mercoledì 3 ottobre 2018

Il pontificato di Francesco e la questione del “laicato”. Avanzamenti e impasse nella “parrhesia ecclesiale” di Andrea Grillo


Il pontificato di Francesco e la questione del “laicato”. Avanzamenti e impasse nella “parrhesia ecclesiale”
di Andrea Grillo

Pubblicato il 1 ottobre 2018 nel blog: Come se non




Nel maggio scorso sono stato a Porto Alegre, al bel Convegno organizzato dall’Istituto Humanitas Unisinos (IHU) sul tema della “Virada profetica” (svolta profetica) che Francesco ha introdotto nella vita ecclesiale, a partire dal 13 marzo 2013. Come sempre accade, un Convegno non è mai soltanto una mera rassegna di conferenze, ma è anche luogo di confronto e di approfondimento personale tra diverse prospettive di lettura: direi che in questo caso la “lontananza” era proporzionale alla “profondità”. Aver viaggiato quasi fino alla “fine del mondo” – l’Argentina non è troppo lontana da Porto Alegre – mi ha permesso di comprendere alcune cose nuove, a proposito di Francesco e della recezione che del suo pensiero si sta operando nel mondo. 
Pubblico qui di seguito la prima delle due conferenze che ho tenuto al convegno.
Il pontificato di Francesco e la questione del “laicato”. Avanzamenti e impasse nella “parrhesia ecclesiale”

“Ogni volta che incontro un clericale, divento anticlericale” (Francesco)

“L’esigenza prioritaria oggi all’ordine del giorno, infatti, è che tutto il Popolo di Dio si prepari ad intraprendere “con spirito” una nuova tappa dell’evangelizzazione. Ciò richiede «un deciso processo di discernimento, purificazione e riforma» …Questo ingente e non rinviabile compito chiede, sul livello culturale della formazione accademica e dell’indagine scientifica, l’impegno generoso e convergente verso un radicale cambio di paradigma, anzi – mi permetto di dire – verso «una coraggiosa rivoluzione culturale»[27]. In tale impegno la rete mondiale delle Università e Facoltà ecclesiastiche è chiamata a portare il decisivo contributo del lievito, del sale e della luce del Vangelo di Gesù Cristo e della Tradizione viva della Chiesa sempre aperta a nuovi scenari e a nuove proposte.”
(Veritatis Gaudium, 3)



Forse l’approccio migliore al tema del “laicato” nella missione della Chiesa, in relazione al pontificato profetico di Francesco e al suo compito di “cambio di paradigma” e di “rivoluzione culturale”, consiste precisamente nel rinunciare a questa categoria. Ovviamente, non si tratta di censurare un termine, ma di controllarne accuratamente l’utilizzo quando si voglia comprendere teologicamente che cosa è la Chiesa. Si tratta di una categoria sociologica, con cui è molto pericoloso pretendere di fare teologia. Perciò il congedo dalla categoria di “laico” è il compimento del cammino iniziato dal Concilio Vaticano II e che per 50 anni si è sviluppata, talora con una certa speditezza, più spesso con inerzia e pericolose amnesie. In effetti la categoria di “laicato” discende da una obiettiva e pericolosa “deriva clericale”: è nata ed è stata elaborata come “nomen infamiae”, è stata generata da (o, forse ha contribuito a generare) una “societas” che, essendo “perfecta”, era inevitabilmente “inaequalis”. Laico e laicato, come termini che possono essere impiegati “ingenuamente”, perpetrano in verità, nella Chiesa, anche nella Chiesa conciliare e post-conciliare, l’ombra lunga e insidiosa della “societas inaequalis”. A livello linguistico, ma anche a livello teorico e a livello strutturale, difendono una Chiesa irreformabile e assestata definitivamente, diremmo sacralmente, sulla differenza clericale. La prima riforma della Chiesa sta nell’abolire definitivamente la parola “laici” e “laicato”, guadagnando la “differenza” di funzioni all’interno di un’unica “comunità sacerdotale” (LG 11).

