sabato 13 luglio 2024

Enzo Bianchi: Il diritto alla vita dei carcerati

Enzo Bianchi
Il diritto alla vita dei carcerati


La Repubblica - 8 Luglio 2024

Dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane ci sono stati cinquantatré suicidi ai quali vanno aggiunti molti altri nella società che non vengono resi pubblici, salvo quelli di personalità eminenti come il rettore dell’Università Cattolica di Milano Franco Anelli o dell’ex Capo di stato maggiore della Difesa generale Claudio Graziano che sorprendono e interrogano.

In realtà, sempre l’atto del suicidio dovrebbe interrogarci perché chi si toglie la vita lo fa perché questa vita è diventata per lui insopportabile: a volte la causa è un fallimento, a volte è una vergogna, altre volte la perdita del senso del vivere, a volte il dolore di una malattia o di un lutto... Non si potrà mai comprendere pienamente il perché di un suicidio, che appartiene al mistero dell’essere umano e della sua libertà, un mistero che non va mai giudicato ma semplicemente accolto in silenzio e rispettato.

Va detto con chiarezza che il suicidio non deve generare sensi di colpa oscuri in chi resta e aveva legami con chi ha scelto la morte, perché il gesto va al di là di ogni quotidiana relazione. Il gesto nasce dalla vita che si vive, dall’isolamento che uccide, dal passare il tempo in condizioni che abbrutiscono, da un sovraffollamento che non permette nessuna intimità e crea una convivenza disumana.

Almeno per i carcerati (e talvolta anche per gli agenti di custodia) sono queste le condizioni che generano la disperazione che porta al suicidio. Ora, se tale è la condizione dei carcerati, denunciata più volte, perché la società resta così insensibile? C’è chi risponde: perché se hanno commesso il male è giusto, meritano questa pena e ben gli sta! Purtroppo sono questi i pensieri di chi non conosce la situazione delle carceri, non discerne tra i carcerati i più vulnerabili, non immagina i sentimenti di disperazione di chi deve tornare nella società e non vede la possibilità di un’accoglienza e di un lavoro. Veramente società civile e politica sono lontane dal carcere, che resta una sorta di zona estranea, espulsa dalla comunità nazionale, e così il carcere diventa una condanna a morte.

Un tempo, lo ricordo con amarezza, il suicidio era considerato dalla chiesa cattolica uno dei peccati più gravi e al suicida veniva vietato il funerale religioso e non trovava sepoltura nel camposanto, ma fuori, in terreno non consacrato, a monito dei vivi. Ma per grazia oggi la comprensione del suicidio è cambiata: si fanno funerali e il luogo di sepoltura è quello comune.

Il suicidio resta comunque un tema offerto alla meditazione di tutti, perché non ci è estraneo, non riguarda solo i suicidi. Di fatto operano in noi forze di morte alle quali cediamo, che ci seducono. Per questo dovremmo comprendere il suicida e non condannarlo, perché significativamente queste forze negative che ci vorrebbero precipitare nell’abisso sono umane, abitano il nostro cuore e sono estranee solo agli animali che non si suicidano mai.

Ogni suicidio ricorda che questo mondo a volte non è sopportabile, che questo mondo a volte non basta e che non si ha la forza per continuare l’esistenza sostenendo la fatica del mestiere di vivere.

Non si dimentichi che il suicidio è sempre stato l’epifania di una protesta: da Sansone, l’eroe biblico che si uccide con tutti i nemici del suo popolo, ai bonzi buddhisti che si bruciavano contro l’oppressore.
Anche i suicidi dei carcerati che non sanno protestare con eloquenza di parola ma compiono il gesto estremo sono un appello, un grido verso di noi, perché guardiamo alla situazione delle carceri e cerchiamo di far sì che ci siano condizioni umane. Sebbene colpevoli va loro riconosciuta la piena dignità, sebbene incarcerati godono dell’esercizio delle libertà personali, sebbene privati di alcuni diritti sono soggetti del diritto, sebbene giudicati è loro garantita la giustizia, sebbene detenuti non devono essere esclusi dalla convivenza civile.
(fonte: blog dell'autore)