martedì 31 gennaio 2017

Un magistero capace di autocritica: dallo “stand by” al “play” di Andrea Grillo


Fin dall’inizio era chiaro: di fronte alla ripresa della grande svolta conciliare, che papa Francesco ha portato nello stile di pensiero e di pratica ecclesiale, e di cui la Chiesa aveva il giusto “presentimento”, ci sarebbe stata una non piccola resistenza, soprattutto da parte di chi si era illuso di poter far dimenticare il Concilio, di normalizzare la curia, di assolutizzare il massimalismo morale e il giuridismo canonistico.

Per questo ho letto con molto interesse e con sintonia ciò che ha scritto alcuni giorni fa Luca Diotallevi, sul “Foglio”. Con ragione sosteneva che anche oggi serve un pensiero all’altezza, servono decisioni strategiche, serve un responsabile esercizio della autorità; non serve la retorica di chi parla di “uscita” e spranga porte e finestre; non serve la piaggeria bergoglista, tanto consensuale quanto vuota.

Francesco e il Concilio

Perciò credo sia importante valorizzare un punto fondamentale del pontificato di Francesco: ossia la ripresa di una continuità strutturale con il processo di “ressourcement” e di “aggiornamento” introdotto nello stile ecclesiale da parte dei grandi documenti del Concilio Vaticano II.

Qui dobbiamo essere molto chiari, senza lasciarci distrarre dal fumo di sbarramento o dalla miopia di analisi. Quando si è collocato su questa via apertamente e inequivocabilmente conciliare, Francesco ha dovuto – inevitabilmente – prendere le distanze da toni, temi e accenti che il magistero aveva assunto non solo “prima del Concilio”, ma anche “dopo il Concilio”. In effetti, a partire dalla metà degli anni 80, fino al primo decennio del nuovo secolo, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, abbiamo potuto assistere al prevalere – non uniforme, ma assai pesante – di una forte discontinuità con il Vaticano II: di fronte a questi sviluppi di più di 30 anni di “recezione mancata” del concilio, la ripresa voluta da Francesco appare inevitabilmente come una improvvisa accelerazione.

Vaticano II: dallo “stand by” al “play”

Ma si tratta di un effetto ottico: dopo un così lungo periodo in cui il film del Concilio era stato ridotto a “slow motion” o addittura a “stand by”, quando Francesco ha schiacciato il “play” e le immagini sono tornate a scorrere con naturalezza, molti hanno esclamato “ci sembrava di sognare”! La realtà ecclesiale era talora tanto diversa, che il Concilio sembrava essere diventato un”sogno”.

Il punto su cui vorrei soffermarmi è allora questo: tale “differenza di passo” – che è solo continuità fedele al passo degli anni 60/70 – con quali criteri è stata letta? Si osservano soprattutto due reazioni: quelle impostate al pensiero “pre-anti- conciliare” – che parlano apertamente e senza alcun ritegno di modernismo, relativismo, protestantizzazione – e quelle “preter-conciliari”, che ragionano come se il Concilio non ci fosse stato e utilizzano criteri di discernimento vecchi, rozzi o errati addirittura.

Ma è interessante che il papa stesso, insieme alla stragrande maggioranza della Chiesa che cammina con lui, sa bene che questo passaggio era e sarà inevitabile.

Amoris Laetitia riprende Gaudium et Spes

La cosa è stata espressa nel modo più chiaro in alcuni numeri di Amoris Laetitia, il cui valore va al di là della semplice “pastorale familiare” e riguarda in generale la impostazione di tutta la pastorale e dello stesso rapporto tra Chiesa e mondo. Potremmo quasi dire che in questi numeri iniziali e finali della Esortazione il magistero episcopale e papale riprende la lezione di GS e la rilancia per il presente e per il futuro, oltre e contro tutti i tentativi di dimenticarla, di rimuoverla e di anestetizzarla.

Proviamo a farne una piccola rassegna sintetica:
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Per tutte queste ragioni non era evitabile una reazione stizzita da parte di chi continua a pretendere che il Magistero resti vincolato sine die ai suoi errori di tiepidezza e di rimozione post-conciliare. Come se quello che abbiamo detto e scritto ufficialmente dal 1980 al 2010 dovesse restare per sempre vincolante, nei secoli dei secoli…

Continuità col Concilio, dopo la rimozione

A questo non si oppongono gli slogan, né soltanto i “gesti”: sono i testi del Vaticano II che oggi tornano a vivere e ad operare, dopo un congelamento dovuto a paura e a opportunismo. Questa primavera, tuttavia, ha bisogno anche di testi e di pensieri all’altezza. Quelli che lo Spirito ha già saputo suscitare nei pastori e quelli che attende anche dai teologi, che possono pensare in grande la eredità conciliare in tutte le sue gamme e sfumature.

Il clima creato da Francesco dispiace solo a chi ha paura della nostra tradizione migliore, e vuole restare abbarbicato soltanto agli scheletri del passato. Chi vuole la continuità con il Vaticano II, trova oggi ampie praterie di pratica e di pensiero, aperte e disponibili. Chi vuole una ermeneutica della rottura rispetto al Concilio, si arrocca nel silenzio o si fascia nella cappa magna, ironizza in modo cinico o confida nello scorrere del tempo. Come se il tempo potesse dar ragione a chi lo nega! Come se lunghi decenni di “teologia d’autorità” con pochissimo spazio per la ragione vera – in alcuni campi strategici come la morale e la liturgia – non fossero destinati a produrre tanti soldatini obbedienti e anche qualche mostro! Che ora dobbiamo tenere a bada, e anche consolare, sia come soldati che come mostri. Dando il gusto della libertà ai primi e il senso della misura ai secondi.

Tuttavia, nonostante tutto ciò, il ritorno autorevole del Concilio Vaticano II esige una recezione esattamente come 50 anni fa. Quello che sembrava perduto non è perso affatto. Ma partecipare di questo dono rinnovato non è cosa poco esigente: richiede una disponibilità alla conversione e una capacità di preghiera, un’arte dell’ascolto e una forza nella parola che metteranno tutti a dura prova. Anche questo nostro tempo di grazia è pur sempre un torchio: perché l’oliva produca olio – e non solo morchia – occorre lavoro e pazienza, audacia e preghiera. Come sempre.


Leggi anche l'articolo di Luca Diotallevi a cui si fa riferimento nel testo di Grillo:È vero, la dottrina non basta, ma anche il bergoglismo serve a poco


“Kemioamiche” la lotta delle donne contro il cancro


La lotta delle donne contro il tumore al seno al centro di un docureality che diventa anche musical. Nasce con questo obiettivo “Kemioamiche”, programma in sei puntate prodotto da Kimera Produzioni per Tv2000 e Real Time, presentato martedì 31 gennaio nella sala multimediale del Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma.
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Ne parliamo col Professore Riccardo Masetti, direttore del centro di senologia del Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma e presidente di Komen Italia Onlus e con Chiara Salvo, autrice e produttrice della serie.
Ascolta l'intervista a Radio Vaticana: Le Kemioamiche del Gemelli


“Kemioamiche è un coming-out”. Chiara Salvo parla con trasporto ed energia delle piccole e grandi battaglie quotidiane vissute dalle protagoniste di Kemioamiche, docu-reality con inframezzi musicali in partenza dal 4 febbraio su Real Time e Tv2000 alle 22.10, in occasione della Giornata mondiale contro il cancro. Nel programma, con tatto e sensibilità, si racconta la lotta di nove donne, in cura presso il Policlinico Gemelli di Roma, che devono affrontare un tumore al seno. In ciascuna delle sei puntate previste c’è spazio in egual misura per la sofferenza, per l’amore, per il dolore, per l’amicizia, per la voglia di farcela a dispetto di una malattia che non vuole fare sconti a nessuno. Su TvZap Chiara Salvo, autrice di Kemioamiche, si sofferma sui temi del programma con la serenità di chi sa cosa vuol dire combattere in prima linea...

