sabato 13 luglio 2024

«E non abbandonarci alla tentazione» - RIFLESSIONE SULLA TRADUZIONE ITALIANA DELLA SESTA DOMANDA DEL PADRE NOSTRO fr. Egidio Palumbo, ocarm

«E non abbandonarci alla tentazione» 
RIFLESSIONE SULLA TRADUZIONE ITALIANA 
DELLA SESTA DOMANDA DEL PADRE NOSTRO
fr. Egidio Palumbo ocarm 


1. Nella nuova traduzione in italiano di tutta la Bibbia, approvata nel 2008 dai Vescovi italiani e anche da papa Benedetto XVI, la sesta domanda del Padre Nostro – sia nella versione di Matteo 6,13 che in quella di Luca 11,4 – veniva tradotta così: «E non abbandonarci alla tentazione». Sostituiva la traduzione classica: «E non indurci in tentazione». La nuova traduzione della Bibbia e in essa anche la nuova traduzione della sesta domanda del Padre Nostro fu approvata anche per i nuovi Lezionari, cioè i libri liturgici che contengono l’elenco delle letture bibliche da proclamare nella celebrazione della Messa, che entrarono in uso obbligatorio il 28 novembre 2010. Anche tutto questo avvenne sotto il pontificato di Benedetto XVI e tutto fu da lui approvato. 
     A partire dal 28 novembre 2010 tutti noi sentivamo proclamare la nuova traduzione della sesta domanda del Padre Nostro («E non abbandonarci alla tentazione») quando si proclamava il Vangelo di Matteo (6,9- 13) e quello di Luca (11,2-4) nel quale ascoltavamo la preghiera che Gesù consegnò ai discepoli e quindi anche a noi. Forse alcuni non se ne accorsero… 
     Nel 2017, poi, i vescovi italiani predisposero la traduzione in italiano della terza edizione del Messale Romano, il libro cioè che contiene i testi liturgici – ispirati alla Parola di Dio – da proclamare nella celebrazione dell’eucaristia. Questa edizione del Messale entrò in uso obbligatorio il 4 aprile 2021, dopo essere stata approvata sia dai vescovi italiani che da papa Francesco. In essa è stata inserita la nuova traduzione della sesta domanda del Padre Nostro. Era logico, com’è nella Tradizione della Chiesa, che dopo la nuova traduzione in italiano della Bibbia, anche nel nuovo Messale in italiano si aggiornassero le citazioni bibliche secondo la nuova traduzione. 
     È stato a partire da questo momento (e non dal 2008) che alcuni cattolici (perlopiù cattolici conservatori) affermarono (e tutt’ora affermano) che papa Francesco “aveva cambiato il Padre Nostro”. Convinti di questa banalità, di conseguenza, si rifiutarono – e qualcuno ancora oggi si rifiuta – di accettare tale cambiamento, continuando, anche durante la Messa, a recitarlo con «E non ci indurre in tentazione». È sufficiente tenere presente quanto fin qui ho scritto, per rendersi conto che il Padre Nostro non è cambiato, è cambiata invece la traduzione della sesta domanda, che di fatto era già cambiata nel 2008 sotto il pontificato di Benedetto XVI! Ma quei cattolici conservatori allora erano un po’ distratti… 
      Andando al di là di questa stupida polemica, la cosa più importante è capire le ragioni di tale cambiamento. 

2. Intanto non si deve dimenticare che abbiamo due versioni del Padre Nostro. In Matteo 6,9-13. In Luca 11,2-4. Con notevoli differenze: la versione di Matteo, più lunga, è collocata nel contesto del Discorso della Montagna (Mt 5-7) e contiene sette domande; la versione di Luca, più breve, è collocata nel contesto di una richiesta dei discepoli che chiedono a Gesù di insegnare loro a pregare; questa versione lucana contiene cinque domande (manca la domanda «sia fatta la tua volontà» e «liberaci dal male»), rese un po’ diversamente rispetto alla versione di Matteo. L’unica domanda che si trova identica nelle due versione è (tradotta in italiano) «e non ci indurre in tentazione» (in Mt è la sesta domanda, in Lc è la quinta). 
   Ci si può chiedere: visto che Gesù non ha lasciato nessuno scritto, quale delle due versioni corrisponde all’ipsissima verba Jesu, alle parole autentiche di Gesù? E perché i contesti sono differenti? Uno dei due evangelisti forse non è stato obbediente alla Parola del Signore? Oppure i due evangelisti hanno adattato le parole di Gesù tenendo conto della vita delle loro rispettive comunità cristiane, per le quali scrivono i loro rispettivi evangeli (Matteo scrive per comunità cristiane provenienti dal giudaismo; Luca per comunità cristiane provenienti dal paganesimo)? E allora, a causa di questo loro adattamento (illegittimo e abusivo, secondo criteri legalistici di alcuni cristiani d’oggi…), possiamo forse affermare che né Matteo, né Luca sono stati obbedienti alla Parola del Signore? E poi, perché gli evangelisti Marco e Giovanni non riportano la preghiera del Padre Nostro? Sono anche loro infedeli al comandamento del Signore? 
      Non va dimenticato, infine, che il Padre Nostro entra nella liturgia cristiana verso la fine del I secolo d.C, come attesta la Didachè (cap. 8), scritta da un giudeo-cristiano. La Didaché è un testo importante, considerato come una guida per i missionari cristiani. La Didachè adotta il testo di Matteo 6,9-13

