martedì 27 agosto 2024

La nazionalità non fa i cittadini. I popoli nascono dalla cultura di Vito Mancuso

La nazionalità non fa i cittadini. 
I popoli nascono dalla cultura 
di Vito Mancuso


Nessuno Stato può “fare” esseri umani affermando la propria ideologia. 
Solo i regimi autoritari hanno sostenuto la coincidenza tra Stato e nazione.

 (Pubblicato su: “La Stampa” - 25 agosto 2024)




«Fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani», si dice che dichiarò Massimo D’Azeglio all’indomani della proclamazione dello Stato unitario nel 1861. Da allora il processo del “fare” gli italiani non è mai terminato e giustamente la politica in questi giorni sta discutendo sulla sorgente che conferisce a un essere umano lo stato giuridico di cittadino italiano. Il tema è urgente, anzi improcrastinabile, sia perché direttamente riguarda molte persone che vivono in Italia che non sono cittadini italiani e lo vorrebbero essere, sia perché indirettamente riguarda tutti gli attuali cittadini italiani in quanto chiarificatore (in questi tempi così confusi) della loro identità. Cosa significa essere cittadini italiani? In che modo “si fanno” gli italiani? Per essere un cittadino italiano è necessario essere di nazionalità italiana? Qual è il rapporto tra cittadinanza e nazionalità?

San Paolo aveva la cittadinanza romana ma era di nazionalità ebraica. Einstein ebbe dapprima cittadinanza tedesca, poi svizzera, infine statunitense, ma la sua nazionalità era e rimase ebraica. De Gasperi nacque come cittadino dell’Impero austriaco ma era di nazionalità italiana. Gli esempi aiutano a comprendere la distinzione capitale tra cittadinanza e nazionalità.
La cittadinanza si ha, si acquisisce, è l’esito di una prassi politica, come quella auspicata dalla frase attribuita a D’Azeglio; la nazionalità invece è legata all’essere, alla generazione, anzi alle generazioni, è l’esito di un processo naturale. Si può diventare cittadino di un altro Stato, non per questo però se ne acquisisce la nazionalità: un passaporto giapponese non conferisce cromosomi giapponesi. Tutti possono potenzialmente acquisire una diversa cittadinanza, nessuno (o quasi) una diversa nazionalità – e dico “quasi” perché per esempio un italiano può vivere così a lungo in Grecia da sentirsi tanto italiano quanto greco. 
Si tratta della fondamentale distinzione tra Stato e nazione. Lo Stato è una costruzione politica e i suoi membri si chiamano cittadini; la nazione è una costruzione naturale e i suoi membri si chiamano nativi. “Nativo” non indica solo chi nasce in un determinato territorio, ma chi nasce in un determinato territorio da genitori che a loro volta vi erano nati da avi a loro volta nativi e così via fino alla notte dei tempi. Per questo i nativi americani non sono persone come Biden o Trump, ma come Geronimo o Toro Seduto.

Lo Stato si costruisce e i suoi membri “si fanno”, esattamente come dichiarò D’Azeglio; la nazione è l’esito di un lungo processo naturale legato a condizioni climatiche, abitudini alimentari e ad altri numerosi e antichissimi fattori. Il tempo dello Stato si misura in secoli (la Gran Bretagna e la Francia hanno una storia di una dozzina di secoli, la Germania e l’Italia non arrivano a due, e forse non è un caso che abbiano prodotto il nazifascismo); il tempo della nazione si misura in millenni. Quanto allo Stato e alla relativa cittadinanza valgono queste parole di Seneca: «L’Impero romano ha come fondatore un esule, un profugo che aveva perso la patria e si traeva dietro un pugno di superstiti alla ricerca di una terra lontana… farai fatica a trovare una terra abitata ancora dagli indigeni: tutto è il risultato di mistioni e innesti». Quanto alla nazione e alla nazionalità valgono invece queste altre parole di Primo Levi: «Uno spirito di ogni popolo esiste (altrimenti, non sarebbe un popolo); una Deutschtum, una italianità, una hispanidad: sono somme di tradizioni, abitudini, storia, lingua, cultura. Chi non sente in sé questo spirito, che è nazionale nel miglior senso della parola, non solo non appartiene per intero al suo popolo, ma neppure è inserito nella civiltà umana».

Alla luce di questa capitale distinzione tra cittadinanza e nazionalità, ovvero tra Stato e nazione, penso che il dibattito politico attuale si possa chiarificare e semplificare: non si tratta di fare altro che di proseguire il processo iniziato nel 1861 quando nacque lo Stato italiano e si iniziò a “fare gli italiani”. 

Nessuno Stato può fare esseri umani secondo la propria ideologia (ci provarono i totalitarismi novecenteschi ma è noto l’esito sanguinoso), sono sempre e solo la natura e la cultura a generare i popoli; uno Stato, però, può e deve “fare” i suoi cittadini. E a questo riguardo la distinzione tra cittadinanza e nazionalità risulta decisiva ed è essa a farci comprendere che noi siamo destinati dalla forza della storia (alla quale è stolto opporsi ed è saggio ubbidire) ad avere un unico Stato con un’unica cittadinanza ma con diverse nazionalità. Siamo cioè destinanti all’internazionalità. La dimensione inter-nazionale che fino a ieri riguardava il rapporto tra stati, oggi riguarda il rapporto tra i cittadini del medesimo Stato. Ovunque in Occidente, presto ovunque nel mondo.

I principali nemici nella storia recente della capitale distinzione tra cittadinanza e nazionalità furono i nazisti, per i quali era solo la nazionalità a conferire la cittadinanza. Il nucleo ideologico della Germania nazista era infatti compendiato nella diade “Blut und Boden”, “sangue e suolo”, con la completa esclusione della cultura. A proposito della quale, anzi, essi si vantavano di ripetere: «Quando sento la parola cultura, metto mano alla pistola». Ancora oggi vi è chi vuole sparare alla cultura, ovvero a quel processo descritto dicendo che occorre “fare” gli italiani. Per fortuna, sia nella destra sia nella sinistra delle nostre forze politiche, vi sono persone sensibili alla cultura e ai valori umani che ne discendono, tra cui, in primis, la pari dignità, e per questo assegnano alla frequentazione della scuola l’acquisizione di un vero e proprio diritto: quello di diventare cittadini italiani, pur senza essere nativi né aspirarne alla nazionalità. Si perde così la specifica identità italiana?

L’identità per un essere umano è un valore imprescindibile, costituisce la meta psichica e spirituale del complicato processo che chiamiamo esistenza. Identità deriva dal latino “idem” che significa “lo stesso, il medesimo”, a sua volta dal greco “ídios” che significa “particolare, peculiare”. Da qui viene “idioma”, a indicare l’espressione culturale per eccellenza che è la lingua, la lingua madre, ciò che conferisce maggiormente identità. Da qui però deriva anche “idiota”, a indicare chi guardando solo a sé e ai suoi non capisce il mondo. L’identità quindi è ciò che ci consente di parlare avendo uno specifico linguaggio e uno specifico sapore (Primo Levi docet), ma anche ciò che ci rende confinati, limitati, quindi stupidi, appunto idioti. Quanto più si conferisce spazio e valore alla cultura, tanto più si valorizza l’identità nel senso di idioma (perché molti parleranno sempre meglio la nostra bellissima lingua condividendo la sensibilità depositata e trasmessa in essa) e tanto più si combatte l’identità nel senso di idiozia.

(Fonte:  sito dell'autore)