“Queste donne sono eccezionali - racconta Chiara Salvo -. Si sono fatte riprendere mentre si facevano tagliare i capelli cortissimi prima di indossare la parrucca per affrontare la chemioterapia che, e le protagoniste lo sottolineano con forza, salva la vita e si può affrontare”.

Guarda il video con l'intervista a Chiara Salvo

“Con questo progetto sfidiamo tutti i tabù - dice Paolo Ruffini -. Trovare un gruppo di persone che racconta il male e la possibilità di uscirne con così tanta forza di linguaggio ci ha fatto pensare che fosse non una scommessa realizzare questo progetto, ma assolutamente una cosa giusta e naturale da fare”.

Guarda il video con l'intervista a Paolo Ruffini


Quella lezione dell'antica Roma di Maurizio Bettini

Quella lezione dell'antica Roma 
di Maurizio Bettini

«Alla domanda "chi è il vero romano", il mito della fondazione di Roma forniva la risposta seguente: "uno straniero, cresciuto in una terra lontana, che ne ha portato con sé una zolla per mescolarla con quelle degli altri, così come con gli altri si è mescolato lui stesso"».  

Come si sa i quattro nonni dell’attuale presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non erano nati in America, ma in Europa. Di conseguenza il fatto che fra i primi provvedimenti presi da un presidente nipote di immigrati ci sia proprio un blocco dell’immigrazione suona paradossale. Tanto più se questo avviene in un paese come gli Stati Uniti nel quale, come in questi giorni sempre più spesso si ripete, tutti gli abitanti sono in definitiva degli immigrati o discendenti di immigrati. I bostoniani, che vantano come antenati i protestanti inglesi guidati da John Winthrop, di per sé non sono diversi dai latinos appena approdati alle periferie di Los Angeles: vengono comunque tutti “da fuori”.

Chi è dunque il “vero” americano, quello dell’America first, che ha il diritto di vivere sicuro dentro i “suoi” confini? Difficile rispondere a questa domanda. Forse qualcuno potrebbe sostenere che i “veri” americani sono in realtà solo i nativi che i coloni europei sterminarono o chiusero nelle riserve. Se non fosse, però, che anche loro sono giunti là dove ora si trovano venendo ugualmente “da fuori”.

Apache e Navaho, per esempio, ossia le popolazioni che vivono nel sud ovest degli Stati Uniti, provengono in realtà dall’Alaska; e dopo un viaggio di qualche migliaio di chilometri si sono stanziati nei territori attuali più o meno nel periodo in cui Colombo sbarcava nel “nuovo” continente. Tutto questo per dire che la risposta alla domanda «chi è il vero x?» — quando a x si sostituisce un sostantivo come “americano”, “italiano”, “francese” … — può ricevere solo risposte di tipo cinico o opportunistico se si è in campagna elettorale; oppure risposte di tipo più meditatamente giuridico se il discorso riguarda non il problema dell’etnia, della cultura o della religione, ma quello della cittadinanza. Esiste però una terza possibilità: che a questa domanda si dia una risposta di tipo mitologico.

È quanto fecero gli ateniesi nel quinto secolo a. c., dando vita a quel mito che porta il nome di “autoctonia”: secondo il quale gli abitanti dell’Attica sarebbero stati direttamente generati dalla terra su cui abitavano, senza alcuna mediazione. Questa mitica razza vantava naturalmente anche i propri antenati: si trattava di re che avevano per metà corpo di serpente, cioè l’animale più ctonio, più terrestre che si conosca. I cittadini ateniesi del V secolo, insomma, si presentavano come i “veri” ateniesi per il semplice motivo che quella terra non era stata mai abitata da nessuno fino al momento in cui essa stessa, la terra, si era decisa a partorire i propri abitanti.

L’autoctonia ateniese era ovviamente una favola, non solo perché la terra non ha mai partorito nessuno, ma perché anche gli abitanti dell’Attica erano venuti “da fuori” in tempi più o meno recenti. Questo mito però venne abilmente propalato attraverso i mezzi mediatici di allora, soprattutto discorsi pubblici e immagini che circolavano dipinte sui vasi; e l’immagine degli ateniesi, che in quegli anni combattevano contro gli spartani, ne uscì rafforzata, dentro e fuori le mura della città.

Atteggiandosi a “nati dalla terra”, infatti, essi potevano accreditarsi come uomini di cui non era possibile mettere in discussione la eugéneia, la “buona nascita”, visto che non si erano mai mischiati con altri popoli; una stirpe che amava come nessun’altra la propria patria (come si potrebbe non amare la propria “madre”?) e che soprattutto aveva raggiunto la civiltà da sola e prima di tutti gli altri. Attraverso il mito dell’autoctonia gli ateniesi erano dunque riusciti a dare una risposta alla difficile domanda «chi è il vero x?». Nello stesso tempo, però, essi avevano risolto una volta per tutte anche il problema degli immigrati e della loro posizione nella città.

Vero ateniese, infatti, poteva essere considerato solo il figlio di genitori entrambi ateniesi, ossia chi per via di sangue discendesse da quella stessa terra su cui abitava. Di conseguenza costui era anche l’unico a poter usufruire della qualifica di cittadino e l’unico che aveva il diritto di sedere in assemblea: luogo magico della democrazia ateniese. Tutti gli altri, gli stranieri che pur vivevano o lavoravano in città, ne erano esclusi. Né avrebbero mai potuto aspirare a diventare cittadini di Atene — non erano mica “autoctoni”.

Mito per mito, però, ce n’è un altro che ha ugualmente cercato di rispondere alla domanda «chi è il vero x?»: ma che preferiamo di molto a quello escogitato dagli ateniesi. Ci viene da Roma. Si narrava infatti che Romolo, al momento di fondare la Città, non solo avesse raccolto a questo scopo uomini provenienti da ogni regione; ma che ciascuno di costoro avesse portato con sé una zolla della terra da cui proveniva. Scavata dunque la fossa di fondazione, destinata a costituire il centro della futura città, ciascuno di questi uomini vi gettò dentro la propria zolla di terra, mischiandola con tutte le altre. Secondo il mito romano, dunque, la città di Roma era sorta su una terra non solo “mista” di molte altre terre, ma creata dagli stessi futuri abitanti della città. Al contrario di Atene, insomma, a Roma non era stata la terra a partorire gli uomini, ma gli uomini a fabbricare la propria terra.

