domenica 31 agosto 2014

"Essere prete nella Chiesa in dialogo": una lettera inedita di Paolo Dall'Oglio

Domenica 31 agosto ricorrono 30 anni dalla consacrazione al sacerdozio di Paolo Dall'Oglio, gesuita italiano, collaboratore fisso di Popoli con la rubrica La sete di Ismaele, rapito in Siria il 29 luglio 2013. Per fare memoria di questa ricorrenza, la famiglia ha deciso di rendere pubblica - attraverso il sito di Popoli - ampi stralci di una lettera inedita che padre Paolo scrisse in occasione della sua ordinazione diaconale, avvenuta un anno prima. 
Si tratta di un testo molto denso, in cui già sono contenuti i fondamenti sui quali padre Paolo (allora ventinovenne) ha costruito la sua vita e la sua missione in Siria, in particolare il percorso di consacrazione al dialogo. [La lettera è disponibile anche in formato audio, con la voce di Gianni Bersanetti: il link è alla fine di questo articolo].


Il 30 ottobre sarò ordinato diacono nella Chiesa del Gesù (a Roma, ndr), alle ore 16 in punto, secondo il rito della Chiesa siriaca e spero poi di essere ordinato prete a Damasco l’estate prossima. Il diaconato è «l’ordine del servizio ecclesiale»: si tratta del sacramento dell’ordine in questa sua prima dimensione, «il servizio». 

Noi sappiamo che ogni uomo ha una vocazione, ma ci pare che una persona che si occupa di stare in rapporto con Dio per aiutare i fratelli a trovarlo e che continua a spezzare per loro il Pane di Vita sulla scia di Gesù e degli Apostoli, debba essere chiamato in un modo molto chiaro. 

Una certa volta, in un posto e ad un’ora precisi, ho avuto la chiara coscienza che il Signore mi voleva con lui a tempo pieno e con tutto me stesso, per essere una persona a sua disposizione da mandare secondo i bisogni del Regno; il tutto accompagnato da molta gioia... Conoscevo già abbastanza i Gesuiti per intuire che in Compagnia avrei potuto realizzare quella vocazione... Ma sono meravigliato continuamente a causa di questa chiamata: la mia esperienza è che Dio non butta via nulla della persona, tutto deve essere e dovrà essere purificato e assunto per fare l’argilla con cui ci vuole plasmare. […] 

In questi anni, con i miei «Superiori» abbiamo portato avanti un discernimento riguardo alla mia missione nell’ambito del lavoro apostolico della Compagnia di Gesù. Questamissione è, in tre parole, quella di essere prete nella Chiesa in dialogo.
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"Un cuore che ascolta - lev shomea" - n. 39/2013-2014 (A) di Santino Coppolino

'Un cuore che ascolta - lev shomea'
Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)


Traccia di riflessione sul Vangelo
di Santino Coppolino


Vangelo:  
Mt 16,21-27




" Tu sei il Messia, il Figlio di Dio, il Vivente! "
Dopo la dichiarazione fatta a Cesarea di Filippo, Pietro ora è costretto a fare i conti con la modalità che Gesù intende utilizzare per incarnare il proprio messianismo. Da adesso in poi, e poco alla volta, Gesù comincerà a mostrare ai suoi discepoli la necessità 'divina' di salire a Gerusalemme, dove il Messia sarà chiamato a instaurare il Regno di Dio, ma non come il re Davide, con la violenza delle armi, ma in un modo totalmente altro, pacifico, che i discepoli ancora non riescono a comprendere; e dove lo vedranno assiso su un trono doloroso e infamante: la croce.
Quando Pietro proclama Gesù: "il Messia il figlio di Dio, il Vivente", non ha ancora compreso bene la portata della sua affermazione. Lui e i discepoli vanno dietro a Gesù ma non lo seguono e pensano che egli sia il Messia trionfatore che deve conquistare il potere con la violenza.
Ma ora che il Signore comincia a spiegarglielo, che apertamente annuncia ciò che lo attende a Gerusalemme, non solo si tira indietro ma, conducendo Gesù in disparte, "lo rimprovera" (il verbo utilizzato: epitimao, è lo stesso che l'evangelista usa quando Gesù rimprovera, in un esorcismo, il diavolo). Per Pietro l'affermazione di Gesù suona come una sonora bestemmia, un pensiero diabolico, una realtà lontana da Dio per la quale l'Onnipotente deve perdonarlo.
Infatti non afferma:"Dio non voglia, Signore !", come è riportato nella nostra traduzione, ma:
"Dio ti perdoni/ti usi  misericordia"
Pietro vuole esorcizzare l'idea che il Messia possa essere un perdente, uno sconfitto, uno che "deve molto patire ed essere ucciso", considera Gesù un invasato, un indemoniato, e le sue idee una follia. Gesù ristabilisce subito le gerarchie in seno alla sua comunità e detta ancora una volta le linee guida: è lui la Pietra Angolare sulla quale è edificata la sua Chiesa e non Pietro: "Infatti nessuno può gettare un fondamento diverso da quello già posto, che è Gesù Cristo"(1Cor 3,11), e a lui spetta tracciare il cammino che conduce alla realizzazione del Regno, non certamente a Pietro che, se vuole essere un discepolo fedele, deve lui seguire il suo Maestro, andargli dietro, e non viceversa.
L'unico autentico fondamento della Chiesa è Gesù soltanto, è lui l'esegesi vivente, l'incarnazione del messianismo che ci ha dato con la sua Parola, ma principalmente con la sua morte e resurrezione, e nessuno può arrogarsi il potere di mettere un fondamento diverso da questo. Lo stesso Pietro in seguito, nella sua prima lettera, riconoscerà che il Signore Gesù (e non lui) è la Pietra Angolare, scelta, preziosa, posta a fondamento della nuova Gerusalemme, mentre per coloro che non credono essa è divenuta sasso di inciampo e pietra di scandalo (cf. 1Pt 2,6-8). 


sabato 30 agosto 2014

Secondo Dio - Prepararsi alla domenica (XXII del T.O.) di Antonio Savone

Secondo Dio 
Prepararsi alla domenica
(XXII del T.O.)
di Antonio Savone


Nulla lasciava presagire una fine così ingloriosa. Lo avevano seguito e acclamato come l’uomo forte, l’uomo dei miracoli, l’uomo delle folle assiepate attorno alla sua parola e ai suoi gesti, anche se non sempre ne avevano colto il senso. La meta non poteva non essere Gerusalemme, felice coronamento della carriera del loro Maestro, un uomo tanto vicino a Dio da essere capace di avvicinarsi alle persone. Aveva quasi del prodigioso quando ridonava speranza a quanti l’avevano persa e riapriva varchi là dove persino la morte aveva già pronunciato la sua ultima parola.

