venerdì 9 febbraio 2024

La sconvolgente testimonianza di una giovane migrante del periodo in cui era reclusa in un Cpr

La sconvolgente testimonianza di una giovane migrante
del periodo in cui era reclusa in un Cpr

«COSÌ HO VISSUTO IN UN CPR, 
TRA PIANTI, SOFFERENZE E CONTINUI LAMENTI»
 
La testimonianza di Eva, migrante venuta dall'Est otto anni fa. «Con un vestito solo per tutto il tempo della detenzione, ci sentivamo invisibili, senza poter leggere un libro o vedere i familiari, senza riscaldamento. Lì la vita umana viene sospesa nel tempo e nello spazio tra sofferenze, continui lamenti e pianti, solitudine e paura. L'unico momento dolce era la sera quando le nostre compagne di detenzione nigeriane intonavano i loro canti elevandoli a Dio»


Ho conosciuto Eva nell’inverno di 8 anni fa (il nome è di fantasia per proteggere la sua identità), cittadina dell’Europa sudorientale, quando era reclusa in un Cpr (Centro di permanenza per i rimpatri). Era stata rinchiusa in quel luogo di detenzione amministrativa perché non aveva il permesso di soggiorno. Eravamo riuscite a mantenere una comunicazione soltanto perché era in possesso di un vecchio telefonino che non le permetteva l’accesso alla rete Internet e che non poteva scattare fotografie o fare filmati.
A distanza di alcuni anni, dopo che la giovane aveva ormai superato il trauma di quella detenzione (che lei definisce “un sequestro di persona” o anche “la sospensione nel tempo e nello spazio della vita dei dannati della terra”) abbiamo voluto rompere il silenzio e ripercorrere insieme quel periodo della vita di Eva. Lei, che ora ha 30 anni e che vive regolarmente nel territorio italiano, ci racconta cosa sono i Cpr e cosa prova una donna straniera che improvvisamente “scompare” dalla società, dagli affetti dei familiari e degli amici, perché rinchiusa in quelle gabbie, tra le tante che costituiscono l’architettura dei centri di detenzione, dove non si può fare altro che, come dice lei, «aspettare il passaggio della luce del sole per ascoltare la preghiera sotto forma di canzone intonata dalle detenute africane» e come questo possa rappresentare in quel contesto, la sola dimensione dell’umano, che si riesca a percepire.
«Quando sono arrivata in Italia avevo 20 anni e tanti sogni che volevo realizzare. Non avevo grandi aspettative, ma piuttosto il desiderio di poter studiare, lavorare e vivere una vita dignitosa, vicino ai miei parenti e amici che vivevano in Italia regolarmente», spiega la giovane. «Sono stata rinchiusa in un Cpr alcuni anni fa perché ero priva di permesso di soggiorno e considerata un elemento pericoloso per lo Stato italiano, seppur non avessi mai commesso alcun reato («ho la fedina penale pulita», spiega, e mi mostra la certificazione di nulla osta del casellario giudiziario, dove non risultano neppure carichi pendenti).
«Ero venuta in Italia a causa delle precarie condizioni di vita del mio popolo, dopo decenni di regime sotto l’Urss e a causa della guerra che ci aveva colpito pesantemente negli anni 90. In Toscana viveva ormai da tanto tempo una mia cugina, che è cittadina italiana, e questa era una ragione in più per me per provare a vivere una vita migliore», spiega Eva che parla fluentemente 5 lingue (italiano, inglese, tedesco, spagnolo e svedese) oltre alla sua lingua madre. Per lei non era stato difficile inserirsi nel territorio, dove era riuscita a creare un legame affettivo con le persone e dove viveva dignitosamente. Prima di essere portata in un Cpr.
Era il 2016 e lei si trovava in macchina insieme ad un’amica italiana, quando la polizia le ha fatto fermare l’auto per un controllo stradale. In quel periodo lavorava tantissimo per mantenersi, svolgendo diverse attività: addetta alla reception di un B&B, ma anche collaboratrice familiare di alcune famiglie toscane. «Vivevo in un piccolo appartamento in affitto che pagavo regolarmente. L’ affitto non era a nome mio perché non avevo il permesso di soggiorno, ed era una ragione in più per non ritardare mai il pagamento del canone mensile perché non volevo creare alcun problema a nessuno».
