martedì 14 ottobre 2025

“Fantasmi” si aggirano a Gaza: quei bambini a cui la guerra ha ucciso l’infanzia

“Fantasmi” si aggirano a Gaza: quei bambini a cui la guerra ha ucciso l’infanzia

La testimonianza di Roberta Vallone, psicologa dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù, che prova a ricostruire sogni e speranze


Gli occhi spenti, lo sguardo perso nel vuoto, il sorriso inesistente. Come fossero automi, apparentemente privi di qualsiasi forza vitale. Che forse a Gaza è stata definitivamente annientata dalle bombe, dalle incursioni a colpi di droni, dagli ammazzamenti ai mercati durante le file interminabili per tentare di conquistarsi almeno un tozzo di pane.

Sono i bambini vittime della guerra israeliana che qualcuno, cinicamente, annovera nella lista dei “fortunati” perché almeno non sono stati assassinati. Definirli ancora bambini, però, resta difficile: la loro condizione esistenziale è rimasta sospesa, come in un limbo. Più oscuro che mai. E se l’intesa per la pace riapre la porta della speranza, i traumi di questi due anni logoranti di guerra rimangono. «Hanno perduto la propria identità. Hanno visto distruggere i propri legami familiari, la propria casa, simboli di protezione. Si sono del tutto spersonalizzati». Di questi “fantasmi” Roberta Vallone ne ha incontrati diversi quando, con i corridoi umanitari, sono arrivati a Roma nella sede dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù.

Proprio in questo nosocomio, come evidenzia una nota stampa diffusa oggi, le consulenze neuropsichiatriche presso il pronto soccorso sono passate dalle 155 del 2011 alle 1.844 del 2024. Un aumento del 1000%: da 1 consulenza ogni 2 giorni di media a circa 5 al giorno, a testimonianza che la salute mentale è un’emergenza in tutti i contesti.

Ma nel buio di una guerra prolungata, come a Gaza, hanno subito dei traumi troppo forti. Da psicologa e psicoterapeuta dell’Unità operativa di psicologia anche Roberta Vallone è rimasta colpita dalla loro aria assente, la prima volta che li ha visti: «Alcuni erano malati, altri feriti dagli attacchi. Il loro corpo era sofferente mentre la loro mente era rimasta bloccata in una dimensione di allarme continuo e avevano smarrito qualsiasi punto di riferimento».

Clinicamente, quei bambini di Gaza si può dire che soffrissero di un disturbo post-traumatico da stress che aveva la tragica caratteristica di essere anche prolungato nel tempo. Quello che serviva, nell’immediato, era ristabilire serenità ed empatia, con l’obiettivo di rompere il circolo vizioso tra allarme e paura. E la dottoressa Vallone non si è fatta pregare: «Ma non solo io. Al Bambino Gesù tutti — medici, infermieri e psicologi — abbiamo lavorato per creare un ambiente accogliente e sicuro».

Anche se le sfumature della psiche umana le conosce molto bene, non sarà stato certo facile per lei raccogliere la testimonianza di una quattordicenne con una importante malattia ematologica che per curarsi aveva affrontato un lungo viaggio: «Insieme alla sorella, aveva attraversato il deserto di Gaza sotto i bombardamenti pur di andare in ospedale. Non avevano nulla, neanche l’acqua o qualcosa da mettere sotto i denti. Poco prima di arrivare, lungo la strada, ha messo un piede in fallo, è caduta rovinosamente e si è procurata un’emorragia interna. Fortunatamente sono riusciti a salvarla in tempo».

Si può stare certi di una cosa: dalla mente di questa ragazzina difficilmente si cancellerà quel senso di terrore e di mancata protezione che l’assillerà per tutta la vita. È come se fosse stata spinta al limite della resistenza umana, certifica la dottoressa Vallone: «E io dal suo racconto l’ho percepito benissimo, come non ho potuto non notare lo stato di spavento senza soluzione di continuità del quale era preda. La caratteristica particolare di questi bambini è proprio quella di avere subito un danno psicologico legato al fatto che la sopraffazione del conflitto li ha gettati al limite della sopravvivenza».

Un trauma che lascerà una ferita profonda nella loro storia. «Cosa fare? Devono essere aiutati a ricostruire la fiducia, la propria identità e i propri legami. E a questo ci deve pensare la comunità internazionale, prima che sia troppo tardi». Prima che una generazione possa essere persa per sempre.
(fonte: L'Osservatore Romano, articolo di Federico Piana 10/10/2025)