Pace è non violenza,
la marcia Perugia-Assisi
non deve cambiare
di Mario Giro
“Sogni di fraternità e amicizia sociale” è il motto di quest’anno per la tradizionale marcia di pace Perugia-Assisi. Sono le parole di papa Francesco che molto si è speso per la pace davanti alle guerre di Ucraina e Gaza, ma anche ai conflitti africani come quelli del Kivu e del Sudan. La PerugiaAssisi è diventato un appuntamento usuale per l’universo pacifista italiano e per coloro che hanno a cuore la pace negli innumerevoli modi in cui tale sentimento può esprimersi.
Negli anni infatti un po’ tutti sono passati per la marcia: partiti, sindacati, associazionismo vario, sensibilità di sinistra ma anche di centro-destra, come nel 2003 quando l’Italia intera protestò per la guerra in Iraq. La prima marcia Perugia-Assisi è del 1961, ideata da Aldo Capitini, un cattolico dissidente e impegnato. Con lui all’epoca si saldò un mondo non classificabile politicamente.
Si trattava infatti di una piccola marcia, più simile ad una processione: «La marcia dei fratelli» come la chiamava Capitini. L’ideatore si definiva «cristiano e gandhiano» e per lui i punti di riferimento erano Francesco d’Assisi e il Mahatma. Sostanzialmente isolato, Capitini captava però le simpatie dei cattolici del dissenso e di alcuni laici come Bobbio o Galante Garrone. Fu lui a riprendere la bandiera multicolore inventata negli Usa, che divenne il simbolo di tutto il movimento e che ancora oggi in Italia rappresenta il vessillo pacifista, mentre nel resto del mondo è divenuta l’emblema degli lgbt.
«Questi quattro caratteri della marcia mi sono stati chiarissimi fin dal 1960 – scriveva Capitini. Che l’iniziativa partisse da un nucleo indipendente e pacifista integrale; che la marcia dovesse destare la consapevolezza della pace nelle persone più periferiche e lontane dall’informazione e dalla politica; che la marcia fosse l’occasione per la presentazione e il “lancio” dell’idea del metodo nonviolento al cospetto di persone ignare o riluttanti o avverse; che si richiamasse il santo italiano della nonviolenza (e riformatore senza successo)».
Tra i cosiddetti pacifisti integrali di quel tempo si possono citare anche don Primo Mazzolari, Danilo Dolci (che iniziò la pratica degli scioperi della fame), Gianni Rodari, don Lorenzo Milani, Alexander Langer. Costoro si rifacevano al pacifista italiano ante litteram Ernesto Teodoro Moneta, patriota italiano e collaboratore di Garibaldi, che vinse il Nobel per la Pace nel 1907. Da subito non ci fu un buon rapporto tra i pacifisti integrali e il nascente movimento per i diritti civili o sociali o il terzomondismo di sinistra, che accettava il principio della lotta armata nelle guerre di liberazione anti-coloniali. Iniziò quindi presto la diatriba tra Capitini e le sinistre, che a quell’epoca non disdegnavano l’utilizzo della violenza.
Si polemizzava ad esempio sul tema “pace e giustizia” (sociale o economica) così come oggi lo si fa su “pace giusta”. Molti criticavano l’idea della pace come fine a se stessa, non considerata accettabile senza eguaglianza, esattamente come si dice ancora oggi. Per la sinistra era più importante la liberazione. Oggi si dice: «Non c’è pace senza giustizia».
Solo dentro il mondo cattolico si guardava con simpatia crescente al pacifismo integrale di Capitini, favore che crebbe con l’enciclica Pacem in Terris di papa Giovanni e con la conclusione del Concilio Vaticano II. «Si diffonde sempre più tra gli esseri umani – scriveva papa Giovanni – la persuasione che le eventuali discordie tra i popoli non debbano essere risolte con il ricorso alle armi, ma invece attraverso il negoziato…»: era l’idea di Capitini come anche di Giorgio La Pira.
Il papa rovesciava il problema antico della chiesa: non cercare più ciò che rende legittimo il conflitto, secondo la dottrina della “guerra giusta”, ma proporre un fondamento della pace, sempre più largamente condiviso. Si tratta di un monito attuale ancora oggi, tempo in cui la guerra viene riabilitata.
Ci sono state molte manifestazioni per la pace a Gaza in questi mesi, pervase tuttavia dalla tentazione di sostituire al messaggio di pace l’imposizione di un obbligo a schierarsi. Ciò è del tutto naturale e comprensibile, soprattutto in crisi atroci come l’Ucraina o Gaza. Ma occorre recuperare subito lucidità rammentando che violenza chiama sempre violenza, e che la tifoseria non aiuta. È auspicabile che la Perugia-Assisi resti ciò che è sempre stata: un luogo aperto a chi ama la pace e abbia scelto decisamente per la non violenza.
(Fonte: “Domani” - 12 ottobre 2025)
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