La Chiesa ha, invece,anzitutto un’altra differenza da custodire. La differenza che la Chiesa deve custodire non è quella tra laici e chierici, ma quella tra Dio e uomo: tale distinzione è, nella fede, una “differenza riconciliata”, che apre ogni uomo e ogni donna in Cristo alla figliolanza divina e alla fratellanza col prossimo. E per questo elimina ogni confusione e ogni opposizione tra Dio e uomo. Inaugura una esperienza di “fraternità” irriducibile alla legge, ma comprensibile solo nella grazia.

Dunque, a me pare che Francesco, proprio in quanto papa, abbia avuto il merito storico di aver introdotto formalmente – e direi plasticamente – un grande paradosso: per contestare la categoria di “laico” è sufficiente scoprire, riconoscere ed ammettere che il papa “non è anzitutto un chierico”. O meglio, pur essendo certamente ed evidentemente un “chierico” per formazione e per cultura, forse proprio per la sua natura “religiosa” di gesuita, si comporta, parla, pensa come un “non chierico”. Per questo viene riconosciuto “per istinto” dai “non chierici” e spesso viene frainteso – forse anche qui per istinto o per autodifesa – dai “suoi” chierici.

Qui debbo allora identificare in che senso la “missione della Chiesa” coinvolge radicalmente tutti i battezzati e le battezzate. Non perché costituiscano “il laicato” – che resta categoria sociologica con dubbie e pericolose pretese teologiche – ma in virtù del loro battesimo e della loro comunione eucaristica. Eppure questo passaggio, nonostante sia scritto ufficialmente nei testi del Concilio Vaticano II, resta un passaggio difficile e arduo, poiché riposa su “strutture” ancora profondamente “laiche” e “clericali”.

Infatti è evidente che nella Chiesa, come ci sono “chierici laicizzati”, ci sono anche “laici clericalizzati”. A tal proposito voglio raccontare un fatterello curioso, che mi è capitato alcuni anni fa. Stavo finendo di tenere una conferenza sul battesimo, vestito più o meno come oggi: ossia nella visione clericale “da laico”. Alla fine della conferenza un ascoltatore viene a salutarmi, mi dice di essere d’accordo con me, ma poi fa una obiezione per lui decisiva e dice: “sappia però che io sono contrario ai preti con la cravatta!” E io risposi di non avere nulla contro i preti con la cravatta, e che in quel caso anche lui poteva tranquillizzarsi, perché io non ero un prete! Lui rimase male. Avevo rotto il suo modello di “teologia del laicato”.

Al di là dell’episodio curioso e gustoso, io vorrei lavorare qui su due criteri di “identificazione” della “declericalizzazione” della Chiesa. E lo dico proprio cercando di uscire dalle categorie classiche. Intendo dire: nella Chiesa siamo tutti fedeli e poi ci sono “ministri” di vario grado. E tutti devono essere “laici”, ossia parte del popolo. Se qualcuno vuole stare “fuori dal popolo”, cade in una forma non “ministeriale”, ma “clericale” di identità. Questa riformulazione della “laicità” permette di identificare, con molta facilità, un “bestiario clericale” fatto certo di classici “colletti romani”, ma anche di “giacche e cravatte” e persino di “tailleurs e tacchi alti”.

Mi sono allora chiesto: come andare alla ricerca di “criteri” per identificare la lettura di questa “vocazione comune” di tutti i battezzati, che non sia catturata immediatamente nello “schema” di origine medievale, e di fortuna moderna, di opposizione“clero/laici”. Ho ritenuto di trovarne la chiave in un parola decisiva del pontificato di Francesco. Una parola non così evidente come “periferia” – che pure dice qualcosa della comune destinazione all’essere popolo di Dio in Cristo, morto in periferia – né come “misericordia” – che tutti indifferentemente debbono invocare e offrire, da figli maggiori verso un Dio prodigo di amore – né come “non-autoreferenzialità” – che è appunto la uscita da un modello di Chiesa che si identifica non col popolo, ma con i chierici, non con la uguaglianza, ma con la disuguaglianza, non con la fragilità, ma con la perfezione.