Tu sei il Cristo, aveva esclamato Pietro. A buon diritto. Aveva visto bene Pietro. Sei tu colui che è stato stabilito come il restauratore delle sorti d’Israele. Le tue opere ne danno testimonianza.

Tutto faceva pensare ad un esito riuscito, un riconoscimento pubblico, ufficiale. Pietro poi era stato addirittura instradato nel ruolo di vice, forte anche di una beatitudine che lo accreditava addirittura presso il Padre di cui aveva colto l’illuminazione. Beato te, Simone…, aveva riconosciuto Gesù.

Ma subito avevano patito un primo disagio quando aveva comandato ai discepoli di non dire a nessuno che egli era il Cristo. E perché mai? Che motivo c’era per tacere?

E come se non bastasse, Gesù aveva sì parlato di Gerusalemme ma non come luogo del riconoscimento da parte delle autorità quanto come del luogo della riprovazione proprio da parte dei capi.

Il panico si sarà impadronito dei discepoli. Un’ombra cupa aveva fatto capolino sul loro facile entusiasmo.

No, questo proprio non poteva essere accettato. E perciò era toccato ancora una volta a Pietro farsi portavoce di un comune sentire: così mai! Pietro non può tollerare un Messia così. Il bene non può non vincere, non può non mostrarsi. La propria posizione non può non essere riconosciuta. È necessario un intervento forte, una mano ferma. Non abbiamo bisogno di tentennamenti: non aiutano nessuno… Noi abbiamo bisogno di un sicuro punto di riferimento. A cosa può servire un Messia che non si impone? È la crisi di Pietro. Ed è la crisi della nostra comunità cristiana proprio in questi giorni (basta scorrere la stampa). Mai definitivamente sopita la nostalgia di messianismi trionfalistici, la tentazione di affrettare il tempo in cui finalmente separare grano e zizzania.

E nel gestire il suo panico, ha persino un gesto di attenzione. Non vuole svergognare il maestro davanti a tutti: lo trae in disparte. Tenero, Pietro.

Ma, ahimè, da pietra angolare si ritrova scalzato e identificato come pietra d’inciampo, dalla beatitudine illuminante si ritrova come uno i cui sentimenti non sono quelli di Dio. Il fondamento viene retrocesso a scandalo. Povero, Pietro.

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Una secchiata d’acqua gelida e «solidale»

Guardando la TV, girando su internet e sui social network vi sarà capitato di vedere servizi giornalistici e video, di personaggi famosi e non, che si buttano secchiate d’acqua addosso. Non è un modo per rinfrescarsi ma è una campagna di solidarietà per i malati di sla, Sclerosi Laterale Amiotrofica. La doccia ghiacciata per beneficenza si è sparsa in modo particolare tra i Vip infatti sono tanti quelli che hanno aderito a questa iniziativa.


SLA: Ice Bucket Challenge – L’Ice Bucket Challenge è stata ideada da Pete Frates il quale si è fatto versare un secchio d’acqua ghiacciata addosso in segno di solidarietà con i malati di sla. Pete Frates è un ragazzo di 29 anni che da due anni lotta contro la sla, aveva 27 anni quando gli è stata diagnosticata e da quel momento lotta contro la malattia e soprattutto lotta a favore della conoscenza e della ricerca per sconfiggere il male. Il 31 Luglio Pete sulla sua pagina di Facebook scrive: “So I am nominating myself for the #icebucketchallenge cuz I can…ice water and ALS are a bad mix, so I got my friend Rob Van Winkle to help me out…Julie Frates Nicole Benson Connolly Blair Casey Will MB John Henry Feitelberg Sarah and Matt Ryan, Julian Edelman Tom Brady Toucher & RichThe Howard Stern Show you have 24 hours to dump a bucket of ice over your heads”. Amici, conoscenti hanno risposto all’appello che si è diffuso velocemente in tutto il mondo coinvolgendo anche personaggi famosi di ogni tipo...

Guarda il video (in inglese)

In Italia abbiamo imparato a conoscere questa malattia attraverso gli occhi dei calciatori, da Gian Luca Signorini a Stefano Borgonovo, che con lo sguardo hanno saputo rispondere alle ovazioni del pubblico del Ferraris di Genova e del Franchi di Firenze.
La Sla si combatte con la ricerca. Per questo servono soldi, tanti soldi.

Da qui l’idea tutta americana dell’ice bucket, ovvero del secchio d’acqua ghiacciata in testa. Una doccia gelata che in modo virale si è trasmessa in ogni angolo del pianeta coinvolgendo politici, artisti, sportivi e tanta, tantissima gente comune...
In molti, però, si chiedono il significato originale, oltre al noto scopo, della doccia gelata.
Il gesto intende far provare, almeno per un momento, la sgradevole sensazione di intorpidimento muscolare, di irrigidimento, di perdita di contatto con il proprio corpo. La sensazione che prova chi è affetto da Sla nelle prime fasi della malattia.

Ventiquattro milioni di video e altrettante secchiate d’acqua gelata, una «sfida del freddo» diventata virale, lanciata per sostenere la ricerca contro la Sclerosi laterale amiotrofica: la campagna lanciata dall’Als, l’associazione americana che aiuta i malati di Sla e le loro famiglie, in pochi giorni ha fatto il giro del mondo contagiando sostenitori e volti noti di cultura, spettacolo, sport, informazione e politica, da Bill Gates a George W. Bush, da Lady Gaga a Fiorello, fino al premier italiano Matteo Renzi. 
Non solo un gioco che ha fatto il giro del web: lanciata a inizio agosto da Pete Frates, 29 anni, malato di Sla ed ex promessa del baseball americano, l’«Ice Bucket Challenge» negli Stati Uniti ha già raccolto donazioni per 62.5 milioni di dollari. In Italia anche l’Aisla, l’Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica, ha aderito ufficialmente alla campagna: sul sito dell’associazione si possono trovare gli estremi per le donazioni (ecco il link per donare on line)...