3. Ma, come dicevo sopra, ritengo importante capire le ragioni del cambiamento della traduzione italiana della sesta domanda del Padre Nostro. Non è sufficiente ripetere la formula così come si è sempre fatto. È necessario, invece, comprendere quello che si diceva prima e quello che si dice oggi. La preghiera cristiana, sia a livello comunitario che personale, esige questa consapevolezza, perché la preghiera cristiana è dialogo con Dio, non semplice ripetizione di formule “congelate”... D'altronde, prima di insegnare il Padre Nostro, Gesù rivolge questa esortazione: «Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole» (Mt 6,7). «Sprecare parole» significa dire parole senza senso, ripetere parole come se fossero “formule magiche” (di cui spesso non comprendiamo il senso), per piegare Dio a fare la nostra volontà. 
      Da sempre la sesta domanda del Padre Nostro, secondo la versione di Matteo, l’abbiamo pregata così in italiano: «E non indurci in tentazione». È una traduzione ricalcata sul latino («Et ne nos inducas in temptationem»), la quale, a sua volta, è l’esatta traduzione grammaticale del testo greco del Vangelo di Matteo («Kai mè eisenénkes eis peirasmón»). 

   a) Vediamo il lessico fondamentale. 
   - Il verbo greco “eisenénkes” (congiuntivo aoristo dal valore volitivo) viene da “eispherein”, il quale nella forma di congiuntivo aoristo volitivo assume il significato di “immettere, introdurre, collocare qualcuno o qualcosa in un certa situazione o realtà”. 
   - Il verbo latino “induco” significa “condurre dentro o verso o contro, introdurre”. 
 - Il verbo italiano “indurre” (semplice calco dal latino “induco”), oltre al significato spaziale di “condurre dentro, far entrare, portare in un luogo” ed altro, più spesso e in modo prevalente assume un significato negativo che riguarda l’ambito dell’intenzionalità della persona, ossia “suscitare, provocare, far venire un dubbio, un sospetto, stati di nausea, di stanchezza, sonnolenza, senso di tristezza” (Treccani). Nessuno userebbe mai il verbo “indurre” in senso “spaziale”: “Induco Giovanni nella mia casa” (???). 
  - Il sostantivo greco “peirasmós” e il verbo “peirazein” di solito nella Bibbia, a seconda del contesto, hanno il significato di “prova” (intensa o come situazione difficile, dolorosa, pericolosa o come cammino educativo di verifica, di discernimento, di conoscenza) o di “tentazione” (intesa come situazione di attrazione verso il male).

   b) Ebbene, nella traduzione italiana classica del Padre Nostro si chiede a Dio di «non indurci in tentazione». Ci possiamo chiedere: Dio, che è Padre di tutti noi, può indurci, spingerci fino a farci cadere nella tentazione per compiere il male? È Dio colui che ci tenta oppure è il Satana (l’Avversario), il Diavolo (il Divisore) che ci tenta per spingerci e indurci a compiere il male? 
     Da qui constatiamo che nella traduzione italiana classica c’è una certa ambiguità per il fatto che si dà l’impressione di attribuire a Dio sia l’atteggiamento intenzionale di suscitare (indurre) in noi la spinta verso il male, sia l’azione effettiva di farci cadere affinché noi possiamo compiere il male attraverso le nostre scelte e il nostro agire. Dio Padre, che invochiamo nel Padre Nostro, è un istigatore al male? 
     Al riguardo il Nuovo Testamento pone un chiaro discernimento. Scrive l’apostolo Giacomo nella sua lettera: 

«Beato l’uomo che resiste alla tentazione perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promesso a quelli che lo amano. Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo seducono; poi le passioni concepiscono e generano il peccato, e il peccato, una volta commesso, produce la morte» (Gc 1,12-15). 