Non voglio, quindi, lavorare su queste categorie portanti, su cui altri potranno dire cose importanti, ma preferisco concentrarmi su una categoria che è apparsa più volte nelle “prese di parola” di Francesco, ma che pure, al di là delle occorrenze, ne dice una qualità profonda, quasi una cifra originaria, riconoscibile e toccante. Si tratta della categoria di “parrhesìa”. Potremmo dire: la missione della Chiesa scopre, nella parrhesia, una radicale comunione, una eguaglianza, che poi elabora le differenze in ragione e su istanza di questa identità di “eguali”.

Ma parrhesia è categoria che merita una elaborazione maggiore.

Per offrire una prospettiva in questo senso, mi lascio guidare da un maestro che potrà apparire piuttosto strano, quasi scandaloso: M. Foucault, negli ultimi due anni di corsi al Collège de France si è occupato in profondità proprio di questa categoria. L’ha studiata nelle fonti classiche e, proprio nella sua ultima lezione del 1984, anche nella tradizione cristiana. A me pare che, nel termine parrhesia possiamo trovare il “ponte” che unifica in Francesco la mistica e la politica, la cura del soggetto e l’ascesi del servizio. Sincerità, autenticità, eguaglianza, libertà e fratellanza, tutto insieme, esce dal termine classico, che appare, da questo punto di vista, provvidenziale per fare sintesi di ciò che Francesco indica come missione di tutti i cristiani. Va aggiunto, tuttavia, che Francesco sa custodire anche il senso “negativo” di parrhesia! Senza mai chiamarla così, evidentemente, Francesco reiteratamente ritorna su quella accezione del “dire tutto” e del “parlare totalmente” che prende il nome di “mormorazione” e di “chiacchiera”. Parrhesia è dunque la cifra di una “apertura” alla verità che struttura la “società aperta”, al cui interno la Chiesa deve trovare la propria dimensione profetica e testimoniale, senza correre il rischio di scambiare il “dire tutto” con il “chiacchierare”.

Voglio indicare qui lo schema del mio breve percorso in tre passi: inizio dalla considerazione della parrhesia nell’esame di Foucault, con i suoi risvolti soggettivi e oggettivi, strutturali e istituzionali (§.1); applico poi questa elaborazione alla “mens” di Francesco, che vuole una parrhesia non solo virtuosa, ma strutturale, non solo interiore, ma anche esteriore (§.2). Questo dovrebbe consentire di rileggere la “missione della Chiesa” come processo personale ed ecclesiale, come custodia di sé e carovana di popolo, come identità da elaborare e come alterità da custodire e onorare, come libertà e come fratellanza, come differenza dell’altro e come non indifferenza per l’altro (§.3).

1. Il rettangolo della parrhesia a partire da M. Foucault

La “parrhesia”, dunque. Al centro del rapporto con Cristo, che istituisce la compagine ecclesiale, come “comunità sacerdotale”, c’è una “parrhesia” che è, allo stesso tempo, libero dono di grazia e libera coscienza del soggetto. Insieme e in modo sorprendentemente non contraddittorio. Come una “polarità”, piena di tensione, e non come una contraddizione. Qui, a mio avviso, troviamo uno dei punti originali, e teoreticamente più interessanti, della “teologia di Francesco”, forse ispirata al pensiero “polare” di Guardini, ma anche segnata dalla storia dell’America e dalle evidenze culturali della cultura gesuita. Su questo “pinnacolo” alto e ardito, si colloca il magistero di Francesco, con una novità di toni e di movenze che davvero suscita stupore ammirato e sorpresa confortante. Finalmente, dal punto più alto (e più basso) della Chiesa, dalla più alta autorità, che è riconosciuta come massimo servizio. Francesco sa di poter essere “magister” – originariamente datore di doni – solo nella misura in cui si fa “minister” – recettore di doni. Egli sa di poter essere “magis” solo se riesce ancora ad essere “minus”.

In questa tensione, egli supera la contraddizione tra libertà di Dio e libertà dell’uomo. Sa che uomini e donne liberi non sono una minaccia, ma l’unica possibilità per la Chiesa di annunciare la “sovrana e inarrivabile libertà di Dio, della sua grazia, della sua misericordia”. Per questo abbiamo bisogno di difffidare non solo delle forme “apparenti” di libertà, ma anche delle forme “vuote o violente” di comunione.