Alla domanda «chi è il vero romano», dunque, il mito della fondazione di Roma forniva la risposta seguente: uno straniero, cresciuto in una terra lontana, che ne ha portato con sé una zolla per mescolarla con quelle degli altri, così come con gli altri si è mescolato lui stesso. Penso che questo mito meriterebbe di essere diffuso e fatto conoscere con tutti i mezzi mediatici che oggi abbiamo a disposizione: soprattutto là dove assieme ai fili spinati si moltiplicano gli appelli alle radici e il discorso pubblico si articola ossessivamente attorno al pronome “noi”. Questo mito ci aiuterebbe perlomeno a pensare a siriani, iracheni, sudanesi o libici in fila di fronte al blocco degli immigration points: ciascuno con una zolla di terra nella valigia.
(fonte: EDDYBURG articolo pubblicato in la Repubblica, 31/01/2017)


Quando la speranza è alimentata dal Vangelo di mons. Bruno Forte

Il messaggio del Papa 
Quando la speranza 
è alimentata dal Vangelo
di Bruno Forte 
Arcivescovo di Chieti-Vasto


Che Papa Francesco si stagli nel panorama mondiale come autorità morale universalmente riconosciuta è un dato di fatto. Continua inoltre ad accompagnarlo un ampio entusiasmo popolare, motivato dalla straordinaria capacità comunicativa con cui egli raggiunge i cuori servendosi di un linguaggio semplice e immediato, fatto di parole e di gesti di grande efficacia. Non mancano, tuttavia, resistenze alla Sua azione e al Suo messaggio: specialmente dopo la pubblicazione dell’Esortazione “Amoris Laetitia”, seguita alle due assemblee sinodali del 2014 e 2015 sul tema della famiglia, diverse critiche al Suo magistero si sono concentrate sulla possibilità di integrare pienamente nella vita della comunità ecclesiale e di ammettere ai sacramenti i divorziati risposati che si trovino in una situazione irreversibile e siano animati da una fede viva e dal desiderio di comunione con il Signore e con la Chiesa. I “dubia” presentati da quattro autorevoli membri del Collegio Cardinalizio, enfatizzati da molti media, sono stati la punta di iceberg di questa resistenza, che - sebbene largamente minoritaria nel popolo di Dio - vuole tuttavia farsi sentire dall’opinione pubblica e in particolare nella comunità ecclesiale. Alcuni interventi di operatori della comunicazione e di esperti di discipline teologiche, morali e pastorali, si uniscono a questo coro, che non scalfisce certo la serenità e la libertà di azione di Francesco, ma rischia di seminare insicurezza e divisione fra i cattolici e non solo. Il punto chiave delle critiche rivolte al Papa riguarda l’accusa di “relativismo”: partendo specialmente dalla risposta che il Pontefice diede ai giornalisti durante il volo di ritorno dalla Giornata Mondiale della Gioventù a Rio de Janeiro nel luglio 2013 a proposito dei gay - “Chi sono io per giudicare?” - si osserva che se non è il Papa a ribadire senza mezzi termini le certezze della fede e della morale, la Chiesa intera è esposta al rischio di relativismo, abdicando al suo compito fondamentale di testimoniare la verità rivelata. L’argomento, ripreso da varie parti, merita che si chiarisca il perché della sua infondatezza e che si evidenzino gli equivoci che può ingenerare. Relativista è la posizione di chi nega che ci sia o possa esserci una verità oggettiva e assoluta, riconoscibile da chiunque usi con onestà la propria ragione e il proprio cuore: mettendo da parte l’obiezione di fondo che evidenzia come il relativista si contraddica in radice perché, per affermare che tutto è relativo, deve pur ammettere l’assolutezza di una tale affermazione, non è difficile avvertire l’abissale distanza che c’è fra chi non riconosce l’esistenza di alcun riferimento oggettivo e trascendente, valido e vincolante per tutti, e chi - come Papa Francesco - non ha esitato e non esita a giocare la sua vita per una causa totalizzante come quella della buona novella di Gesù. Il Gesuita Bergoglio incarna perfettamente l’ispirazione ignaziana, che un altro grande gesuita, il teologo Karl Rahner, descriveva così parlando della propria ricerca: “Anche nel lavoro teologico io desidero essere un uomo, un cristiano e, per quanto possibile, un sacerdote della Chiesa... Io desidero poter sperare che quella indicibile tenebra, che è insieme luce, che noi diciamo Dio e in cui ci si deve abbandonare credendo, sperando e amando, è quello su cui mi concentro (il meglio possibile) e di cui tento di parlare, anche se le parole sembrano proprio folli (come potrebbe essere diversamente!), come quella paglia, di cui parlò Tommaso d'Aquino alla fine della sua vita”. Analogamente, il gesuita Bergoglio ha voluto e vuole essere uomo tra gli uomini, al tempo stesso totalmente consegnato alla causa di Dio in questo mondo a favore di quegli stessi uomini per cui Cristo è morto ed è risorto alla vita. Questa dedizione incondizionata non ha, però, nulla della pretesa di catturare l’oggetto di un così grande amore: “Alla fine - dice ancora Rahner - si prosegue a mani vuote. Ma è bene così. Poi si guarda il Crocefisso. E si va avanti. E quel che viene è la beata inafferrabilità di Dio”. Anche da Papa Francesco resta un discepolo di Ignazio di Loyola e sulle sue orme coniuga l’assoluta consegna al Signore Gesù e la consapevolezza di essere sempre e solo servitore e non padrone della verità da Lui offerta al mondo. “Chi, con fede, si lascia guidare dallo Spirito Santo - ha scritto in questi giorni per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali - diventa capace di discernere in ogni avvenimento ciò che accade tra Dio e l’umanità, riconoscendo come Egli stesso, nello scenario drammatico di questo mondo, stia componendo la trama di una storia di salvezza. Il filo con cui si tesse questa storia sacra è la speranza e il suo tessitore non è altri che lo Spirito Consolatore. La speranza è la più umile delle virtù, perché rimane nascosta nelle pieghe della vita, ma è simile al lievito che fa fermentare tutta la pasta. E noi la alimentiamo leggendo sempre di nuovo la Buona Notizia, quel Vangelo che è stato ristampato in tantissime edizioni nelle vite dei santi, uomini e donne diventati icone dell’amore di Dio”. Anche in quanto afferma “Amoris Laetitia” a proposito della famiglia è il Vangelo a risuonare: e lo sforzo di integrare e accompagnare tutti, anche chi si trova in situazioni ferite o contrastanti con il disegno divino rivelato, non è tradimento della dottrina, affermata anzi con fedeltà e chiarezza, ma esercizio di misericordia per non separare mai la verità e l’amore in cui essa si esprime. Francesco è ben consapevole del fatto che oggi “una mentalità diffusa tende ad oscurare l’accesso alle verità eterne”, coinvolgendo “gli atteggiamenti e i comportamenti degli stessi cristiani”, come ha detto recentemente parlando alla Rota Romana: egli sa anche, però, che l’assoluto della verità non può fare a meno dell’assoluto della carità. Sta in questa coniugazione il cuore del suo messaggio, che di relativismo non ha veramente nulla, mentre respira a pieni polmoni del soffio del Vangelo, che vuol salvare e rendere liberi tutti.
(fonte: Arcidiocesi di Chieti Vasto - Articolo pubblicato da Il Sole 24 Ore 29/01/2017)

Vedi anche il post:


lunedì 30 gennaio 2017

«Senza memoria non c’è speranza» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)


S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
30 gennaio 2017
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 



Papa Francesco:
Se il martire non fa notizia”

Per «i martiri di oggi», per i cristiani perseguitati e in carcere, per le Chiese senza libertà, con un pensiero particolare a quelle più piccole: è questa l’intenzione con cui Papa ha offerto la messa celebrata lunedì mattina, 30 gennaio, nella cappella della Casa Santa Marta. Nella consapevolezza che «una Chiesa senza martiri è una Chiesa senza Gesù», il Pontefice ha riaffermato che sono proprio i martiri a sostenere e portare avanti la Chiesa. E se anche «i media non lo dicono, perché non fa notizia», oggi «tanti cristiani nel mondo sono beati perché perseguitati, insultati, carcerati soltanto per portare una croce o per confessare Gesù Cristo». Dunque, quando noi ci lamentiamo «se ci manca qualcosa», dovremmo piuttosto pensare «a questi fratelli e sorelle che oggi, in numero più grande dei primi secoli, soffrono il martirio». 