Nel tempo libero faceva la volontaria e insegnava i bambini affetti da gravi problemi di salute che, a causa delle loro condizioni di salute, non potevano frequentare regolarmente la scuola. «Ero anche insegnante privata di inglese e facevo le ripetizioni ai ragazzi che erano in difficoltà a scuola, oppure l’interprete di inglese o di altre lingue che conoscevo bene. Queste cose le facevo gratuitamente, per dare una mano a chi ne aveva bisogno, collaborando con le associazioni che davano sostegno alle persone in difficoltà».
Al posto di blocco i poliziotti le chiedono i documenti. «Ho detto loro che non avevo il permesso di soggiorno, mentre la mia amica aveva mostrato la sua carta d’Identità italiana. E così gli agenti mi hanno portato in questura. Da lì sono stata trasferita nel Cpr. In quel momento, era come se il tempo fosse stato immediatamente fermato. La mia vita era stata sospesa in un luogo difficile da spiegare.
Sono stata portata in un luogo chiuso, senza alcuna possibilità di accesso al mondo esterno. La mia amica non aveva neppure potuto sapere dove mi avrebbero portato per avvisare la mia famiglia. Io avevo un vecchio cellulare che consentiva soltanto di fare e di ricevere chiamate. Mi permisero di tenermelo. Così ho potuto parlare con i miei familiari.
I Cpr sono «la terra di non diritto per persone invisibili, dove la vita umana viene sospesa nel tempo e nello spazio e condita soltanto da incertezze e da terribile sofferenza, solitudine e paura», continua a spiegare, Eva, nel suo ottimo italiano. Quando arrivò al Cpr, ricorda, le avevano ordinato subito di togliersi i vestiti, compreso la biancheria intima e le sono stati forniti una tuta da inverno e un paio di indumenti intimi, mentre i suoi venivano confiscati. «Tutte le recluse erano vestite come me, e questo unico abito ci sarebbe dovuto bastare per tutto il tempo della nostra reclusione lì (nessun cambio e nessuna possibilità di lavare gli indumenti). Il bagno e le celle erano sporchi e cercavamo di pulirli con degli stracci e con l’acqua acqua che ci fornivano le guardie (che volevano essere chiamati operatori), senza poter avere alcun detergente per igienizzare l’ambiente, a mani nude. La straccio lo lavavamo con acqua per poi riutilizzarlo. Eravamo in una sorta di regime carcerario molto rigido, senza alcun contatto con il mondo esterno, senza la possibilità di leggere un libro o di ascoltare la musica e senza alcuna notizia di ciò che stava accadendo al di fuori del Cpr. Era fortunato chi poteva permettersi una scheda telefonica e un telefono che non fosse uno smartphone, perché allora avrebbe potuto parlare con qualcuno all’esterno». Ed è in questo modo che avevamo potuto comunicare. Mi aveva potuto raccontare allora, a bassa voce e terrorizzata, ciò che accadeva in quella prigione. Nelle due settimane in cui era stata rinchiusa nel Cpr, Eva dice di aver visto un medico soltanto nel giorno del suo arrivo al centro di detenzione, giusto per una breve valutazione clinica delle sue condizioni di salute e poi non aveva più visto alcun personale sanitario, neppure quando le ragazze si lamentavano per problemi di salute. «Ero in una cella piccola insieme ad altre 5 ragazze e dormivamo in delle brande. Era inverno e faceva tanto freddo, ma non c’era riscaldamento. Avevamo una coperta per ripararci dal freddo. L’edificio non ci permetteva di vedere altro che le sbarre di ferro delle celle dove avremmo trascorso un tempo non ben definito della nostra vita. Alle 7 e 30, la mattina, le nostre celle venivano aperte e potevamo girare all’interno del Cpr che era fatto soltanto di sbarre e di donne disperate. Eravamo ben oltre 100 persone in quel luogo di diseredati e Il pianto era un denominatore comune a tutte noi, recluse, seguiti dai lamenti e dalle grida disperate, ciascuna nella sua propria lingua. Grida e lamenti che comunque non venivano ascoltati da nessun’altra persona oltre che da noi recluse. Eravamo