   Dio non vuole il nostro male (nella settima domanda del Padre Nostro infatti chiediamo a Lui: «ma liberaci dal male») e la nostra morte esistenziale-spirituale: in questo senso non può “indurci in tentazione”, e quindi pare avere poco senso chiedergli «e non indurci in tentazione». 
  Ci ricorda con sapienza il libro del Siracide: «Non dire: “A causa del Signore sono venuto meno”, perché egli non fa quello che detesta. Non dire: “Egli mi ha tratto in errore”, perché non ha bisogno di un peccatore. Il Signore odia ogni abominio: esso non è amato da quelli che lo temono» Sir 15,11-13)

    c) Ma Dio può metterci alla prova? Sì, e lo fa affinché noi prendiamo coscienza di noi stessi e delle situazioni che viviamo, impariamo a crescere e maturare nella nostra fede/fiducia in Lui e veniamo da lui salvati dai fallimenti esistenziali della nostra vita. 
   Al riguardo, nell’Antico Testamento il libro del Deuteronomio mette in evidenza la finalità pedagogica della prova da parte di Dio nei nostri riguardi, non per indurci a cadere, ma per aiutarci a compiere un cammino di maturazione esistenziale e di fede. È scritto in Dt 8,2-5 (è Mosè che parla):

«Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo mantello non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te».

   Dio ci mette alla prova per offrire a noi un’opportunità, un’occasione propizia per dimostrare a Lui che, nonostante la nostra fragilità e i nostri limiti creaturali, comunque vogliamo sempre essergli fedeli (1Pt 1,6- 7). Così avviene ad Abramo in Genesi 22,1-18, dove Dio lo mette alla prova (non lo tenta!), per fargli comprendere che il figlio Isacco è dono di Dio, è il figlio della promessa, non è proprietà di Abramo. Dio non gli sta chiedendo di uccidere il figlio (è Abramo che fraintende, perché ha altri progetti per il figlio…), infatti è Dio ad impedire questo omicidio sacrificale. Il vero sacrificio che Dio gradisce è il timore/amore (Gen 22,12) e l’obbedienza alla sua Parola (Gen 22,18). 

    d) C’è un’altra importante domanda che ci dobbiamo fare. Abbiamo visto che Dio non ci tenta al male. Bene. Ma – ecco la domanda – Dio può consentire che noi siamo tentati? Sì, lo può. 
   Ma attenzione: questa “permissione” sta ad indicare con chiara evidenza che Dio ha un potere superiore a quello del Tentatore. Ed è vero che anche nei nostri confronti il Tentatore, il Satana, il Diavolo, non ha nessun potere se non quello che noi stessi gli concediamo. Così Dio dice a Caino, che ha il suo volto abbassato perché la presenza di Abele gli è divenuta insopportabile: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai» (Gen 4,6-7). «Tu lo dominerai», cioè non lo farai entrare nella casa della tua vita. Anche Gesù, quando invia i suoi discepoli ad annunciare la presenza del Regno di Dio nel mondo, cioè la presenza relazionale attiva ed efficace di Dio che è Padre e Madre, concede loro il potere di scacciare i demoni (Mt 10,8; Mc 16,17-18). 
     Dunque, Dio ha un potere superiore al Tentatore; nello stesso tempo Dio dona a noi la capacità di poterlo dominare (a condizione che noi agiamo per il bene) e, inoltre, ci dona la forza di sopportare e affrontare la tentazione e di vincerla, così come l’ha vinta il suo Figlio Gesù (Mt 4,1-11). 
      Perciò l’apostolo Paolo scrive ai cristiani della comunità di Corinto: «Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (1Cor 10,13). Il primo modo è certamente quello di offrirci l’esempio e lo stile di vita di Gesù, egli, scrive l’autore della Lettera agli Ebrei, «proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2,18; 4,15). 

4. Mi avvio alla conclusione. Da quanto ho cercato di dire, penso che noi quando preghiamo la sesta domanda del Padre nostro, chiediamo a Dio Padre:
    - che ci dia la forza – come l’ha data a Gesù – di saper affrontare e vincere le tentazioni del Maligno, di non farci cadere nelle mani del Maligno, il quale – se gli apriamo la porta, se acconsentiamo a lui, se gli diamo il potere – egli, senza esitare un momento, ci induce a compiere il male e le ingiustizie; 
   - che ci dia la forza – come l’ha data a Gesù – di saper affrontare e superare con maturità umana e di fede le prove che Lui ci invia e anche le prove che ci riserva la vita;
   - che non ci abbandoni – come non ha abbandonato Gesù – sia quando siamo nella tentazione, sia quando siamo nella prova. 
    Questo chiediamo a Dio Padre. E lo esprimiamo con fiducia, perché sappiamo che lui mai ci illude e ci delude, poiché è sempre fedele e sempre misericordioso, e per questo mai ci abbandona nel suo Figlio Gesù, il quale, presente come Risorto, vive in mezzo a noi e ci assicura: «Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). 