Orbene, come possiamo pensare la libertà dell’uomo? Se non come “parrhesia”, come una disponibilità alla verità, alla sincerità, alla autenticità? Dobbiamo lavorare su questo termine, indagandone struttura e implicazioni, senza assumerlo soltanto nella sua accezione “retorica”, e inevitabilmente superficiale. Dobbiamo riconoscere che per essere davvero esposti alla “parrhesia” – ai suoi incanti e ai suoi pericoli – non possiamo permetterci una retorica della parrhesia.

Chi ha studiato più profondamente questo termine, sulla base dei testi antichi – pagani e cristiani – come dicevo è senza dubbio Michel Foucault. Che non è precisamente un “Padre della Chiesa”. Ma è un pensatore che può permetterci di entrare adeguatamente dentro il pensiero di Francesco perché ha dedicato gli ultimi anni di vita (morirà nel 1984, alla Salpetrière) a studiare la “parrhesia”, come attestano le edizioni dei Corsi al Collège de France degli anni 1981-1982, 1982-1983 e 1983-1984, dedicati rispettivamente ai temi: L’ermeneutica del soggetto, Il governo di sé e gli altri e infine Il coraggio della verità.

Ovviamente non avrò qui la possibilità di entrare nell’immensa costruzione filologica, storica e teoretica di questi corsi. Voglio solo assumerne alcune idee assai importanti per capire che cosa pensa Francesco del “cristiano” – senza usare il “nomen infamiae” di laico. Colui che vive la libertà della figliolanza rispetto al Padre e della fratellanza con Cristo e con i fratelli, nella Chiesa.

Foucault, in un passaggio memorabile del suo secondo testo, presenta una sintesi preziosa, che chiama il “rettangolo della parrhesia”. Ritengo sia utile seguirlo brevemente in questa esposizione dei 4 vertici di tale rettangolo, che egli presenta in questi termini

- Primo vertice del rettangolo: democrazia, eguaglianza di tutti i cittadini;

- Secondo vertice del rettangolo: il gioco della superiorità, dell’ascendente, della autorità;

- Terzo vertice del rettangolo: il dire-il-vero, il riferimento alla verità;

- Quarto vertice del rettangolo: il conflitto e il coraggio del conflitto.

Perciò Foucault può così sintetizzare la propria struttura con queste parole, che cito letteralmente:

“Condizione formale: la democrazia. Condizione di fatto: l’ascendente e la superirità di alcuni; Condizione di verità: la necessità di un logos ragionevole. Infine condizione morale: il coraggio, il coraggio nella lotta. La parresia, credo, è costituita da questo rettangolo con il vertice costituzionale, il vertice del gioco politico, il vertice della verità e il vertice del coraggio” (Il governo di sé, 169).

Quando ho letto per la prima volta questo testo mirabile, mi sono subito detto: ecco uno straordinario criterio per una profonda ermeneutica di Francesco di fronte alla vita cristiana. La sua domanda di “parrhesia” può essere interpretata in modo non semplicistico solo se è collocata all’altezza e nella profondità di questo rettangolo. Dove condizione formale e materiale, condizione oggettiva e soggettiva si intrecciano mirabilmente.

2. Il quadrilatero della traduzione della tradizione

Perché si dia “parrhesia”, dunque, non possiamo pensare semplicisticamente a “virtù del soggetto”, o, magari, a “stravaganze del soggetto sud-americano”!! La condizione di “parrhesia” è costitutiva del “cittadino cristiano”. E ha bisogno di “condizioni complesse” che devono essere onorate nella “società aperta”. La Chiesa è sfidata, all’interno di una tale società aperta, ad onorare tutte e 4 queste condizioni, per essere “esposta alla verità”.