Per la sua meditazione il Pontefice ha anzitutto rilanciato i contenuti della lettera agli Ebrei. «Verso la fine — ha affermato — l’autore fa un appello alla memoria: “Chiamate alla memoria i vostri antenati, chiamate alla memoria i primi giorni della vostra vocazione, ricordatevi, chiamate alla memoria tutta la storia del popolo del Signore”». Tutto ciò «per aiutare a fare più salda la nostra speranza: ricordare meglio per sperare meglio; senza memoria non c’è speranza».

Proprio «la memoria delle cose che il Signore ha fatto fra di noi — ha spiegato Francesco — ci dà il fiato per andare avanti e anche la consistenza». Così «in questa fine della lettera agli Ebrei, nel capitolo 11, che è quello che la liturgia ci propone in questi giorni, c’è la memoria della docilità di tanta gente, incominciando dal nostro padre Abramo che uscì dalla sua terra senza sapere dove andava, docile: memoria di docilità».

«Poi, oggi, ci sono due memorie» ha fatto notare ancora il Pontefice citando espressamente il passo della lettera proposto dalla liturgia (11, 32-40). Anzitutto «la memoria delle grandi gesta del Signore, fatte da uomini e donne, e dice l’autore della lettera: “Mi mancherebbe il tempo se volessi narrare di...”». Tanto che «comincia a nominare Gedeone, Barak, Sansone, Iefte, Davide: tanta gente che ha fatto grandi gesta nella storia di Israele». Questa «è la memoria, possiamo dire, dei nostri eroi del popolo di Dio». E «il terzo gruppo» — il primo «era quello di coloro che sono stati docili alla chiamata del Signore», il secondo «di coloro che hanno fatto grandi cose» — richiama «la memoria di quelli che hanno sofferto e hanno dato la vita come Gesù».

Si legge infatti nella lettera: «Altri, infine, subirono insulti e flagelli, catene e prigionia. Furono lapidati, torturati, tagliati in due, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati — di loro il mondo non era degno! — vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra». In una parola è la «memoria dei martiri». E la Chiesa è proprio «questo popolo di Dio che è peccatore ma docile, che fa grandi cose e anche dà testimonianza di Gesù Cristo fino al martirio».

«I martiri — ha affermato a questo proposito il Papa — sono quelli che portano avanti la Chiesa; sono quelli che sostengono la Chiesa, che l’hanno sostenuta e la sostengono oggi. E oggi ce ne sono più dei primi secoli», anche se «i media non lo dicono perché non fa notizia: tanti cristiani nel mondo oggi sono beati perché perseguitati, insultati, carcerati». Oggi, ha insistito Francesco, «ce ne sono tanti in carcere, soltanto per portare una croce o per confessare Gesù Cristo: questa è la gloria della Chiesa e il nostro sostegno e anche la nostra umiliazione, noi che abbiamo tutto, tutto sembra facile per noi e se ci manca qualcosa ci lamentiamo». Ma «pensiamo a questi fratelli e sorelle che oggi, in numero più grande dei primi secoli, soffrono il martirio».

«Non posso dimenticare — ha confidato il Papa — la testimonianza di quel sacerdote e quella suora nella cattedrale di Tirana: anni e anni di carcere, lavori forzati, umiliazioni, i diritti umani non esistono per loro». Era il 21 settembre 2014 quando, durante i vespri nella cattedrale di San Paolo a Tirana, vennero presentate al Pontefice le toccanti testimonianze di due sopravvissuti alle persecuzioni del regime contro i cristiani: presero la parola suor Maria Kaleta e don Ernest Simoni, che poi Francesco ha voluto creare e pubblicare cardinale nel concistoro del 19 novembre scorso.

Anche noi, ha proseguito il Pontefice, è giusto che «siamo soddisfatti quando vediamo un atto ecclesiale grande, che ha avuto un gran successo, i cristiani che si manifestano». E questo può essere visto come una «forza». Ma «la più grande forza della Chiesa oggi è nelle piccole Chiese, piccoline, con poca gente, perseguitate, con i loro vescovi in carcere. Questa è la nostra gloria oggi e la nostra forza oggi». Anche perché, ha affermato, «una Chiesa senza martiri, oserei dire, è una Chiesa senza Gesù».

Così Francesco ha invitato a pregare «per i nostri martiri che soffrono tanto, per quelli che sono stati e che sono in carcere, per quelle Chiese che non sono libere di esprimersi: loro sono il nostro sostegno, loro sono la nostra speranza». Già «nei primi secoli della Chiesa un antico scrittore diceva: “Il sangue dei cristiani, il sangue dei martiri, è seme dei cristiani”». Essi «con il loro martirio, la loro testimonianza, con la loro sofferenza, anche dando la vita, offrendo la vita, seminano cristiani per il futuro e nelle altre Chiese». E per questa ragione, appunto, il Papa ha voluto offrire la «messa per i nostri martiri, per quelli che adesso soffrono, per le Chiese che soffrono, che non hanno libertà», ringraziando «il Signore di essere presenti con la fortezza del suo Spirito in questi fratelli e sorelle nostri che oggi danno testimonianza di lui».
(fonte: L'Osservatore Romano)

Guarda il video



Per saperne di più circa la testimonianza del sacerdote e della suora a Tirana a cui fa riferimento Papa Francesco nell'omelia vedi il post:


Monastero di Bose Comunicato del nuovo priore, Luciano Manicardi

Il fondatore fr. Enzo Bianchi e il priore fr. Luciano Manicardi

Monastero di Bose
Comunicato del priore, Luciano Manicardi*

Cari amici e ospiti,

come ormai noto, il giorno 26 gennaio, i fratelli e le sorelle di Bose, dopo aver accolto le dimissioni del priore e fondatore della comunità, Fr. Enzo Bianchi, che da tanto tempo ci aveva preparati a questo momento, si sono riuniti, in occasione del consiglio generale annuale, per procedere all’elezione di un nuovo priore. La scelta è caduta su di me che liberamente, ma con grande timore e tremore, ho accettato l’incarico.

Sono cosciente che una persona come Fr. Enzo Bianchi non ha successore, sono cosciente del significato che la nostra comunità rappresenta per il cammino di fede di tanti credenti, sono cosciente del servizio a diverse chiese cristiane che da anni la nostra comunità svolge in vista della ricerca dell’unità voluta dal Signore, sono cosciente del debito che abbiamo nei confronti della tradizione monastica e di tanti monasteri conosciuti e incontrati da Enzo anzitutto, ma anche dai fratelli e dalle sorelle della comunità, sono cosciente del lavoro di ascolto e della simpatia creatasi con tanti uomini e donne non credenti in vista di una ricerca comune di una modalità sempre più umana e umanizzata di abitare il mondo che la nostra comprensione evangelica ci ha suggerito.