5. Detto questo, quale traduzione italiana preferire: la tradizionale o la nuova? 
   Ricordo a me stesso che ogni traduzione è sempre un “tradimento”, perché non rende mai alla perfezione il significato globale (grammaticale, letterale e teologico) dell’originale.
    Dovremmo allora ritornare a pregare il Padre Nostro in greco? 
    Non è necessario, perché Dio, sin dagli inizi, ha scelto di comunicare a noi attraverso le lingue che gli esseri umani conoscono (a quel tempo: ebraico, aramaico, greco); poi ha ispirato la necessità di tradurre la S. Scritture e di annunciare la sua Parola nelle altre lingue conosciute. Al riguardo, vedi quello che avviene il giorno di Pentecoste, dove tutti coloro che ricevono lo Spirito Santo annunciano la Parola di Dio a tutti i popoli a quel tempo conosciuti, i quali attestano: «li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio» (Atti degli Apostoli 2,11). 
    Per questa ragione la S. Scrittura è stata tradotta, prima tutto in greco l’Antico Testamento, poi tutta in latino tutta intera, Antico e Nuovo Testamento. Ma, quando il latino ha smesso di essere la lingua più conosciuta e parlata nel mondo, si è cominciato a tradurre la S. Scrittura nelle altre lingue emergenti, le più conosciute e parlate del mondo, compreso l’italiano. Oggi la Bibbia è il libro più tradotto del mondo. 
    In questo modo si è rimasti fedeli all’intenzionalità originaria di Dio che vuole comunicare con gli esseri umani attraverso le lingue che loro conoscono e praticano. 
    Ora, tutti i traduttori sanno – nessuno escluso – che non esiste una traduzione perfetta che riesce ad esprimere pienamente il significato globale (grammaticale, letterale e teologico) dell’originale. Come ho già detto, ogni traduzione è un “tradimento”. Anche la traduzione latina. L’ho già evidenziato. Ad esempio, mentre in greco la stessa parola significa tentazione e prova (che non hanno lo stesso significato, non sono interscambiabili…), in latino quella parola greca viene tradotta soltanto con “tentazione”, e così pure in italiano, sia nella versione tradizionale che in quella nuova. Allo stesso modo con il verbo “indurre”: il senso che ha in italiano è abbastanza diverso da quello che ha in greco e in latino, dove conserva l’idea spaziale (condurre in un luogo). In italiano invece il significato prevalente riguardo l’intenzionalità del soggetto che suscita o provoca nell’altro un sentimento o un atteggiamento (indurre, nel senso di suscitare un dubbio, uno stato d’animo, un gesto…), che di solito ha valore negativo. 
     Per questo preferisco pregare il Padre Nostra con la nuova (nuova del 2008! ,,,) traduzione dei vescovi italiani della sesta domanda: «E non abbandonarci alla tentazione». Non è perfetta, così come non lo è la tradizionale, tuttavia cerca di presentare Dio in maniera meno ambigua (non è lui il Tentatore che induce!) e rispetta un po’ di più il senso teologico e spirituale dell’originale greco. 
     Per onestà intellettuale, bisogna ricordare che nel IV secolo un padre della Chiesa, Ilario di Poitiers, aveva proposto una traduzione (in latino) equivalente a quella che nel XXI secolo proporranno i vescovi italiani: «Non derelinquas nos in temptatione». Questo non è un caso isolato. Nell’antichità altri padri della Chiesa, constatando che la sesta domanda del Padre Nostro solleva difficili problemi teologici, hanno proposto traduzioni alternative con relative spiegazioni. Qui evito di riportarle. Indico soltanto gli autori cristiani: Agostino di Ippona, Massimo il Confessore, Tertulliano, Cipriano di Cartagine, Giovanni Cassiano, Ambrogio di Milano. Nessuno di questi (alcuni sono vescovi) è stato mai considerato disobbediente al comando del Signore, né tantomeno eretico o Anticristo… 
    La Tradizione nella Chiesa non è la conservazione nel “congelatore” di una parola di Gesù o di un’affermazione di fede, e “guai a chi la tocca”…, ma è un cammino dinamico, dove più si ricerca, si medita, si dialoga e ci si confronta, più e meglio comprendiamo e viviamo la fede in Dio Padre e nel suo Figlio Gesù Cristo. La trasmissione della fede avviene così. 
      Adesso ho veramente finito. Mi scuso per la lunghezza della riflessione