Non è un caso, infatti, che il discorso di Foucault sulla parrhesia sia preceduto dalla analisi – come sempre acuta e illuminante – del famoso scritto kantiano sull’illuminismo, che prevede la “uscita dallo stato di minorità”. Anche la Chiesa, per Francesco, deve uscire dallo stato di minorità, che è la sua “autoreferenzialità”. Foucault, con il suo studio della parola parrhesia, ci permette di scoprire che la “società aperta” ha un rapporto con la parrhesia, ma che tale rapporto ha carattere complesso. Per questo rappresenta un criterio formidabile per rileggere il magistero di Francesco, che vuole “tradurre” la tradizione cattolica nella società aperta. Francesco sa che, sia pure con tutta una serie di abbagli e di svarioni, la società effettivamente è uscita dallo “stato di minorità”. A partire da Gaudium et spes questa “uscita” non è più identificabile con il “peccato originale della modernità”. Poi, con Dignitati Humanae, abbiamo saputo riconoscere persino la libertà di coscienza come parte della rivelazione cristiana. Quindi, per parlare ad una tale società la Chiesa non può più ammantarsi delle vesti della “societas perfecta” e della “societas inaequalis”. Per questo può diventare “sincera” – può essere ancora capace di “parrhesia” – soltanto alle condizioni specificate dal “rettangolo” presentato da Foucault. Proviamo ad esaminare brevemente questo “rettangolo” della parrhesia ecclesiale:

a) La condizione formale della parrhesia: la Riforma della Chiesa. La uscita da una società chiusa e la costruzione di una società aperta è, da 200 anni, una provocazione grande per la Chiesa. La Chiesa aveva “imparato a camminare” nelle forme della amministrazione, della giurisdizione e dell’esercizio della autorità tipiche dell’ancien regime”. La Riforma della Chiesa è oggi anzitutto il riconoscimento di una “complessità della autorità”, che richiede “procedure complesse” per non smentire l’approccio al reale che la “libertà di coscienza” ha introdotto negli ultimi 200 anni nella esperienza del mondo e della Chiesa stessa.

b) La condizione politica della parrhesia: Parola e sacramento come “auctoritates” e come “ascendenti”. La differenza, ecclesialmente, sta sempre “al di qua” e “al di là” dei soggetti implicati. La gestione dei “fatti ecclesiali” deve guadagnare una trasparenza e una elasticità in cui il centro stia, ripeto, prima e dopo, citra e ultra, non “in sé”. La Chiesa “per altro”, non “per sé” è anche, inevitabilmente, una “teoria di politica ecclesiale”.

c) La condizione di verità della parrhesia: la incompletezza della dottrina e della disciplina. Tutta la dottrina e tutta la disciplina “accompagnano” alla verità, che sta nella “esperienza del Mistero” e nella “esperienza degli uomini”. La “esposizione alla verità” è principio di fedeltà e di rigore, ma impone una inquietudine, una incompletezza e una immaginazione sempre vive.

d) La condizione morale della parrhesia: conflitto e coraggio della testimonianza. Parrhesia non è mai una condizione “garantita”. Ha sempre bisogno di un atto di coraggio, di una entrata in conflitto, di una lotta necessaria alla testimonianza. Il coraggio del confronto, anche dello scontro, permette una apertura maggiore e una autentica esposizione al vero.

3. Il popolo di Dio e una Chiesa che riscopre di “avere autorità”

Ciò che ho provato qui ad illustrare, e che verrà ultimamente esemplificato, non è privo di ostacoli. Le Sfide non mancano. Ognuno di questi “vertici” del rettangolo ha incontrato e tuttora incontra resistenze e fatiche. Proviamo a scoprire la difficoltà con cui noi, con Francesco, facciamo fatica a uscire dalla palude. E lo farei considerando un evento “non ecclesiale”, come il 68, rispetto a cui la Chiesa ha reagito e si è mossa anche profeticamente, ma è rimasta anche traumatizzata, elaborando reazioni di chiusura e di blindatura assai rischiose, che oggi sembrano finalmente in crisi.