Parlando attraverso una macchina, il texano David Kurt McClain, affetto dalla sclerosi laterale amiotrofica da 12 anni, ha postato la sua doccia gelata su YouTube
''Oggi voglio nominare i miei amici di Facebook, questa è la mia sfida. Ma vi chiedo anche di fare delle donazioni, perchè anche grazie a voi possiamo trovare una cura a questa malattia orribile. C'è sempre speranza''
Guarda il video

Siamo sinceri: tirarsi addosso un secchio di acqua gelata, facendosi un «auto-gavettone», a prima vista non è propriamente un gesto 
epocale. E forse nemmeno tanto intelligente. Tanto più se lo fai davanti a una telecamera, pubblicando poi sui social network il video dell’«impresa». Il gioco, peraltro, non è nemmeno così nuovo. Gli adolescenti americani lo fanno da anni. Nuovo – e per certi versi rivoluzionario – è il fatto che gli «autogavettoni» siano diventati, nel giro di poche settimane, una catena di solidarietà di una potenza inimmaginabile...
Perché il web è strano, perché la gente è strana: quel «gioco» che un momento prima ci coinvolgeva tanto, un minuto dopo non ci fa più così effetto. E questo è un altro, forse il più importante rischio dell’Ice Bucket Challenge: farci fermare tutti alla superficie delle cose. 
Farci vedere il dito (il gioco) e non luna (la beneficenza). Perché per donare basta poco. Per essere davvero solidali occorre di più. Molto di più. 

Egregio Presidente del Consiglio dei Ministri,
sono Luigi, uno dei 3500 (ma quanti siamo veramente?) malati di SLA. Io in due anni sono passato da escursionista a completamente immobile, mi restano solo gli occhi per poter comunicare.
Questa sera, alla trasmissione “In Onda”, ho visto il suo gavettone per la SLA e se non sbaglio è stato preceduto anche da quello del Ministro della Salute Lorenzin. Vi sono grato per aver aderito a questa iniziativa, nata negli USA, ma onestamente credo che possiate fare molto di più. Certo non i miracoli che certi santoni, o stregoni, promettono al modico prezzo di 25/30 mila euro.
Io sono per la vera ricerca, unica strada che ci può portare fuori da questo pozzo che sembra senza fondo. I tempi della ricerca non sono mai brevi, quindi speriamo che chi verrà dopo di noi abbia più fortuna, visto che la SLA è una malattia che non regredisce, anzi tutt’altro.
Ma cosa può fare Lei Presidente oltre il gavettone e la somma che ha offerto? A mio modesto parere molto di più, almeno su due questioni che per noi sono all’ordine del giorno (come si dice in politichese)...

La speranza è che l’attenzione non duri solo il tempo di una doccia, perché i risultati in prospettiva potrebbero essere veramente notevoli. L’iniziativa virale Ice Bucket Challenge, le secchiate d’acqua gelata con nomination inclusa per raccogliere fondi a favore della ricerca sulla Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), sta riscuotendo un successo straordinario facendo impennare le donazioni alle associazioni e agli istituti che si occupano della cura e della ricerca contro la patologia...

 


Migranti, «un vero Paese sa accogliere» - "Crimini contro l’ospitalità"

No, non siamo innocenti. Anzitutto perché non potremo dire, in futuro, che non sapevamo, che eravamo all’oscuro di tutto. Né possiamo chiamarci fuori oggi lamentando l’impotenza dei cittadini di fronte al potere politico. Senza cittadini impotenti il potere sarebbe, a sua volta, impotente. Non siamo innocenti perché non possiamo ignorare che la nostra ricchezza, sempre, s’intende, relativa, ha come risvolto la povertà altrui e tutte le conseguenze incalcolabili che comporta: fame, guerre, genocidi. Non abbiamo nessun merito per vivere da questa parte del mondo. I privilegi di cui profittiamo sono altrettanti svantaggi, perdite, danni per coloro che vivono nella parte sbagliata. Un gesto compiuto qui può avere esiti devastanti altrove, fino a provocare, pur attraverso una serie ininterrotta di cause involontarie, l’agonia di qualcuno. 

La morte degli altri avviene senza che noi, abitanti delle sovrabbondanti e protette metropoli occidentali, ne siamo a conoscenza. Inconsapevoli, eppure In un mondo solcato dall’ingiustizia sociale, diviso dalle diseguaglianze, invochiamo sicurezza contro il disordine dilagante, contro la minaccia dell’immigrazione. Tutti i dispositivi sono infatti volti a proteggere noi e a escludere loro. Ci crogioliamo nell’illusione che sia sufficiente consolidare le nostre fortezze per far fronte alla pressione dei cosiddetti flussi migratori. Riteniamo legittimo e legale lasciare nell’illegalità estrema chi è rimasto fuori dalla porta. Permettiamo che, attraverso mille esclusioni, lo straniero resti estraneo alla prosperità e al conforto, al diritto e al riparo. Ci disinteressiamo della sua condizione, della sua storia, della sua sorte. Preferiamo ignorarne l’esistenza, evitarne l’incontro, sfuggirne il volto. Lo temiamo. Dietro i dispositivi e i controlli, le misure innumerevoli a cui sottoponiamo lo straniero, dall’identificazione all’espulsione, si nasconde a stento il nostro timore della vendetta. È peraltro la stessa vendetta che, sotto forma di collera popolare e spirito di rivolta, si aggira intorno a noi nei sobborghi delle capitali, nelle periferie dei capitali. Non distingue tra un dentro e un fuori; il desiderio di vendetta trascende le frontiere. Reclamare sicurezza non serve; tradisce solo la cattiva coscienza di chi si sottrae alla responsabilità. Ma non c’è esistenza, preservata e protetta, che possa dirsi innocente. 

Come mai, da che mondo è mondo, non si dà riparo allo straniero? Che Paese è il nostro, in cui la paura condiziona e pregiudica l’ospitalità? Ne fa addirittura un crimine, sanzionando chi ospita un immigrato irregolare? Mentre allo Stato è consentito perpetrare 
crimini contro l’ospitalità? Non dobbiamo dimenticare che l’accoglienza indica il luogo offerto all’altro in cui confluiscono i concetti di ospitalità, fraternità, umanità. Non ci può essere umanità senza accoglienza dell’ospite. Già Kant, delineando un diritto cosmopolitico, che varcasse i confini degli stati e delle nazioni, aveva parlato del diritto universale all’ospitalità, cioè di un 'diritto di visita', senza condizioni, e di un 'diritto dell’ospite', per cui è necessario accogliere lo straniero come 'coabitante'. 