Sono cosciente della responsabilità che questo comporta e sono soprattutto cosciente dei miei profondi limiti, ma chi presiede una comunità lo fa insieme, accanto e con i suoi fratelli e sorelle, e anche con il sostegno e la preghiera di quanti le sono vicini. Per questo chiedo a voi, amici e ospiti, di invocare lo Spirito e pregare per la nostra comunità, per chi l’ha fondata e presieduta fino ad ora e per me e per il servizio che mi accingo a svolgere.

Confidando nel Signore misericordioso e compassionevole
Fr. Luciano Manicardi

Vedi il precedente post:



* Luciano Manicardi
Nato nel 1957 a Campagnola Emilia (RE), si è laureato a Bologna con una tesi sul Salmo 68. È entrato nella comunità monastica di Bose nel 1980, dove ha continuato gli studi biblici. È stato fino ad oggi il responsabile della formazione culturale dei novizi all'interno della comunità. Collabora a diverse riviste, tra cui Parola Spirito e Vita. Attento all'intrecciarsi dei dati biblici con le acquisizioni più recenti dell'antropologia, riesce a far emergere dalla Scrittura lo spessore esistenziale e la sapienza di vita di cui è portatrice.


"Non si è beati se non si è convertiti, in grado di apprezzare e vivere i doni di Dio." Papa Francesco Angelus 29/01/2017 (testo e video)


 ANGELUS 
 29 gennaio 2017 

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La liturgia di questa domenica ci fa meditare sulle Beatitudini (cfr Mt 5,1-12a), che aprono il grande discorso detto “della montagna”, la “magna charta” del Nuovo Testamento. Gesù manifesta la volontà di Dio di condurre gli uomini alla felicità. Questo messaggio era già presente nella predicazione dei profeti: Dio è vicino ai poveri e agli oppressi e li libera da quanti li maltrattano. Ma in questa sua predicazione Gesù segue una strada particolare: comincia con il termine «beati», cioè felici; prosegue con l’indicazione della condizione per essere tali; e conclude facendo una promessa. Il motivo della beatitudine, cioè della felicità, non sta nella condizione richiesta – per esempio, «poveri in spirito», «afflitti», «affamati di giustizia», «perseguitati»... – ma nella successiva promessa, da accogliere con fede come dono di Dio. Si parte dalla condizione di disagio per aprirsi al dono di Dio e accedere al mondo nuovo, il «regno» annunciato da Gesù. Non è un meccanismo automatico, questo, ma un cammino di vita al seguito del Signore, per cui la realtà di disagio e di afflizione viene vista in una prospettiva nuova e sperimentata secondo la conversione che si attua. Non si è beati se non si è convertiti, in grado di apprezzare e vivere i doni di Dio.

Mi soffermo sulla prima beatitudine: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (v. 4). Il povero in spirito è colui che ha assunto i sentimenti e l’atteggiamento di quei poveri che nella loro condizione non si ribellano, ma sanno essere umili, docili, disponibili alla grazia di Dio. La felicità dei poveri – dei poveri in spirito – ha una duplice dimensione: nei confronti dei beni e nei confronti di Dio. Riguardo ai beni, ai beni materiali, questa povertà in spirito è sobrietà: non necessariamente rinuncia, ma capacità di gustare l’essenziale, di condivisione; capacità di rinnovare ogni giorno lo stupore per la bontà delle cose, senza appesantirsi nell’opacità della consumazione vorace. Più ho, più voglio; più ho, più voglio: questa è la consumazione vorace. E questo uccide l’anima. E l’uomo o la donna che fanno questo, che hanno questo atteggiamento “più ho, più voglio”, non sono felici e non arriveranno alla felicità. Nei confronti di Dio è lode e riconoscimento che il mondo è benedizione e che alla sua origine sta l’amore creatore del Padre. Ma è anche apertura a Lui, docilità alla sua signoria: è Lui, il Signore, è Lui il Grande, non io sono grande perché ho tante cose! E’ Lui: Lui che ha voluto il mondo per tutti gli uomini e l’ha voluto perché gli uomini fossero felici.

Il povero in spirito è il cristiano che non fa affidamento su se stesso, sulle ricchezze materiali, non si ostina sulle proprie opinioni, ma ascolta con rispetto e si rimette volentieri alle decisioni altrui. Se nelle nostre comunità ci fossero più poveri in spirito, ci sarebbero meno divisioni, contrasti e polemiche! L’umiltà, come la carità, è una virtù essenziale per la convivenza nelle comunità cristiane. I poveri, in questo senso evangelico, appaiono come coloro che tengono desta la meta del Regno dei cieli, facendo intravedere che esso viene anticipato in germe nella comunità fraterna, che privilegia la condivisione al possesso. Questo vorrei sottolinearlo: privilegiare la condivisione al possesso. Sempre avere il cuore e le mani aperte (fa il gesto), non chiuse (fa il gesto). Quando il cuore è chiuso (fa il gesto), è un cuore ristretto: neppure sa come amare. Quando il cuore è aperto (fa il gesto), va sulla strada dell’amore.
La Vergine Maria, modello e primizia dei poveri in spirito perché totalmente docile alla volontà del Signore, ci aiuti ad abbandonarci a Dio, ricco in misericordia, affinché ci ricolmi dei suoi doni, specialmente dell’abbondanza del suo perdono.

Dopo l'Angelus: 

Cari fratelli e sorelle,
come vedete, sono arrivati gli invasori … sono qui! 

Si celebra oggi la Giornata mondiale dei malati di lebbra. Questa malattia, pur essendo in regresso, è ancora tra le più temute e colpisce i più poveri ed emarginati. È importante lottare contro questo morbo, ma anche contro le discriminazioni che esso genera. Incoraggio quanti sono impegnati nel soccorso e nel reinserimento sociale di persone colpite dal male di Hansen, per le quali assicuriamo la nostra preghiera.

Saluto con affetto tutti voi, venuti da diverse parrocchie d’Italia e di altri Paesi, come pure le associazioni e i gruppi. In particolare, saluto gli studenti di Murcia e Badajoz, i giovani di Bilbao e i fedeli di Castellón. Saluto i pellegrini di Reggio Calabria, Castelliri, e il gruppo siciliano dell’Associazione Nazionale Genitori. Vorrei anche rinnovare la mia vicinanza alle popolazioni dell’Italia Centrale che ancora soffrono le conseguenze del terremoto e delle difficili condizioni atmosferiche. Non manchi a questi nostri fratelli e sorelle il costante sostegno delle istituzioni e la comune solidarietà. E per favore, che qualsiasi tipo di burocrazia non li faccia aspettare e ulteriormente soffrire!
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Mi rivolgo ora a voi, ragazzi e ragazze dell’Azione Cattolica, delle parrocchie e delle scuole cattoliche di Roma. Quest’anno, accompagnati dal Cardinale Vicario, siete venuti al termine della “Carovana della Pace”, il cui slogan è Circondati di Pace: bello, lo slogan. Grazie per la vostra presenza e per il vostro generoso impegno nel costruire una società di pace. Adesso, tutti ascoltiamo il messaggio che i vostri amici, qui accanto a me, ci leggeranno.