Siamo a 50 anni dal ‘68. Per comprendere che cosa è successo nel mondo e nella Chiesa, a partire dal 1968, vorrei cominciare dalle parole di un caro collega americano, il compianto abate e prof. Patrick Regan. Egli raccontava di essere giunto dagli USA a Parigi, per studiare liturgia, proprio nell’anno 1968. E di aver assistito ai primi “moti” del 68 parigino, con lo stupore e la meraviglia di un americano, che stava vivendo nello stesso anno l’assassinio di Martin Luther King. La prima cosa che il 68 ci consegna è infatti la progressiva e parallela globalizzazione e differenziazione delle culture. E, in effetti, al centro del 68 emerge una “esperienza di libertà” che, sintetizzata in una battuta, assomiglia molto al dogma trinitario, applicato però ad ogni uomo: “tutti sono uguali e ognuno è diverso”. Questo è anche, in forma brevissima, e certo non priva di problemi, una sorta di carta di identità di quella che chiamiamo “società aperta”. La società appare “aperta” – e non più chiusa – se ognuno può essere se stesso “incondizionatamente”. Questo è il sogno. La autorità della libertà diventa massima, mentre la libertà della autorità diventa minima. Ecco il punto di partenza della società differenziata, secolarizzata, complessa.

Nonostante la sua storia del XIX e XX secolo, la Chiesa cattolica è riuscita, in qualche modo, ad anticipare il ‘68. Tra gli anni 59-65, sotto lo stimolo potente prima delle profezie vivaci di Giovanni XXIII e poi delle narrazioni ispirate del Concilio Vaticano II, introduceva nella propria disciplina – e forse ancor più – nella propria dottrina una “prospettiva inaudita”. Il Concilio Vaticano II, infatti, non è anzitutto un atto di “riforma”, ma è la percezione e la espressione di una forma più elementare e più radicale di Dio e dell’uomo, di Cristo e della Chiesa, della verità e della carità.

3.1. Il Concilio come “esperienza del mistero”

Se leggiamo i testi del Concilio Vaticano II, soprattutto le 4 Costituzioni, ma anche i Decreti e le Dichiarazioni, scopriamo che al centro vi è il delinearsi di una nuova esperienza del mistero di Dio. Rinunciando sia a “formulare nuovi dogmi”, sia a “condannare nuovi abusi”, il Concilio si converte dal magistero negativo a quella positivo, e “racconta” il Mistero del Dio di Gesù Cristo nella esperienza del culto, nella relazione alla Parola, nella struttura della comunità ecclesiale e nella chiesa che vive in rapporto col mondo. Le costituzioni conciliari, avvalendosi di linguaggio più opportuni, rinunciano a definire e preferiscono “ri-narrare” 4 punti di partenza, nella loro diversità e nella loro inesauribilità. La “indole pastorale” che caratterizza il Vaticano II è precisamente questo: scoprire che l’accesso alla “sostanza della antica dottrina del depositum fidei” può avvenire nella “riformulazione dei suoi rivestimenti” e che questa differenza incolmabile non è un limite, ma una virtù della tradizione. Questa differenza apre, necessariamente, alle “riforme” in ognuno di questi ambiti. Riforma liturgica, riforma nel rapporto con la Parola, riforma nella strutturazione della esperienza ecclesiale e riforma nel rapporto con il mondo.

3.2. Il Concilio come “esigenza di riforma”

Come è evidente, su ognuno di questi 4 ambiti, nella loro comunanza di fonte, ma anche nella loro differenza di forme, si è sviluppato un processo di riforma che ha conosciuto fasi alterne e tensioni complesse. Sicuramente la liturgia è stata la più rapida nel proporre un proprio volto rinnovato, in cui la valorizzazione della eguaglianza e della differenza dei soggetti ecclesiali poteva essere finalmente concretizzata. Poco si è riflettuto sull’impatto che su questa “logica di riforma” hanno portato non soltanto le singole costituzioni, ma anche il Decreto Dignitatis Humanae, con il suo storico riconoscimento della “libertà di coscienza” come patrimonio comune non solo di tutta la cristianità, cattolicesimo compreso, ma anche al servizio di tutta la umanità. Pensare che “partire dalla coscienza del soggetto” sia anzitutto un rischio è la eredità di un mancato ripensamento del Vaticano II e dei suoi innegabili rapporti con la elaborazione dell’esperienza anche ecclesiale all’interno di una società aperta. Nel momento in cui si ammette il principio di libertà di coscienza la società e la chiesa “si aprono”. Ciò le rende più ricche e più complesse, più fragili e più audaci.

