vite salvate, ma che sono state costrette a sospendere la loro attività, giungendo persino a fare pressione su Panama perché revocasse la bandiera di navigazione alla Aquarius, l’ultima nave umanitaria rimasta in tutto il Mediterraneo.

Con i rifugiati eritrei, il secondo “punto”, si è passati dalla solidarietà alla derisione o addirittura al disprezzo, tanto da definirli – nelle parole di autorevoli esponenti dell’attuale maggioranza di governo – “profughi vacanzieri” o “migranti per fare la bella vita”, pur di negare la realtà della dittatura di Asmara. E’ un processo iniziato subito, già all’indomani della tragedia, quando alla cerimonia funebre per le vittime, ad Agrigento, il Governo ha invitato l’ambasciatore eritreo a Roma, l’uomo che in Italia rappresenta ed è la voce proprio di quel regime che ha costretto quei 366 giovani a scappare dal paese. Sarebbe potuta sembrare una “gaffe”. Invece si è rivelata l’inizio di un percorso di progressivo riavvicinamento e rivalutazione di Isaias Afewerki, il dittatore che ha schiavizzato il suo popolo, facendolo uscire dall’isolamento internazionale, associandolo al Processo di Khartoum e ad altri accordi, inviandogli centinaia di milioni di euro di finanziamenti, eleggendolo, di fatto, gendarme anti immigrazione per conto dell’Italia e dell’Europa.

Sia per quanto riguarda i migranti in generale che per l’Eritrea, allora, a cinque anni di distanza dalla tragedia di quel 3 ottobre 2013, resta l’amaro sapore di un tradimento.

– Traditi la memoria e il rispetto per le 366 giovani vittime e tutti i loro familiari e amici.

– Traditi le migliaia di giovani che con la loro stessa fuga denunciano la feroce, terribile realtà del regime di Asmara, che resta una dittatura anche dopo la recente firma della pace con l’Etiopia per la lunghissima guerra di confine iniziata nel 1998.

– Tradito il grido di dolore che sale dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Italia e l’Europa da parte di un intero popolo di migranti costretti ad abbandonare la propria terra: una fuga per la vita che nasce spesso da situazioni create dalla politica e dagli interessi economici e geostrategici proprio di quegli Stati del Nord del mondo che ora alzano barriere. Tradito, questo grido di dolore, nel momento stesso in cui si finge di non vedere una realtà evidente: che cioè

“…lasci la casa solo / quando la casa non ti lascia più stare / Nessuno lascia la casa a meno che la casa non ti cacci / fuoco sotto i piedi / sangue caldo in pancia / qualcosa che non avresti mai pensato di fare / finché la falce non ti ha segnato il collo di minacce…” (da Home, monologo di Giuseppe Cederna.)

Ecco: ovunque si voglia ricordare in questi giorni la tragedia di Lampedusa, sull’isola stessa o da qualsiasi altra parte, non avrà alcun senso farlo se non si vorrà trasformare questa triste ricorrenza in un punto di partenza per cambiare radicalmente la politica condotta in questi cinque anni nei confronti di migranti e rifugiati. Gli “ultimi della terra”.

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I 368 MORTI RIMOSSI DAI RICORDI, 
CANCELLATI DALLA POLITICA

Nella Giornata nazionale per le vittime dell’immigrazione, è annegato nella memoria il dramma di 5 anni fa vicino alle coste dell’isola dei Conigli. Tranne che a Lampedusa. Dove il 3 ottobre resta una data fissa nel calendario dell’isola. E i morti nel Mediterraneo, dimenticati dal governo, continuano ad aumentare.


Cinque anni. Erano le 4 di giovedì 3 ottobre 2013. Erano a poche centinaia di metri da una delle spiagge più belle del Mediterraneo, l’isola dei Conigli. Qualcuno, a bordo di quella carretta a incipiente disastro e partita da Misurata, ha acceso una torcia per fare un po’ di luce. La fiaccola è finita nella plancia della barca, colma con oltre 500 persone. Prevalentemente eritrei e un po’ di somali. La paura fa spostare da un lato la gente. La barca si capovolge. E s’inabissa. È una tragedia: 368 i corpi recuperati; 155 i sopravvissuti i cui racconti sono raccapriccianti. Le loro testimonianze da brividi.

Per mesi la copertura mediatica trasforma quella pietra d’Africa, prima ignorata, in un luogo del pianto e poi in una sorta di avamposto della difesa nazionale ed europea. A 5 anni da quel naufragio, la pietas di quei giorni è annegata col ricordo. Il tempo dell’emozione, oggi, dura lo spazio di una flash news. Tranne che a Lampedusa. Il 3 ottobre (Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione) resta un punto fisso nella memoria degli isolani. Fa parte del loro calendario, come il 22 settembre la festa della Madonna di Porto Salvo.

Alla commemorazione pubblica, per la prima volta dal 2013, non sono attese autorità ufficiali. Solo quelle comunali. Poco importa. Perché la commemorazione più sentita e partecipata si svolgerà a pochi chilometri dal centro, nel santuario della Madonna di Porto Salvo. Appuntamento organizzato dalla parrocchia di San Gerlando dell’attivo don Carmelo La Magra, da Mediterranean Hope – progetto delle Chiese evangeliche in Italia – e dalla stessa Federazione delle Chiese evangeliche. Il tema è “Ero naufrago e mi soccorreste. Icone di umanità”, per ricordare i morti di quel naufragio, le migliaia di migranti che attraversano il Mediterraneo e le vittime di tutte le frontiere. L’adattamento darwiniano alla traversata del deserto, alla permanenza nei lager libici e, infine, all’attraversamento del mare non basta a dare a queste persone la dignità del diritto di restare nel “bel suolo italico”, tanto caro, ora, al ministro Salvini.