Accoglienza è quel gesto femminile in cui si condensa l’etica stessa. Che cosa sarebbe altrimenti l’esistenza umana? Ciascuno di noi, a partire dalla nascita, è già sempre accolto in un luogo che non è suo, che lo precede, di cui non può appropriarsi e che può abitare a sua volta solo come ospite, come straniero residente. Siamo tutti stranieri residenti in una terra d’asilo che non ci appartiene, accolti e chiamati ad accogliere, nel segno di una politica di coabitazione che il mondo globalizzato rende imprescindibile. 
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Tra denuncia politica e reportage filosofico, questo libro è un viaggio in un centro di identificazione e espulsione, quell’Ade invisibile e nascosto dove vengono relegate le scorie umane della globalizzazione. Ma il viaggio diventa occasione per riflettere sui campi per gli stranieri, sulla retorica ambigua dell’accoglienza. Dove finisce la protezione umanitaria e dove comincia il controllo poliziesco?...

venerdì 29 agosto 2014

L’assemblea eucaristica “luogo dove tutti si sentono a casa”

L’assemblea eucaristica dovrebbe essere “un luogo dove tutti si sentano a casa”: migranti, fedeli in situazione matrimoniale irregolare, persone disabili, malati, poveri, anziani, bambini. È la raccomandazione, espressa in un intervento da monsignor Nunzio Galantino, vescovo di Cassano all’Jonio e segretario generale della Cei, parlando a Orvieto ai partecipanti alla 65ª Settimana liturgica nazionale organizzata dal Cal (Centro Azione Liturgica). 

Galantino ha evidenziato prima di tutto la necessità di adottare l’atteggiamento suggerito da Papa Francesco di una Chiesa “in uscita”, che “prende l’iniziativa” per essere “accogliente” e “accorciare le distanze”. In ambito liturgico, ha raccomandato di non organizzare celebrazioni eucaristiche “settoriali”. 

Il segretario generale della Cei ha sollecitato un’attenzione particolare dell’assemblea eucaristica, nei confronti dei poveri” e in proposito ha posto una serie di domande provocatorie sulle quali i cristiani sono chiamati ad interrogarsi...

Allo stesso modo, ha proseguito, le celebrazioni devono dedicare particolari premure verso “malati, sofferenti, persone disabili”...

Stesso atteggiamento va espresso nei confronti dei migranti...

Infine, Galantino ha ricordato la situazione dei fedeli in situazione matrimoniale irregolare...



"La mia vita nel pozzo" la tesi di Andrea con una mente che «funziona... diversamente»

Una gabbia. O meglio un buco. La luce in alto conferma che fuori c’è un mondo, per cui però spesso sei un «goffo stupido tonto». Poche connessioni «tra la parte che vive nel pozzo» e quello che gli altri percepiscono, ma non perché una sia una fortezza vuota e l’altra una scatola piena di parole. Perciò gradino dopo gradino, con gli strumenti giusti, dal fondo nero Andrea è salito su, fino alla laurea, perché «volevo uscire dal silenzio per dimostrare di essere intelligente» e di essere «diverso da quello che sembro». Poche parole scritte su un pc nel sabato in cui la città di Rieti lo premia per il suo traguardo, poi di corsa a chiudersi in camera sua. 

In fondo, non è facile spiegare il motivo di una tesi – "La mia vita nel pozzo" – proprio sull’autismo e i social network. Soprattutto se in quelle pagine di pensieri minimi, sono racchiusi i suoi primi 28 anni da autistico con deficit cognitivo grave. Questa la diagnosi che papà Virgilio e mamma Ines Paolucci si sono sentiti ripetere fino alla nausea nei primi 11 anni della vita di Andrea. Decine di medici, altrettante terapie persino oltreoceano per non arrendersi a quell’apparente incomunicabilità del loro unico figlio. Poi la scoperta della comunicazione aumentativa alternativa (Caa) e di una tastiera che ha consentito a questo ragazzo dolce con gli occhiali spessi, d’imparare a leggere, diplomarsi e, dopo 29 esami scritti in sette anni, di laurearsi con 110 e lode in Scienze della formazione nell’ateneo dell’Aquila...




Nell’aula consiliare del Comune di Rieti, questa mattina il sindaco di Rieti Simone Petrangeli ha consegnato ad Andrea Paolucci l’attestato di merito, a nome di tutta la città, per il conseguimento con 110 e lode della laurea in Scienze della Formazione e del Servizio Sociale presso l’Università di L’Aquila.

Visibilmente commosso Andrea, in presenza anche dei suoi genitori mamma Ines e papà Virgilio dell’Associazione Loco Motiva, ha ringraziato i presenti chiedendo a tutti di dare l’attenzione che gli è stata rivolta anche ad altri ragazzi con problemi...







giovedì 28 agosto 2014

Papa Francesco UDIENZA GENERALE 27 agosto 2014 - foto, testo e video


 27 agosto 2014 

Dopo la pausa di luglio e dopo le prime due udienze generali di agosto nell'Aula Paolo VI, l'incontro settimanale con i fedeli di papa Francesco è tornato oggi in piazza San Pietro. Erano presenti circa 12mila persone. 
Francesco è arrivato sulla papamobile scoperta, per il giro tra la folla plaudente. Appena varcato l'Arco delle Campane, ha fatto fermare la jeep per scendere a salutare un bambino disabile. 
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Di tanto in tanto ha chiesto soste per baciare e accarezzare altri bambini.
Come era già successo altre volte, il pontefice accetta e sorseggia con la cannuccia il mate, la bevanda argentina, offertagli dai fedeli lungo il percorso.