3.3. La grande resistenza al Concilio e il paradosso della “rinuncia alla autorità”

Ma la profezie conciliare era, come tutte le profezie, esposta al discredito e alla diffidenza. I profeti di sventura, evocati nel discorso di inizio del Vaticano II, da 66 anni sono pronti alla chiamata alle armi e alla organizzazione della resistenza. Fantasmi antimodernistici, interessi di immobilismo, alleanze con gli interessi più bassi hanno avuto, per lunghi tratti, una influenza pesante. Non hanno mai del tutto frenato il processo di riforma, ma l’hanno rallentata, svuotata e insultata. Come se riformare significasse tradire. Il “modulo” più fortunato di tale resistenza è stato messo a punto tra gli anni 80 del secolo scorso e gli anni 10 del nostro secolo. E’ un modulo capovolto rispetto al famossisimo “la fantasia al potere” di marca sessantottina. Esso pretende una Chiesa il cui potere sia del tutto privo di fantasia. Anzi, in cui il potere neghi se stesso e si impedisca ogni autorità, e quindi ogni possibile riforma. L’unica cosa che si è riformata è stato il codice, perché una riforma fosse impossibile. Nel corso di questi tre decenni ogni questione è stata affrontata con questa riserva: solo gli antichi, i medievali e i moderni avevano una autorità. Noi no. La Chiesa è stata vittima di un modello capovolto rispetto a quello del 68: forse ne è rimasta segnata, bruciata, traumatizzata. E per non ammettere la positività presente in quel modello che la metteva in crisi, ne ha assunto uno che l’ha radicalmente mortificata. Alla ingenuità mondana di un potere senza mediazioni, così come sognato dagli ideali del 68, si è contrapposta la pretesa di una mediazione senza autorità, che ha paralizzato ogni istanza di riforma, arrivando, alla fine, a deligittimare pesantemente lo stesso inizio conciliare.

3.4. Il ritorno al Concilio e il rilancio dell’ “esercizio della autorità”

Con l’arrivo di papa Francesco diversi fattori sono cambiati strutturalmente. Da un lato un papa non europeo non ha il complesso di superiorità della autorità sulla libertà e per questo può stare in modo più sciolto nella vicenda ecclesiale post-sessantottina. D’altra parte Francesco ha, nei confronti del Concilio Vaticano II, un rapporto genealogicamente diverso. Mentre i suoi predecessori – tutti, da Giovanni XIII a Benedetto XVI – erano stati “padri conciliari” e quindi avevano nei confronti del Concilio tutte le ragionevoli apprensioni che i padri hanno verso i figli (forse scapestrati e forse anche degeneri), Francesco è il primo papa “figlio del Concilio”. Questo dipende da dati elementari, che riguardano la sua biografia ecclesiale: J. M. Bergoglio è diventato prete l’anno dopo il 68, a 4 anni dalla chiusura del Concilio. Questo gli ha consentito di “star fuori” da ogni senso di responsabilità verso il Concilio, che è per lui l’aria che ha respirato sempre, fin dagli anni della sua formazione. Questa condizione di favore ha rilanciato la “autorità ecclesiale”, che ora non si paralizza di fronte alla storia, ma entra in dialogo e in ascolto della vita dei battezzati e provvede a tradurre la tradizione in forme nuove: per quanto riguarda la evangelizzazione, la cura del creato, la famiglia, le forme ministeriali, siamo di fronte a un “inizio di un inizio”, che estrae il disegno conciliare dal congelatore e ne riconfigura possibilità, necessità e urgenze. E’ un inizio.