lontane dalle orecchie e dal cuore delle persone, annientate e dimenticate, era questa la mia sensazione quotidiana», denuncia Eva che continua a raccontare il suo calvario, «Dopo il primo pasto consumato lì, già avevo enorme difficoltà a rimanere sveglia ma avevo pensato che forse lo stato di isolamento totale e di assenza del resto del mondo mi avrebbe indotto a dormire... Dormire per non pensare, per non impazzire, per non aver paura e per non aver più sogni, desideri, emozioni. Alla fine non riuscivo più a rimanere sveglia e quando dovevamo mangiare, mi svegliavano a fatica le altre recluse. Dormivo continuamente e allo stesso tempo continuavo ad essere sempre molto stanca e assonnata ed è stato allora che una giovane africana mi ha detto di evitare il cibo, perché, mi diceva, “ci mettono dei sonnifero nei pasti”. Non so se sia vero. Comunque mi aveva consigliato di mangiare soltanto la frutta e, in effetti, dopo aver ascoltato quel consiglio ero riuscita a rimanere sveglia e avevo cominciato ad avere difficoltà a prendere sonno, tormentata dalle fitte di emicrania, per le quale non mi veniva fornito dalle guardie alcun antidolorifico perché avrei dovuto aspettare “la visita del medico” che non avveniva mai». La disperazione che piano piano si trasformava e in appiattimento. «C’era una ragazza che era invece agitatissima e che chiedeva di riavere i suoi bambini, secondo lei rimasti soli dopo che l’avevano portata lì. Non potendo aver contatto con i figli, chiedeva di essere sedata. Era una giovane del Kazakistan e mi aveva fatto un’enorme compassione. In quel luogo sono rimasta circa due settimane perché avevo il passaporto e avevo anche chiesto di essere rimpatriata, offrendomi di pagare io stessa il viaggio di ritorno al mio Paese. Quando, infine, sono riuscita ad andare via, ero triste per le altre ragazze che erano rimaste li dentro. Avevamo costruito una relazione di solidarietà tra noi e ci aiutavamo a vicenda a superare la sofferenza di ritrovarsi escluse dal mondo in un luogo che nessuno sa dove sia. Questa condizione, già di per sé, ci distruggeva lo spirito ed era, è, una tortura psicologica vera e propria», denuncia con forza Eva.
Un ricordo buono del CPR era quello sul finire della giornata, «quando cadeva la sera e le ragazze nigeriane si mettevano a pregare con il loro canti. Erano delle canzoni bellissime ed era quella la sola cosa bella della giornata. Mi commuovo ancora al loro ricordo perché più volte avevo pensato, in quelle occasioni, che soltanto Dio sapeva che eravamo vive, sole e ancora umane. Nel carcere, almeno, i detenuti possono ricevere la visita dei propri familiari, incontrare il proprio avvocato, lavorare all’interno del penitenziario, o studiare. In quella reclusione, dove sono stata io, potevi soltanto guardare da dentro le sbarre il passaggio della luce del sole sulla terra, giorno dopo giorno, senza niente altro da poter fare. Mi sentivo sporca in un luogo sporco. Eravamo quasi tutte giovanissime, svuotate da ogni desiderio. Credo che sia questa l’effetto dei CPR: toglierci la voglia di vivere». Eva non aveva compiuto alcun reato, non era clandestina, ma soltanto irregolare dal punto di vista amministrativo e infatti oggi vive regolarmente in Italia, dove ha lavora, ha studiato e conseguito il titolo di Operatrice Socio Sanitaria: «La mia “pericolosità sociale”, a quanto pare, non era poi così “pericolosa”. Ero pienamente cosciente che se fossi rimasta più a lungo in quel luogo, sarei impazzita. A distanza di tempo da quella terribile esperienza mi viene da pensare che la mia pericolosità consistesse nel fatto di avere, all’epoca, soltanto 20 anni e di sognare una vita migliore, diversa da quella che la mia patria mi avrebbe potuto offrire. Non avevo rubato niente a nessuno e neppure quel sogno, lo avevo rubato, era mio», conclude con un sorriso dolce e con intelligente ironia.
(fonte: Famiglia Cristiana, articolo di Katia Fitermann 15/01/2024)

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