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Cari fratelli e sorelle, buongiorno.
Ogni volta che rinnoviamo la nostra professione di fede recitando il “Credo”, noi affermiamo che la Chiesa è «una» e «santa». Èuna, perché ha la sua origine in Dio Trinità, mistero di unità e di comunione piena. La Chiesa poi è santa, in quanto è fondata su Gesù Cristo, animata dal suo Santo Spirito, ricolmata del suo amore e della sua salvezza. Allo stesso tempo, però, è santa e composta di peccatori, tutti noi, peccatori, che facciamo esperienza ogni giorno delle nostre fragilità e delle nostre miserie. Allora, questa fede che professiamo ci spinge alla conversione, ad avere il coraggio di vivere quotidianamente l’unità e la santità, e se noi non siamo uniti, se non siamo santi, è perché non siamo fedeli a Gesù. Ma Lui, Gesù, non ci lascia soli, non abbandona la sua Chiesa! Lui cammina con noi, Lui ci capisce. Capisce le nostre debolezze, i nostri peccati, ci perdona, sempre che noi ci lasciamo perdonare. Lui è sempre con noi, aiutandoci a diventare meno peccatori, più santi, più uniti.
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Guarda il video della catechesi


Toccante momento a margine dell’udienza generale. Papa Francesco ha ricevuto l’ex ministro cristiano pakistano Paul Bhatti e sua madre. Subito dopo l’incontro, Alessandro Gisotti ha raccolto la testimonianza di Paul Bhatti, che tre anni fa ha perso il fratello Shahbaz ucciso dagli integralisti islamici

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mercoledì 27 agosto 2014

Ricordando dom Hélder Camara

Moriva il 27 agosto di 15 anni fa Hélder Câmara, uno dei vescovi latinoamericani più amati, grazie alla sua passione per una Chiesa povera e dei poveri, alla sua attenzione per le persone e alla sua fede incarnata. Il ritratto di un pastore che può essere certamente considerato un precursore di papa Francesco. 


«Il vescovo rosso Câmara sulla via della beatificazione», strillava Il Messaggero del 29 maggio scorso. Un titolo che la dice lunga su come una parte dell’opinione pubblica ha accolto la notizia dell’imminente apertura del processo canonico che potrebbe portare sugli altari dom Hélder Câmara, arcivescovo di Olinda-Recife. Tra i protagonisti della storia recente (non solo ecclesiale) dell’America Latina, Câmara stesso, per tutta la sua vita, ha dovuto fare i conti con quella pesante etichetta: «Quando do da mangiare a un povero mi chiamano santo - è una delle sue frasi passate alla storia -, ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora mi chiamano comunista».

Curioso: anche papa Francesco, rispondendo alle domande di un gruppo di giovani belgi, pochi mesi fa aveva chiarito: «Ho sentito che una persona ha detto: con tutto questo parlare dei poveri, questo Papa è un comunista! No, questa è una bandiera del Vangelo, la povertà senza ideologia; i poveri sono al centro del Vangelo di Gesù».

Ecco: se c’è un motivo per cui valga la pena oggi, a 15 anni esatti dalla morte, rievocare la figura di dom Hélder - nato nel 1909 e morto il 27 agosto 1999 -, è la sua passione per i poveri, il suo straordinario impegno per rendere la Chiesa più fedele a quella di Gesù: «Una Chiesa povera per i poveri». In questo si può affermare, senza tema di smentite, che Câmara ha anticipato papa Bergoglio...





Francesco e gli errori americani di Franco Cardini - Padre Alex Zanotelli: Altro che curdi, l’affare sono le armi

Francesco 
e gli errori americani

di Franco Cardini

Il Califfo nero dell’Isis ha molti amici in Medio Oriente. Le parole di Bergoglio spronano gli Usa e l’Onu: bisogna tagliare i ponti con gli sponsor del terrore

" I jihadisti del califfato di al-Baghdadi sono appoggiati, finanziati e armati – direttamente o indirettamente – dagli emirati della penisola arabica, tutti (con una mezza eccezione per il Qatar, che segue una linea propria) rigorosamente sunniti – tali sono quanto meno gli emiri, anche se non tutti i loro rispettivi popoli – e alleati fino ad oggi sicuri “dell’Occidente”, vale a dire essenzialmente degli Stati Uniti d’America, per quanto nei recenti scellerati casi libico e siriano abbiano trovato dei compagni di strada più sicuri nei governi britannico e soprattutto francese...
Bisogna ricordare tutto questo, nel momento stesso in cui va detto che il pasticcio iracheno è stato combinato dall’unilaterale intervento statunitense del 2003 contro Saddam Hussein, che avrà avuto tutti i difetti di questo mondo ma almeno manteneva nel suo paese la pace religiosa all’insegna della tolleranza. Ed eccoci al nucleo di tutti. Gli americani, in Iraq come altrove, criptoalleati dei fondamentalisti islamici (come sono stati nello stesso Afghanistan prima del 2001) o loro avversari, nel Vicino o Medio Oriente di pasticci ne hanno combinati fin troppi: quel che oggi bisogna evitare se non addirittura impedire è una nuova loro iniziativa unilaterale. ...


Padre Alex Zanotelli 

Altro che curdi,
 l’affare sono le armi
intervista di Alessio Schiesari



Ma il governo ragiona?Si rende conto di cosa significhi inviare armi ai curdi?”.
Padre Zanotelli, missionario e pacifista ‘senza se e senza ma’ non ha dubbi: questo è lo stesso Occidente che ha demolito Afghanistan e Iraq sotto Bush.Con una sola differenza: questa volta le piazze sono vuote, a protestare contro la guerra sono in pochi

Il Parlamento ha votato: per fermare i terroristi dell’Isis è necessario mandare armi al governo iracheno, che le distribuirà ai Peshmerga. È questa la strategia giusta?
La mia è un’opinione categorica: è tutto profondamente sbagliato. È la solita vecchia storia che serve ad alimentare l’industria bellica delle armi ed è il solito Occidente che piange gli stessi cadaveri che causa. Quei morti escono dalle nostre fabbriche.
Questa volta però la situazione irachena sembra veramente drammatica
Ma il governo ragiona? Lo sa cosa significa dare armi ai curdi? Vuol dire spaccare il Paese in tre. Ma in fondo è questo che vogliamo: spaccare tutto. Come abbiamo fatto nel 2003, per una guerra che oggi gli stessi americani reputanofolle. Ma oggi è tardi.
Abbiamo sconfitto Saddam Hussein. “Missione compiuta”,disse Bush.
Oggi i nemici sono i fondamentalisti islamici, ma ci scordiamo che sotto Saddam Hussein quella roba non c’era. E nemmeno sotto Gheddafi. Ci scordiamo tutto, invece dovremmo ricordare. Ad esempio il bombardamento di Fallujah col fosforo bianco.
Quindi inanelliamo un errore dopo l’altro?
No, non sono errori. Questa è la strategia dell’Occidente: aprire nuovi fronti bellici per vendere più armi. E allora sa cosa le dico? In malora l’Occidente.
Ma per bloccare i fondamentalisti qualcosa bisognerà pur fare, no?
L’Isis fa paura, come pure il milioni di morti tra i civile della guerra del 2003. In questi casi però è l’Onu che dovrebbe intervenire: diventare una forza di interposizione, creare cordoni umanitari. Lo so, è facile criticare il suo operato, ma la comunità internazionale ha bisogno di una forza morale che faccia da guida.
Altrimenti andiamo avanti in ordine sparso: gli Usa bombardano, l’Italia manda le armi.
Perché abbiamo scelto l’embargo per l’Iran e non prendiamo contromisure contro i Paesi che hanno contribuito ad armare i terroristi, sauditi e qatarioti in testa?
Perché c’è un’enorme disparità di trattamento a tutti i livelli. Lo stesso ragionamento si può fare per Israele, che opprime sistematicamente Gaza. Quali sono state le reazioni occidentali? Nulla, zero assoluto. I nostri boicottaggi non sono mai motivati da scelte etiche, quanto invece da strategie geopolitiche e commerciali.
C’erano una volta i pacifisti: le grandi marce, le piazze piene. Oggi invece tutto tace. Perché?
Gli ultimi vent’anni c’hanno atomizzati, la cittadinanza attiva quasi non esiste più. E i movimenti per la pace non hanno aiutato: siamo sempre divisi su tutto. Dovremmo vergognarci. Però qualcosa stiamo provando a fare: con Cgil stiamo organizzando una marcia a Firenze. Non è facile, ma una piccola giustificazione ce l’abbiamo.
Qual è?
Dieci anni fa c’erano più forze politiche che portavano queste istanze dentro il Parlamento.
Oggi molti sembrano essersi scordati di cosa dice la nostra Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Qualcuno suggerisce di dialogare con l’Isis. È una via percorribile?
L’assunto di partenza è giusto: no alla guerra. Però è chiaroche stiamo parlando di qualcosa di quasi utopico. Potremmo iniziare a smettere di creare nemici a ripetizione e a guardare alle nostre responsabilità.
L’ha detto pure il Papa: rischiamo la terza guerra mondiale. Se continuiamo così, esplode tutto.

