mercoledì 20 agosto 2025

In Israele “la svolta autoritaria è già realtà” - ETGAR KERET, intervistato da Francesca Paci

In Israele “la svolta autoritaria
 è già realtà” 
ETGAR KERET, 
intervistato da Francesca Paci


Etgar Keret è uno scrittore, uno dei migliori della letteratura israeliana. Ma è anche un attivista che sin dalle proteste contro la riforma della giustizia ha messo la faccia sul muro eretto dalla società civile israeliana contro la fuga in avanti del governo Netanyahu. Ieri, però, non ha partecipato allo sciopero generale, l’ha fatto suo fratello, «the Duracell bunny brother», per finire picchiato dalla polizia. Il punto, dice Keret, non è partecipare: «Partecipo da sempre, da quando bambino, nel 1973, aspettavo con mio padre che la radio militare facesse il suo nome, richiamato nella guerra del Kippur. Da allora sono riservista dentro, un riservista dell’intelletto che convive permanentemente con un senso di emergenza, come se ad allontanarsi dal Paese si rischiasse sempre di mancare nel momento cruciale». Il punto, continua, è sentirsi come chi «cerca di restare integro mentre tutto si spezza ma per quanto chieda aiuto non arriva mai ad essere ascoltato».

Che peso ha lo sciopero generale di ieri e, soprattutto, crede che la società civile israeliana possa fermare la corsa della macchina da guerra?

«Al di là della sua importanza simbolica lo sciopero è un atto di frustrazione per la situazione in cui, da quasi due anni, le famiglie dei rapiti e l’intero Paese vengono manipolati dal governo. Ogni volta c’è una scusa nuova: dobbiamo prendere Rafah, dobbiamo mantenere il controllo del corridoio Philadelphia, non possiamo ritirarci. Le ragioni cambiano, ma c’è sempre qualcosa che impedisce l’accordo da cui dipende la vita di israeliani e palestinesi nonché la fine della guerra, due richieste su cui la grande maggioranza degli israeliani concorda. Riguardo alla società israeliana ci sono tante narrative quante sono le sue anime, c’è chi sposa la visione di Netanyahu e chi, come me, si oppone. Ma anche noi siamo divisi tra quanti credono nella piazza e quanti, più passivamente, si sfilano sfiduciati perché dopo due anni di sit-in la guerra continua: è una divisione ontologica più che ideologica»

Israele è ancora una democrazia dove, nonostante la contrarietà di una buona fetta del Paese, il governo va avanti fino alle prossime elezioni. Ha paura di una potenziale svolta autoritaria prima delle voto chiarificatore?

«Paura? Molto di più. Dopo le proteste per la riforma della giustizia gli israeliani hanno chiesto conto al governo delle sue responsabilità politiche ma è arrivato il 7 ottobre e tutte le riforme sono state rinviate alla fine della guerra… in realtà, nel frattempo, la maggioranza ha seguito i temi che aveva a cuore, ha fatto nomine, ha usato Gaza per andare avanti e la svolta autorità è già avvenuta. Continuando a smantellare pezzo a pezzo l’architettura democratica, quando questa guerra senza scopo sarà finita il sistema democratico non ci sarà più e avrà vinto il totalitarismo».

Potrebbero funzionare le minacciate sanzioni europee contro la armi per Israele?

«Non conosco i dettagli geopolitici ma credo che queste misure funzionino tra Paesi che condividono analoghi valori. Il governo israeliano ha una forte componente messianica mediorientale che non guarda al modello europeo ma allo Yemen, un orizzonte per cui i fatti non esistono, le sanzioni economiche possono essere combattute a pietrate, l’occidente è il demonio. L’aspetto folle delle sanzioni è che potenzialmente farebbero contenti i Ben Gvir e colpirebbero chi ne condivide il senso. Temo che quelle imposte alla Russia abbiano reso la vita più facile a Putin consentendogli di additare la presunta immoralità dei suoi nemici».

Vede similitudini tra Vladimir Putin e Netanyahu?

«Ne vedo piuttosto tra Netanyahu e Trump, entrambi fanno leva su una narrativa incoerente a cui gli avversari non riescono a rispondere, entrambi spiazzano e impongono la loro visione dei fatti: è la loro leva. Credo che Putin invece sia un tipo di autocrate diverso, ha una narrativa coerente, uno visione chiara, una strategia. Poi c’è altro: tanto Putin quanto Netanyahu sono stati capaci di stravolgere i rispettivi Paesi in pochi anni, in Russia come in Israele i liberali fuggono e ci vorranno anni per tornare indietro».

La morte, la fame, la vergogna di Gaza hanno isolato Israele sul piano internazionale. Le è capitato di essere attaccato in quanto israeliano o escluso da qualche evento?

«Mi è capitato, ma la mia storia non è la Storia. Viviamo in un’epoca narcisistica in cui anche chi boicotta per una giusta causa è portato a enfatizzare le proprie battaglie in modo da ignorare il fatto che non per forza aiutano quella causa: manifestare per i palestinesi nel nome di “dal fiume al mare” può per esempio alimentare l’islamofobia. Io cerco di orientare il mio attivismo per aiutare gli altri e non per danneggiarli. Insomma, negare i beni a un Paese può essere discutibile ma è legittimo, negarli invece a una persona in quanto ebreo o israeliano è discriminatorio. E qual è l’effetto? Netanyahu, come fa Putin, lo spiega ai suoi connazionali dicendo che il mondo è contro di loro e loro non vanno in vacanza per paura, richiudendosi».

Netanyahu dice che la “soluzione politica” a Gaza, quella auspicata dall’opposizione, sarebbe la sconfitta d’Israele. Sente questa dicotomia tra l’archiviazione degli ultimi due terribili anni e la vittoria militare contro Hamas?

«È una grossa questione che tira in ballo cosa sia la vittoria e cosa la sconfitta. Credo che Israele abbia già perso la sua essenza, il modo in cui le persone percepivano il Paese, la narrativa comune che legava mondi sociali e culturali diversissimi in un reciproco impegno. Netanyhau ha distrutto quell’essenza, la società assomiglia oggi a un parcheggio».

Ha sentito che si lavora a un piano per trasferire i palestinesi in Sud Sudan?

«Non ci credo, è un altro modo per distogliere da Gaza». Riconoscere la Palestina come molti Paesi stanno facendo, contribuisce alla soluzione o è uno schiaffo a Israele? «Ai Paesi che riconoscono la Palestina Netanyahu obietta che è un regalo per il 7 ottobre, io credo che sia una necessità, un obbligo con cui emancipare un popolo oppresso. Ma la reazione dell’Europa mi pare apatica, come a voler fare senza sapere cosa».

(Fonte:  “La Stampa” - 18 agosto 2025)