3.5. La persistenza di piccole “inerzie” anche nel magistero di papa Francesco

Nel testo programmatico di questo pontificato – Evangelii Gaudium – troviamo una potente ripresa dello stile e della dinamica conciliare. La Chiesa in uscita e la conversione missionaria della pastorale esigono un profondo ripensamento della tradizione. Per questo la categoria centrale per pensare la Chiesa risulta quella di “popolo di Dio”, in piena fedeltà a LG e agli sviluppi più convincenti dei decenni post-conciliari. Nell’impianto della Esortazione apostolica, che risente appunto di questo grande slancio e spirito di riforma, la parte meno convincente appare, però, proprio quella che chiude il II capitolo, precisamente ai nn. 102-109. E’ una sezione che sotto il titolo generico “Altre sfide ecclesiali” affronta questioni decisive come “laici, donne e giovani”. Ma lo fa con categorie e con un approccio diverso dal resto del documento. Quasi in modo minore, senza slancio, più preoccupata di conservare quel che c’è che di aprirsi ai “nuovi paradigmi” necessari per leggere profeticamente questi “soggetti” come “titolari di annuncio del vangelo”, piuttosto che come semplici destinatari. E’ un fatto singolare, ma dimostra in modo eloquente quanto forte sia la tentazione di “autoreferenzialità”, anche all’interno di un documento così aperto e così profetico. L’uso stesso del termine “laici” segnala uno scivolamento della profezia nella “amministrazione”. Su laici, donne e giovani vale quanto EG scrive nei suoi primi numeri: “Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. Ora non ci serve una « semplice amministrazione ».Costituiamoci in tutte le regioni della terra in un « stato permanente di missione »” (EG 25)

3.6. La riforma della chiesa, 50 anni dopo

La “Chiesa immobile” è stato l’ideale di ogni antimodernismo ecclesiale. A me pare, tuttavia, che alcuni segni decisivi mostrino come il ripensamento della tradizione si sia rimesso in moto. E per farlo ha rimesso in gioco la natura “partecipata” della liturgia, la verità “comunionale” della Chiesa, la “ricca narrazione” della Parola e la preziosa relazione con mondo, come luogo in cui lo Spirito parla e deve essere ascoltato. La radice di ogni riforma, che certo comporta delicati processi di trasformazione istituzionale, consiste in questa nuova trascrizione della esperienza di fede. La condizione della “società aperta” può essere considerata non solo un danno, ma una opportunità per la Chiesa solo se alcune nuove evidenze maturate a partire dal ‘68, sono penetrate anche nella consapevolezza della compagine ecclesiale. Se, come si ripete, Francesco non può essere definito un liberale, ma piuttosto un radicale, tale può essere solo declinando il Vangelo e interpretando la autorità episcopale con una nozione di libertà e con una passione per l’altro che ha imparato anche dalla fantasia del 68. Altrimenti, senza il 68, come avrebbe potuto dire al Collegio degli Scrittori della Civiltà cattolica, che le tre caratteristiche fondamentali del teologo di quella rivista debbono essere: inquietudine, incompletezza e immaginazione? Per parlare così, per permettersi una tale parrhesia, egli deve aver considerato il 68 non solo come un pericolo o come una perversione, ma anche come una occasione di crescita e come un kairòs per la tradizione ecclesiale.

Anche sulla base di queste ultime parole, per ripensare in radice il “popolo di Dio” che è la Chiesa dobbiamo rinunciare teologicamente e pastoralmente al termine “laico-laicato”. Laico è terminologia burocratica ecclesiale, dipendente da una lettura sociologica inadeguata, che proietta irrimediabilmente una prospettiva clericale sulla Chiesa e la assume come “normale”. Io non sono un “laico”. Io sono un uomo, un cittadino e un cristiano cattolico-romano. Per far entrare questa terminologia elementare nella Chiesa dobbiamo rilanciare e rinvigorire quella sana inquietudine, quella avveduta incompletezza e quella fervida immaginazione con cui sempre è progredita la storia degli uomini e delle donne, quando hanno saputo riconoscere che la grazia di Dio vuole la loro libertà e hanno saputo vedere limpidamente, nella loro libertà, il volto di un Dio prodigo di misericordia. Nell’insistito annuncio di un tale Dio, papa Francesco, prima come cristiano comune e poi anche come Vescovo di Roma e Papa, promuove il superamento del “laicato” e contribuisce al riconoscimento del popolo di Dio come “societas aequalis”. Per questo è anzitutto parte della sua Curia a risultare sorda e indifferente a questo progetto, che fa progredire un “nuovo paradigma” di Chiesa solo a patto di saper mettere in discussioni convenzioni tanto antiche e radicate da apparire tradizioni intoccabili e persino “ispirate”.