Ed è finita nell’oblio pure la responsabilità delle migliaia di morti nel Mare Nostrum. Perché nonostante le politiche repressive e gli accordi con la Libia, da gennaio 2014 al 20 settembre scorso sono stati oltre 17mila i migranti (dati Fondazione Ismu - Iniziative e studi sulla multietnicità) che hanno perso la vita o che risultano dispersi nelle acque del Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa.

Nonostante nel corso dell'ultimo biennio ci sia stato un considerevole calo degli sbarchi sulle coste europee rispetto agli anni passati, il tasso di mortalità è aumentato.

Infatti, come ci ricorda l’Ismu, le traversate sono sempre più pericolose e le operazioni di ricerca e soccorso in mare ad opera delle navi delle ong hanno subito diverse restrizioni di tipo legale e logistico.

Secondo le stime dell'Acnur, l’Agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione dei rifugiati, più di 1.600 migranti hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo nei primi 9 mesi del 2018, 21 persone ogni mille sbarcati.

In particolare, nei primi tre mesi del 2018 il tasso di mortalità tra coloro che partono dalla Libia diretti in Italia è salito a un morto ogni 14 persone, rispetto a un decesso ogni 29 persone nello stesso periodo del 2017.

E, a meno che non si tagli Lampedusa dalla carta geografica, molte delle imbarcazioni continueranno a fare rotta lì.

Perché nonostante i fari mediatici si siano spostati altrove, le carrette del mare (ora pare anche motoscafi veloci) continuano ad arrivare al molo Favaloro. In prevalenza tunisini. Ma non solo. Come ha denunciato il sindaco Totò Martello.
(fonte: NIGRIZIA)

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Lampedusa ricorda i 368 migranti che hanno perso la vita nel naufragio del 3 ottobre 2013. Iniziata due giorni fa, oggi si conclude la cerimonia per il quinto anniversario della giornata della memoria e dell’accoglienza con una marcia verso la Porta d'Europa, dove si è tenuto un momento di raccoglimento con Padre Mussie Zerai, Don Luca Camilleri e i superstiti del naufragio.
Il sindaco ha pronunciato parole forti: "... Il sistema deve essere solo uno: quello della verità... il rispetto delle regole... Le morti che sono successe a Lampedusa si vogliono cancellare e si vuole cancellare anche la nostra esistenza... Lampedusa è scomoda! ... Non è un reato il giorno della memoria, è stato approvato dal Parlamento ... Il messaggio che deve uscire da Lampedusa è uno: ricordo sì, perché non si può cancellare quello che è successo a Lampedusa, ma anche lotta, lotta per rispettare le idee, la democrazia e la libertà di tutti, non solo di una parte!"



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Cinque anni dopo il naufragio nelle acque del Mediterraneo, in cui il 3 ottobre 2013 non lontano da Lampedusa morirono 368 migranti, è ancora vivo il ricordo di quelle persone che sognavano di raggiungere l'Europa in cerca di un futuro migliore, lasciandosi alle spalle guerre, violenze, povertà. I superstiti furono 155, di cui 41 minori, quasi tutti non accompagnati. Oggi a Lampedusa e non solo si tengono celebrazioni per la V Giornata della memoria e dell'accoglienza.

L’udienza ai sopravvissuti

Poco meno di tre mesi prima di quella tragedia, l’8 luglio, Papa Francesco era stato sull’isola, nella sua prima visita fuori dai confini del Vaticano. Un rapporto profondo quello del Pontefice con il luogo simbolo della sofferenza di tanti migranti, provato anche dall’incontro che il 1° ottobre 2014 ebbe con una delegazione di sopravvissuti e familiari del naufragio del 2013, ricevuta in udienza in Vaticano: 37 persone del 'Comitato 3 ottobre', tutti eritrei, provenienti da diversi Paesi europei, dove nel frattempo erano stati accolti.

Le porte del cuore

Il Papa esortò alla vicinanza “nel silenzio”, pregando di fronte a tanta sofferenza.

La vita delle persone che devono migrare è dura, e quando alla fine per quelli che sono riusciti ad arrivare ad un porto che sembra sicuro sorgono cose anche durissime, porte chiuse, tante volte, e non si sa dove andare. Ci sono tanti uomini e donne qui in Italia che hanno il cuore aperto per voi. E’ la porta del cuore la più importante ad aprirsi in questi momenti. Io chiedo a tutti gli uomini e donne di Europa che aprano le porte del cuore.

Superare l’indifferenza

D’altra parte proprio da Lampedusa il Pontefice aveva denunciato la “globalizzazione dell'indifferenza”: “ci siamo abituati - aveva detto - alla sofferenza dell’altro”, ci è stata tolta “la capacità di piangere”. Di fronte a una certa “anestesia del cuore”, aveva pregato per l’accoglienza di “quelli che cercano una vita migliore”. Mettendo già in pratica le quattro azioni che, più tardi, in occasione della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2018, Francesco stesso avrebbe indicato: accogliere, proteggere, promuovere e integrare.

Mortalità mai così alta nel Mediterraneo

Eppure una ricerca dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) rivela che il tasso di mortalità lungo la rotta del Mediterraneo centrale non è mai stato così alto: nello scorso mese di settembre, il 20 per cento circa delle persone partite dalla Libia risulta essere purtroppo morto o disperso, cioè uno ogni cinque migranti che hanno lasciato il Paese nord africano.
(fonte: Vatican News)