Fonte: Il Fatto Quotidiano del 24.08.2014


martedì 26 agosto 2014

Il ricordo di Enzo Baldoni a dieci anni dalla sua uccisione

Enzo Baldoni fu ucciso presumibilmente il 26 agosto 2004, dieci anni fa. La data non è certa: era stato rapito pochi giorni prima in Iraq da un’organizzazione armata islamista che lo ammazzò dopo aver chiesto il ritiro dall’Iraq dei militari italiani. Aveva 56 anni.
Enzo Baldoni era andato in Iraq per una sua attitudine a cercare di conoscere e capire le cose...

Lui sì che era un giornalista, uno di quelli veri! Parliamo di Enzo Baldoni, umbro di Città di Castello, assassinato in Iraq esattamente dieci anni fa mentre cercava di scoprire e raccontare la verità su una sporca guerra sulla quale troppi hanno versato fiumi di retorica, fino ad arrivare a definirla pomposamente “missione di pace”. Ma quale pace, ma quale missione: quella in Iraq è stata un’invasione a tutti gli effetti, un conflitto lurido e devastante di cui paghiamo tuttora le conseguenze: noi occidentali, alle prese con le minacce del fondamentalismo islamico che prima non c’era o, comunque, era tenuto a bada mentre oggi è il “dominus” dell’intera regione, e la popolazione civile di quel martoriato paese, passata dal regime sanguinario di Saddam al caos e all’instabilità politica più assoluta, in cui a farla da padroni sono i tagliagole dell’ISIS e altri gruppi di farabutti simili a quelli che dieci anni fa assassinarono un giornalista che rifiutava le verità ufficiali e preferiva andare a vedere di persona cosa stesse accadendo da quelle parti, ben sapendo di rischiare la vita.
...
Baldoni sapeva e scriveva, dicendo le cose come stanno realmente con la cruda brutalità di chi detesta le edulcorazioni ipocrite e, alla fine, riesce sempre a strapparti un sorriso, a indurti a riflettere, a farti sentire protagonista di un dramma collettivo che è anche il nostro, benché molti di noi non se ne rendano conto, illusi come siamo che l’Iraq sia lontano, la Siria pure e che i profughi che sbarcano a centinaia sulle nostre coste, quando non annegano nel Mediterraneo, vengano da misteriosi paesi lontani e non da quelle stesse terre in cui si è consumata la strage di Nassiriya, lo scempio di Abu Ghraib, l’uccisione di decine di giornalisti coraggiosi e indipendenti e l’eccidio di centinaia di migliaia di civili innocenti, assassinati prima dalle bombe occidentali e poi dagli attentati del fondamentalismo jihadista, frutto della rabbia, dell’ignoranza e del vuoto di potere e di speranza che si è venuto a creare in tutto il Medio Oriente. Ecco, Enzo Baldoni era un uomo che conosceva molto bene il valore della speranza, solo che si faceva portavoce di una speranza realista e consapevole, informata e ricca di idee, di umanità, di dolore: quella sofferenza e quella disperazione autentiche che Enzo raccontava senza mai indulgere nella fastidiosa retorica del vittimismo o del piagnisteo interessato. La sua speranza, in poche parole, derivava dall’evidenza del male, dalla descrizione della ferocia e dell’abiezione umana nel loro dispiegarsi quotidiano, riprendendo quel concetto di “banalità del male” descritto da Hannah Arendt ma oggi sconosciuto ai più.
Come detto, Baldoni era uno di quei giornalisti veri, uno di quei cronisti che mettevano al centro delle loro cronache la dignità dei popoli e delle persone, il rispetto verso i più deboli, la pietà verso lo strazio di chi ha perso tutto e il desiderio di conoscere e di comprendere le ragioni dell’altro, senza paraocchi, pregiudizi e quell’insopportabile senso di superiorità che spesso caratterizza noi occidentali...

Dieci anni fa, era il 26 agosto 2004, veniva ucciso da un gruppo di guerriglieri islamici il pubblicitario milanese Enzo Baldoni, in Iraq come giornalista freelance per il settimanale Diario . Nell'anniversario di una morte un po' dimenticata, a tenere alto il ricordo è la moglie Giusi Bonsignore...