[lettura del messaggio]

Ed ora vengono lanciati i palloncini, simbolo di pace. 
Simbolo di pace …



A tutti auguro buona domenica, auguro pace, umiltà, condivisione nelle vostre famiglie. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

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I gesti di Trump, un incubo che torna. Infame è il marchio di Marco Tarquinio


I gesti di Trump, un incubo che torna. 
Infame è il marchio 
di Marco Tarquinio

Donald J. Trump sa che cosa vuole e chi non vuole sulla sua strada. Vuole un mondo che nessuno si azzardi a pensare come «casa comune» da difendere, da usare e da continuare a costruire insieme: il grido di battaglia è «ognun per sé», Stati e persone. Non vuole nel suo Paese, costruito dai migranti di tutto il mondo, tutta una serie di persone che considera indesiderabili o, come ha proclamato ieri, «pericolose»: dai rifugiati, lavoratori e persino turisti di religione islamica sunnita e sciita ai migranti latino americani prevalentemente di religione cristiano cattolica (nel primo caso la discriminazione religiosa è esplicita, nel secondo è implicita e si mescola ad altri elementi ugualmente preoccupanti).

Sta decidendo di conseguenza, il nuovo capo della Casa Bianca. Costruisce ogni giorno nuovi "muri", materiali e ideali, commerciali e politici, culturali e religiosi. E si è persuaso che il «prezzo» di tutte queste barriere debba ricadere su quelli dell’«altra parte»: abitanti, emigranti, mercanti, governanti, credenti... Si sbaglia. Non sarà così, e non solo perché nessuno può e deve mettere arrogantemente le mani nelle tasche degli altri, ma perché il prezzo delle ingiustizie, prima o poi, lo pagano tutti non solo i più deboli. Per intanto, però, il presidente Usa tira diritto. Confeziona persino «marchi» d’infamia verso popoli, comunità, etnie e organizzazioni sovrannazionali e li mette in circolazione con la potenza mediatica della parola dell’«uomo più potente del mondo». La questione è gravissima, e costa persino evocarla per gli echi terribili che scatena. Ma è inevitabile.

Certo, potrebbe essere consolante pensare che si tratti solo di un pirotecnico spettacolo d’inizio mandato, ma non lasciano spazio a molte illusioni le aspre "parole di disordine" – protezioniste, anti-umanitarie e contrarie a ogni «concerto delle nazioni» – che Trump continua a lanciare e che si vanno accumulando e insediando nei dibattiti politici non solo d’oltre Atlantico e alimentano i nuovi rivoli d’antagonismo e d’odio che hanno preso a scorrere in ogni dove. Come se non bastassero quelli ingrossati dalla propaganda dei fondamentalisti jihadisti...

È infatti convinto, Trump, di sapere perfettamente l’effetto che tutto questo farà: la "sua" America (che non è tutta l’America, ma nel Nuovo Mondo è dominante da circa due secoli) sarà più che mai "prima" a livello globale: più ricca, più forte, più sicura. Fiat "great America" et pereat mundus. Si sbaglia ancora una volta. E ce ne accorgeremo tutti, sperabilmente presto. Nessuno si salva da solo, neanche la superpotenza Usa. E non si rimedia ai guasti del lato oscuro della globalizzazione chiudendosi in recinti per (presunti) ricchi e recintando i poveri nelle loro sventure di miseria e di guerra.

Anche nello sviluppato Nord del mondo – negli States come in Italia – i ricchi sono sempre più ricchi e sempre meno numerosi. Mentre nei troppi e derelitti Sud del mondo la caparbia e repulsiva «avarizia» dei pre-potenti di questo passo finirà davvero per suscitare – secondo la profetica constatazione di Paolo VI, scandita mezzo secolo fa nell’enciclica Popolurom Progressio – «il giudizio di Dio e la collera dei poveri».

Non bisogna nominare il nome di Dio invano. E allora è bene tornare su un punto già toccato e che le argomentazioni usate ieri dal presidente Trump per decretare la porta chiusa in faccia per alcuni mesi ai richiedenti asilo, ma anche a lavoratori (addirittura con il permesso permanente, la famosa green card), di fede islamica provenienti da sette Stati, tutti Paesi d’Africa e Asia piagati dalla guerra tranne uno, l’Iran. La cosa che colpisce di più è che colui che è stato eletto a capo della prima e più grande democrazia d’Occidente si sta così mettendo, oggi, su un piano sinora proprio del califfo nero di Raqqa.

Il marchio di identificazione e di rifiuto degli «islamici» idealmente impresso per ordine di Trump sul passaporto di una persona in fuga dalla Siria e dall’Iraq o dallo Yemen o dalla Somalia somiglia maledettamente alla «n» araba di nasara, nazzareno, imposta per ordine di al-Baghdadi sulle case dei cristiani di Mosul. Somiglia non è uguale. Perché gli Usa, così, rifiutano accoglienza, aiuto, la possibilità di una nuova vita a coloro che sono costretti a lasciare la propria terra e lo fanno in base a un’appartenenza religiosa di gruppo non a una qualche colpa personale. E perché, invece, nel Siraq sotto il califfato islamico per i cristiani «marchiati» non è più consentita la vecchia vita, e le alternative all’esilio sono la conversione, la sottomissione pagante o la morte. Il significato delle due scelte (quella di Trump provvisoria, quella dei jihadisti strutturale) è però ugualmente devastante.

Se la fede e la cultura di una persona o di un gruppo di persone diventano il motivo di una discriminazione aspra e ingiusta, questo riguarda tutti non solo i direttamente interessati. Se essere musulmano diventa un «marchio» di pericolosità e un peccato civile, se per questo la condizione di persecuzione e di miseria di un essere umano diventano irrilevanti, nessuno è salvo e nessuno è civilmente al sicuro, ma tutti – cristiani, ebrei, buddisti o di ogni altra tradizione e convinzione religiosa e filosofica – siamo in pericolo. Perché se non solo il mondo dei tagliagole, ma anche il mondo che si è costruito sulla cultura dei diritti fondamentali della persona umana diventasse davvero un mondo di esseri «marchiati», che in base a questo possono essere accettati e rifiutati, saremmo a un passo dall’incubo. Un incubo che abbiamo già affrontato e sconfitto. E che è assurdo possa crescere di nuovo a partire dalla «terra della libertà».
(fonte testo: Avvenire 28 gennaio 2017)


domenica 29 gennaio 2017

"Amoris Laetitia"- Il matrimonio come un cammino gioioso! Come cristiani dobbiamo essere capaci di proporre orizzonti, strade di felicità! prof. Giuseppe Savagnone

"Amoris Laetitia"
Il matrimonio come un cammino gioioso!
Come cristiani dobbiamo essere capaci
di proporre orizzonti, strade di felicità! 
prof. Giuseppe Savagnone





Brevi estratti video
 dell'incontro  promosso 
dalla Famiglia Salesiana 
presso il teatro 
dell'Oratorio di Barcellona P.G,

17 dicembre 2016





IL PONTIFICATO DELLA GIOIA DI PAPA FRANCESCO

Come cristiani dobbiamo essere capaci di proporre orizzonti, strade di felicità! 
… Noi dobbiamo fare una proposta entusiasmante! .. 
Noi dobbiamo annunciare al mondo una liberazione, una vita in pienezza, una salvezza!!

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"La Chiesa deve presentare la famiglia come un cammino ...
La Chiesa deve formare le coscienze, non pretendere di sostituirle."