L'attualità del magistero di Giovanni Paolo I


La sera di trentasei anni fa, dopo un conclave lampo, veniva eletto Papa Giovanni Paolo I. L'attualità del suo magistero

«Vuoi essere affabile, misericordioso con i poveri, con tutti i bisognosi?». Era questa una delle domande che il 28 dicembre 1958, nel giorno della sua consacrazione episcopale in San Pietro, Albino Luciani, si sentì rivolgere. «Lo voglio», aveva risposto con voce dimessa. E l'amore per i poveri avrebbe caratterizzato l'episcopato a Vittorio Veneto, a Venezia e nella Città Eterna. Lo si comprende rileggendo qualche passo delle omelie e dei discorsi di questo pastore veneto, che da vescovo di Roma, eletto la sera di trentasei anni fa, sarebbe stato così vicino al modello di Papa parroco incarnato da Pio X.
Luciani, prete lontano mille miglia dal virus del carrierismo ecclesiastico, divenuto vescovo per deciso volere di Roncalli, non era uno che «se la credeva», per usare un'espressione di Papa Francesco. Diceva di sé: «Alcuni vescovi somigliano ad aquile, che planano con documenti magistrali ad alto livello; io appartengo alla categoria dei poveri scriccioli che, nell’ultimo ramo dell’albero ecclesiale squittiscono».
Figlio di un emigrante socialista, nel biglietto che gli scrisse suo padre dalla Francia dandogli il consenso a entrare in seminario si leggeva: «Spero che quando tu sarai prete, starai dalla parte dei poveri, perché Cristo era dalla loro parte». Non fece fatica a mettere in pratica quelle parole...

Un sacerdote che ha vissuto nell’umiltà, nella carità e nell’obbedienza, facendo coincidere quanto insegnava con la sua vita: è il profilo spirituale di Albino Luciani tracciato dal cardinale Beniamino Stella, prefetto della Congregazione per il clero. Nel pomeriggio di martedì 26 agosto, giorno in cui ricorre il trentaseiesimo anniversario dell’elezione di Giovanni Paolo I, il porporato ha celebrato la messa nella parrocchia di San Giovanni Battista a Canale d’Agordo, paese natale di Luciani...
Il porporato ha concluso ringraziando il Signore «per il dono alla Chiesa che è oggi Papa Francesco, il quale — ha sottolineato — con il suo sorriso, la sua semplicità, la sua umanità e il suo non risparmiarsi per il servizio alla Chiesa ci fa ricordare il “nostro” Papa Luciani».



James Wright Foley: una vita da ricordare!

Oggi, quando pensiamo a James Wright Foley, c’è un’immagine stampata nella nostra memoria collettiva: lo screenshot di un video, un prigioniero sull’orlo della morte. È una fotografia terribile, la scena finale del tragico viaggio di Foley dal documentare la guerra a esserne vittima.
Sono ancora in corso accesi dibattiti su se sia etico guardare queste immagini e questo video. Cliccando su ‘play’ si fa il gioco della propaganda? Si depriva un uomo della sua dignità? Oppure è nostra responsabilità l’essere testimoni, anche se fa male?
Non ci sono risposte facili a queste domande. Ma una verità certa c’è: James Foley è molto più di quell’ultimo, terribile momento. 
La sua vita non può essere riassunta dal modo barbaro in cui è stato ucciso. È stato un figlio, un fratello, uno studente, un insegnante, un giornalista e un amico.
In questo spirito la famiglia Foley ha deciso di condividere esclusivamente con l’Huffington Post alcune preziose foto di famiglia. Le immagini che troverete qui sotto non mostrano la morte di James Foley, parlano invece della sua vita e del modo in cui l’ha vissuta.

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“Cari familiari e amici,
ricordo quando andavo al centro commerciale con papà, un lungo giro in bicicletta con mamma. Ricordo dei momenti bellissimi con la famiglia che mi portano lontano da questa prigione. Sognare i parenti e gli amici mi porta lontano e mi riempie il cuore di felicità. So che mi pensate e che pregate per me. E ne sono grato. Vi sento vicini soprattutto quando prego. Prego che voi siate forti e abbiate fiducia. Quando prego mi sembra davvero di toccarvi, anche nell’oscurità...

Jim Foley aveva una fede profonda. Dopo essere stato rilasciato in Libia aveva scritto: "La preghiera è stato un collante che ha permesso la mia libertà, una libertà interiore prima e dopo il miracolo di essere rilasciato" Il cardinale Barbarin: "Recitava tutti i giorni il rosario". La telefonata del Papa ai genitori.

Poco prima della celebrazione nella chiesa di Nostra Signora del Rosario, John e Diane hanno confidato alla France Presse di augurarsi che la vita e il lavoro di loro figlio, brutalmente ucciso a 40 anni, rappresentasse in futuro un esempio per tutti coloro che difendono la libertà di stampa e la pace nel mondo. Poi hanno lanciato un appello per la liberazione degli altri giornalisti rapiti, in particolare Steven Sotloff, un Americano di 31 anni, ostaggio assieme a Foley, minacciato dai jihadisti di essere la prossima vittima. 
“Preghiamo per gli ostaggi che sono ancora là, in particolare per Steven Sotloff. Conserviamo la speranza che qualcosa possa essere fatto per lui per risparmiargli una simile fine”, ha detto John Foley, davanti a centinaia di amici della famiglia. Durante la cerimonia è stato anche letto un messaggio di papa Francesco. (fonte afp)

“Preghiamo per la fine della violenza insensata e per un’alba di pace e riconciliazione tra tutti i membri della famiglia umana”. E’ quanto scrive Papa Francesco in un messaggio inviato ai partecipanti alla Messa che si è tenuta, ieri, in New Hampshire per ricordare James Foley, il giornalista americano ucciso brutalmente in Iraq dai jihadisti dello Stato Islamico. Nel suo messaggio, letto alla fine della Messa, Francesco si unisce al dolore dei familiari, amici e colleghi del reporter Usa, assicurando la sua preghiera e vicinanza spirituale.
Alla celebrazione, che si è tenuta in una chiesa di Rochester, frequentata dalla famiglia Foley, hanno preso parte centinaia di persone. A presiedere il rito, il vescovo locale Peter Libasci che ha messo l’accento sulla forza che James, come la sua famiglia, hanno sempre attinto dalla fede cattolica. Il presule ha inoltre pregato per il giornalista americano, Steven Sotloff, e per gli altri ostaggi ancora in mano ai jhadisti in Iraq. (fonte: RADIO VATICANA)



lunedì 25 agosto 2014

LETTERA APERTA A FRANCESCO, VESCOVO DI ROMA: VENIAMO ANCHE NOI.



LETTERA APERTA A FRANCESCO, VESCOVO DI ROMA:
VENIAMO ANCHE NOI.

Carissimo fratello Francesco,

un caloroso abbraccio e un bacio da tutti noi per il modo diretto e umano con cui affronti ogni giorno tutte le situazioni, anche le più complesse e drammatiche.