Il Papa è consapevole che gli esseri umani sono in cammino, e che le loro coscienze navigano in mezzo a mille difficoltà, a mille problemi, a mille incertezze, e non possiamo giudicarli, dobbiamo cercare di aiutarli. Indicando la meta, ma senza disprezzare il percorso che stanno facendo, perché stanno camminando ...
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Il matrimonio deve essere una gioia!
Deve essere sempre in crescita
Bisogna ascoltare …
bisogna coltivarsi anche per avere qualcosa da dire.
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La Parola di Dio nella Chiesa e nella famiglia chiesa domestica.- prima parte - (fr. Egidio Palumbo, carmelitano)

La Parola di Dio nella Chiesa e 
nella famiglia chiesa domestica
- prima parte - 
fr. Egidio Palumbo, carmelitano


Incontro del 23 gennaio 2017
promosso dal Vicariato S. Sebastiano
di Barcellona Pozzo di Gotto
Primo incontro
ITINERARIO DI FORMAZIONE
ALLA VITA CRISTIANA
ANNO 2017
“CAMMINIAMO, FAMIGLIE, 
CONTINUIAMO A CAMMINARE!” 
(Papa Francesco, Amoris Laetitia, n. 325) 


"... il nostro itinerario formativo vicariale di quest’anno lo dedicheremo alla lettura e all’approfondimento dell’esortazione apostolica Amoris Laetitia di papa Francesco, sulla situazione delle famiglie oggi, che chiede alla Chiesa uno sguardo più attento e un’azione pastorale più incisiva, modulati sullo stile misericordioso e compassionevole del Signore Gesù, Volto della misericordia del Padre. È la ripresa del tema della seconda traccia. Ma alla famiglia vogliamo guardare anche nella sua specifica vocazione cristiana nella Chiesa e nel mondo: essere chiesa domestica, la piccola sposa del Signore. È una vocazione che pone al centro: - la presenza del Signore Gesù, lo Sposo della Chiesa e di ogni chiesa domestica; - la sua Parola ascoltata, meditata, pregata, contemplata, vissuta e testimoniata; - l’Eucaristia, che è la “Parola fatta carne”, fatta corpo donato e condiviso, mensa familiare e fraterna; - il sacramento della Riconciliazione, che è la Parola purificatrice e sanante, esperienza del perdono gratuito di Dio, il quale, se accolto come tale, suscita cammini di vera conversione e dà la capacità di ricominciare con più fiducia e speranza
La riflessione sulla famiglia chiesa domestica, considerata nel contesto vitale della grande Chiesa, diventa per il nostro itinerario formativo l’occasione di ritornare a riflettere sulla centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa e della famiglia chiesa domestica
...
La Chiesa è il Popolo di Dio chiamato, convocato e radunato dalla Parola di Dio – a questo significato si rifà la parola “Chiesa” (ekklesìa). Teniamo presente, ad esempio, dal punto di vista mistagogico, che il suono delle campane prima della celebrazione eucaristica, non è soltanto funzionale ad indicare l’ora della Messa, ma, più profondamente, allude alla convocazione di Dio che ci chiama e ci raduna come suo Popolo – popolo plurale per età, etnia, cultura, ceto sociale… – per sederci alla mensa della Parola e del Corpo del Figlio suo. Noi non ci autoconvochiamo, bensì siamo convocati da Dio. Da qui si comprende che la familiarità dell’ascolto della Parola contenuta nelle S. Scritture è, o dovrebbe essere, connaturale al Popolo di Dio. La Chiesa Popolo di Dio è tale se ascolta, medita, vive e annuncia la Parola di Dio. Questo è un aspetto qualificante della Chiesa (cf. BENEDETTO XVI, Verbum Domini, n. 51).
...
Se la Parola di Dio contenuta nelle S. Scritture è Parola ispirata e ispirante, ed è Parola di Verità poiché ci comunica il Senso Ultimo della vita, questo vuol dire che ha una sua efficacia sacramentale, ovvero che nella Parola di Dio vi è la presenza reale e sacramentale (diversa da quella eucaristica) del Dio di Gesù Cristo che parla oggi al cuore della Chiesa, dei credenti e di ogni uomo e donna.
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Incontro del 23.01.2017 - integrale


Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - IV Domenica del Tempo Ordinario / A





Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)





Preghiera dei Fedeli


"Un cuore che ascolta - lev shomea" - n.11/2016-2017 (A) di Santino Coppolino

'Un cuore che ascolta - lev shomea' 
"Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione
sul Vangelo della domenica
di Santino Coppolino



Vangelo: Mt 5,1-12  



Il brano del Vangelo di Matteo di questa IV Domenica del Tempo Ordinario, costituisce la "Magna Charta del Regno di Dio", il documento di identità di ogni cristiano. Il Discorso della Montagna, che si estende per ben tre capitoli (cc. 5-7), rappresenta una vera e propria catechesi battesimale, un itinerario di vita cristiana, la vita stessa di Gesù offerta a quanti vogliono seguirlo. Infatti  "tutto quello che il Signore Gesù afferma in questi versetti è quanto lui stesso vive"(cit.). Allora come oggi appare evidente che "le vie di Dio non sono le nostre vie" (cf. Is 55,1-11), il suo progetto sull'uomo non coincide con il nostro anzi, è esattamente all'opposto, due modalità completamente antitetiche di intendere la vita. Sentiamo ancora l'eco dell'appello di Gesù in 4,17 che ci esorta alla "metànoia", al cambiamento di mentalità, ad un vero e radicale capovolgimento del modo di pensare e vivere la vita. Per noi infatti sono felici i forti, i potenti, i ricchi, chi può e conta. Per Gesù invece sono felici i poveri, i disprezzati, gli oppressi, gli umili e gli umiliati, coloro che nulla possono e contano. 
Questi dodici brevi e fondamentali versetti del Vangelo non hanno come destinatari soltanto preti e religiosi; essi piuttosto sono l'imperativo categorico, il vademecum irrinunciabile per quanti, battezzati e non, sono alla ricerca della propria identità di uomini, la lampada che illumina il cammino di tutti coloro che hanno liberamente scelto di seguire il Signore Gesù, facendo di Lui "la loro vita e la loro regola di vita"(cit.).


sabato 28 gennaio 2017

"Le Beatitudini, il più grande atto di speranza cristiano" di p. Ermes Ronchi - IV Domenica Tempo ordinario – Anno A

Le Beatitudini, il più grande atto di speranza cristiano



Commento
IV Domenica  Tempo ordinario – Anno A

Letture: Sofonía 2,3; 3,12-13; Salmo 145; 1 Corinzi 1,26-31; Matteo 5,1-12

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

Davanti al Vangelo delle Beatitudini provo ogni volta la paura di rovinarlo con i miei tentativi di commento, perché so di non averlo ancora capito. Perché dopo anni di ascolto e di lotta, questa parola continua a stupirmi e a sfuggirmi.

Gandhi diceva che queste sono «le parole più alte del pensiero umano». Ti fanno pensoso e disarmato, ma riaccendono la nostalgia prepotente di un mondo fatto di bontà, di sincerità, di giustizia, senza violenza e senza menzogna, un tutt'altro modo di essere uomini. Le Beatitudini hanno, in qualche modo, conquistato la nostra fiducia, le sentiamo difficili eppure suonano amiche. Amiche perché non stabiliscono nuovi comandamenti, ma propongono la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno il Padre si fa carico della sua felicità.