Abbiamo ascoltato e accolto la chiarezza e determinazione con cui stai affrontando il groviglio di conflitti, sfociati in guerre crudeli a livello planetario. Ti siamo riconoscenti perché dai a tutti la possibilità di uscire dal dilemma della violenza contro la violenza e offri positivamente la strada per comporre i conflitti con la vera funzione e autorità dell'ONU. Sappiamo che sei solo in questo momento di fronte agli Stati che continuano ad armare i contendenti, soluzioni immediate che produrranno solo ulteriori complicazioni. Condividiamo con te il grande dolore per tutte le persone, senza distinzione etnica o religiosa, che devono soccombere ingiustamente. Condividiamo la sofferenza per la miopia dei responsabili politici, che continuano a confidare nella superiorità della forza armata per risolvere i conflitti, senza mettere in discussione i propri interessi, in particolare l'industria delle armi.

Prendiamo molto sul serio la tua disponibilità ad entrare fisicamente nel conflitto iracheno per incontrare tutte le parti. Siamo sicuri che in molti saremmo disposti e felici di accompagnarti in una missione di pace. La tua proposta rimanda il nostro pensiero all’esperienza da noi fatta con don Tonino Bello nel 1992 a Sarajevo per rompere l’assedio. Siamo consapevoli che rimane un gesto, ma potrebbe essere uno stimolo forte per sollecitare gli Stati ad affrontare il conflitto con modalità nuove e diverse.

Preghiamo con te e manteniamo forte la fiducia nonostante le risposte negative che ci troviamo ad affrontare ogni giorno. Ti siamo tanto riconoscenti.

Per l'Associazione Beati i costruttori di pace
don Albino Bizzotto

Padova, 21 agosto 2014.



"Francesco, la Chiesa rinasce dentro di noi" di Enzo Bianchi

Papa Francesco ha parlato spesso di riforma, e in modo articolato e preciso, mostrando che nella sua volontà di vescovo di Roma c’è l’intenzione di reformare, di mutare la forma di molte istituzioni e atteggiamenti presenti nella Chiesa. Per questo sono risuonate sulle sue labbra con forza e convinzione le antiche parole patristiche «Ecclesia semper reformanda». Ma di quale riforma si tratta? Da ottimo conoscitore della spiritualità ascetica, soprattutto ignaziana e post-tridentina, Francesco sa bene che nella vita spirituale una tappa decisiva consiste nel «deformata reformare»: è la stessa urgenza espressa da papa Giovanni nell’indire il Concilio. Senza citare costantemente testi conciliari e senza mai ricorrervi come strumento di battaglia, Bergoglio vuole riprendere quella riforma.

In un’omelia a Santa Marta ha detto: «La purificazione del tempio da parte di Gesù (cfr. Gv 2,13-22) è l’icona della riforma della Chiesa. “Ecclesia semper reformanda”, la Chiesa ha sempre bisogno di rinnovarsi perché i suoi membri sono peccatori e hanno bisogno di conversione» (9 novembre 2013). E in un’altra occasione ha precisato: «Ci saranno incongruenze, ancora ci saranno sempre, perché siamo umani, e la riforma deve essere continua. I Padri della Chiesa dicevano: “Ecclesia semper reformanda”. 

Dobbiamo stare attenti per riformare ogni giorno la Chiesa, perché siamo peccatori, siamo deboli...» (In volo al ritorno dalla Terra Santa, 26 maggio 2014).

Se questa volontà di riforma è vera, occorre però subito chiarire che il Papa non pensa innanzitutto alla riforma delle strutture ecclesiastiche, quali il papato, la curia, le conferenze episcopali, i sinodi... Prima occorre una riforma che tocchi la vita dei cristiani e sappia mutarla: i cristiani devono fare della Chiesa un luogo di dialogo, di partecipazione fervente e viva, di scambio e di confronto libero da paure, uno spazio in cui tutti possano esprimersi ed essere tenuti in considerazione. 

Per questo Francesco afferma di «non aver nutrito alcun progetto di cambiamento della Chiesa» (Intervista al Corriere della Sera, 5 marzo 2014), ma di essere disposto alla conversione e al pentimento. Il rinnovamento da cercarsi è quello che deve scaturire dal «confronto tra l’immagine ideale della Chiesa, quale Cristo vide, volle e amò … e il volto reale, quale oggi la Chiesa presenta» (Evangelii gaudium, 26). 

Riformare è riconoscere i propri peccati e fare la verità in se stessi per esporsi alla misericordia di Dio. Ecco perché Francesco parla di «conversione ecclesiale» (EG 26) e, con sant’Agostino, ne vede l’autore nel Signore Gesù: «“Colui che è stato il tuo formatore, sarà anche il tuo riformatore”. Ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente in un’accresciuta fedeltà alla sua vocazione» (EG 26).

Papa Francesco coglie il prefisso ri-formare non solo come processo sempre da riprendersi, non solo come recupero di ciò che si è perso ma, in senso “responsoriale”, come risposta, come responsabilità nei confronti della vocazione del Signore. Se la riforma ecclesiale ha come criterio la carità evangelica ed è tale da impegnare tutti i membri, allora può anche essere riforma delle istituzioni. 

Di conseguenza, secondo Bergoglio, la riforma riguarda anche il papato come forma di esercizio del ministero petrino: ministero voluto da Cristo stesso, essenziale alla vita della Chiesa cattolica, certo.
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Omelia di P. Aurelio Antista (VIDEO)


XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)
24/08/2014



Omelia di P.  Aurelio Antista
Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto



Al centro della pagina del Vangelo che abbiamo appena ascoltato c'è una domanda, un interrogativo che ci riguarda tutti, ci riguarda come comunità di credenti, ci riguarda come persone singole in riferimento, in rapporto al Signore Gesù. 
La domanda è: "Voi chi dite che io sia?" La domanda che Gesù pone ai suoi discepoli e che pone anche a noi: "Voi chi dite che io sia? chi sono io per voi? chi sono io per te? quanto spazio ho nella tua vita?" .
Questa domanda ci dice innanzitutto che la fede cristiana non è un insieme di cose in cui credere, un insieme di verità da accogliere; la fede cristiana non è un'ideologia, ci dice anche che la fede cristiana non è neanche un codice morale da osservare, ma innanzitutto la fede cristiana è una relazione d'amore, è una relazione interpersonale tra il Dio trinitario, così come si è manifestato a noi in Gesù e ciascuno di noi...

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