La prima cosa che mi colpisce è la parola: Beati voi. Dio si allea con la gioia degli uomini, se ne prende cura. Il Vangelo mi assicura che il senso della vita è, nel suo intimo, nel suo nucleo profondo, ricerca di felicità. Che questa ricerca è nel sogno di Dio, e che Gesù è venuto a portare una risposta. Una proposta che, come al solito, è inattesa, controcorrente, che srotola nove sentieri che lasciano senza fiato: felici i poveri, gli ostinati a proporsi giustizia, i costruttori di pace, quelli che hanno il cuore dolce e occhi bambini, i non violenti, quelli che sono coraggiosi perché inermi. Sono loro la sola forza invincibile. 
Le beatitudini sono il più grande atto di speranza del cristiano. Il mondo non è e non sarà, né oggi né domani, sotto la legge del più ricco e del più forte. Il mondo appartiene a chi lo rende migliore.

Per capire qualcosa in più del significato della parola beati osservo anche come essa ricorra già nel primo dei 150 salmi, quello delle due vie, anzi sia la parola che apre l'intero salterio: «Beato l'uomo che non resta nella via dei peccatori, che cammina sulla via giusta». E ancora nel salmo dei pellegrinaggi: «Beato l'uomo che ha la strada nel cuore» (Sl 84,6).

Dire beati è come dire: «In piedi voi che piangete; avanti, in cammino, Dio cammina con voi, asciuga lacrime, fascia il cuore, apre sentieri». Dio conosce solo uomini in cammino. 
Beati: non arrendetevi, voi i poveri, i vostri diritti non sono diritti poveri. Il mondo non sarà reso migliore da coloro che accumulano più denaro. I potenti sono come vasi pieni, non hanno spazio per altro. A loro basta prolungare il presente, non hanno sentieri nel cuore. Se accogli le Beatitudini la loro logica ti cambia il cuore, sulla misura di quello di Dio; te lo guariscono perché tu possa così prenderti cura bene del mondo.


"Sulla via di Damasco. La vocazione di Paolo e la svolta della sua vita: At 7,95-9,31" di fr. Egidio

"Sulla via di Damasco. La vocazione di Paolo 
e la svolta della sua vita: At 7,95-9,31" 
di fr. Egidio Palumbo


Primo incontro dei
MERCOLEDÌ DELLA BIBBIA 2017

promossi dalla
Fraternità Carmelitana 
di Barcellona Pozzo di Gotto 
25.01.2017




1. Paolo, giudeo della diaspora

Per la prima volta Paolo appare sulla “scena biblica” del NT in At 7, 58-8,3, col nome aramaico di Saulo (dal nome del re Saul), che significa “interpellato, chiamato in causa” (“Paulus/Paolo” è il cognome romano). Qui Saulo è presentato come colui che custodisce i mantelli dei lapidatori di Stefano, che approva la sua esecuzione ed è intento a smantellare la Chiesa di Gerusalemme perseguitando con perquisizioni e arresti i giudeo-cristiani di quella comunità.

Saulo è nato a Tarso (forse nel 5 d.C.) della provincia romana di Cilicia, una città di 300.000 abitanti, famosa per le scuole filosofiche, in particolare per quella stoica. Nato da genitori ebrei del giudaismo della diaspora (giudei che volontariamente erano andati a vivere fuori della Palestina), appartiene al movimento religioso dei farisei (riconoscimento della Torah orale e della Torah scritta, la fede nella risurrezione, rigidità nell’osservanza del sabato, delle leggi di purità e di altre prescrizioni della Torah) e si forma a Gerusalemme presso la scuola del famoso rabbino Gamaliele (era fariseo e insegnò a Gerusalemme tra il 25 e il 50 d.C.), figlio o nipote del più famoso rabbino Hillel, il quale ebbe un ruolo importante nella formulazione di criteri esegetici per l’interpretazione della S. Scrittura. Saulo, inoltre, eredita dalla sua famiglia la cittadinanza romana, che implicava l’acquisizione di vari privilegi: il diritto ad un processo equo, l’esenzione da pene ignominiose (ad es. la flagellazione), il diritto di sottrarsi alla giurisdizione di una corte minore per appellarsi alla corte dell’imperatore a Roma. Prima di aderire al cristianesimo fu un attivo persecutore della Chiesa. 

Saulo-Paolo, quindi, appartiene a tre mondi distinti: al giudaismo, per quanto riguarda la religione; per quanto riguarda la lingua e una certa integrazione culturale all’ellenismo; politicamente all’impero romano, del quale era cittadino. Può essere definito un cosmopolita.

...

3. L’evento di Damasco (At 9)

L’evento sulla strada di Damasco, dove Saulo fa l’esperienza dell’incontro con il Cristo Risorto e Vivente, è per il persecutore, un evento di conversione e di vocazione profetica. Siamo nel 35 circa d.C. 
a) È evento di conversione: non nel senso che da non-credente diventa credente, né che passa da una religione ad un’altra religione (non bisogna dimenticare che per tutto il I secolo il cristianesimo era considerato un movimento interno al giudaismo), ma che, dopo il fallimento del peccato, “ritorna a Dio” e al rapporto di Alleanza di amore con Lui, rapporto che ora è chiamato a vivere nella fede del Messia Gesù, il Risorto Vivente. 

Qual è il peccato-fallimento di Saulo-Paolo? È il suo essere un persecutore e un violento, il suo essere troppo sicuro di sé e chiuso alle imprevedibilità dei disegni di Dio, a causa di una visione troppo rigida della Torah/Legge che, paradossalmente, allontana da Dio. Tale fallimento è rappresentato dalla “caduta a terra” (At 9,4) e dalla “cecità” (At 9,8.9): è avvenuto che la Luce della presenza del Risorto ha “ribaltato” la sua esistenza, ha frantumato le sue sicurezze, lo ha disarmato, lo ha reso “debole” e ha “accecato” il suo modo attuale di vedere la Torah e la fede dei padri, per acquisire con un’altra prospettiva – quella del Messia Gesù – il modo di “vedere” la Torah, la fede dei padri e il nascente movimento cristiano. 

Questo movimento di conversione, di “ritorno” al Dio dell’Alleanza è suscitato non dal pentimento di Saulo, ma dalla iniziativa libera, imprevedibile e gratuita dell’incontro con il Cristo Risorto sulla strada per Damasco (le vie imprevedibili della Presenza di Dio… cui accennava Stefano). Ed è veramente l’esperienza di un incontro interpersonale: «Saulo, Saulo…» - «Chi sei, o Signore?» - «Io sono Gesù…». Tutta la persona di Saulo ne viene coinvolta: ascolto e visione, mente e cuore, interiorità e corporeità; dove nell’ascolto Saulo comincia a comprendere che il Messia Risorto è presente nei perseguitati, nei deboli, in coloro che sono disarmati, nonviolenti, in coloro che stanno imparando a camminare sulle Vie del Vangelo (At 9,2; 18,25-26; 19.9.23; 22,4; 24,14.22), cioè ad assumere lo stile di vita del Messia Gesù che è la Via (Gv 14,6). E, posto in una condizione di estrema debolezza, lui che prima si sentiva forte e sicuro di sé, ora ha bisogno di altri: di essere guidato dai suoi compagni (At 9,8); di essere evangelizzato e sostenuto da quelli che lui perseguitava: dal discepolo Anania (At 9,10-19), da altri discepoli, che comunque ancora avevano paura di lui (At 9,19b-26), e da Barnaba (“figlio della consolazione”), che lo prese con sé e lo condusse a Gerusalemme dagli apostoli per garantire della sua conversione, vocazione e missione (At 9,27). 
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