mercoledì 6 dicembre 2023

Ottant’anni fa ad Auschwitz veniva uccisa Etty Hillesum - Imparare a guardare i gigli del campo di José Tolentino de Mendonça

Ottant’anni fa ad Auschwitz veniva uccisa Etty Hillesum
Imparare a guardare i gigli del campo
di José Tolentino de Mendonça


Nel pomeriggio del 29 novembre si è svolto a Roma, presso la Pontificia Università Gregoriana, il convegno Etty Hillesum. Some Insights into her Life and Thoughts , per ricordare — a ottant’anni dall’uccisione nel campo di concentramento e di sterminio di Auschwitz — la straordinaria scrittrice e diarista ebrea olandese (1914-1943). Pubblichiamo la relazione tenuta dal prefetto del dicastero per la cultura e l’educazione.

Una delle grandi voci spirituali della contemporaneità, Etty Hillesum, ha scritto che è nei momenti in cui la nostra anima è sconfitta e pare soccombere, che dobbiamo imparare a guardare i gigli del campo. Il nocciolo del problema, ricordava sempre, non sta nella vulnerabilità che i tempi impongono, ma nel mantenere viva e feconda quella porzione di divino che ci abita e che la fraternità fa speranzosamente vedere.

Il 9 marzo del 1941, quando Etty Hillesum cominciò a scrivere, sul primo degli otto quaderni a quadretti, il testo che poi sarebbe stato il suo Diario, nessuno avrebbe immaginato che stava avendo inizio una delle avventure letterarie e spirituali più significative del secolo scorso. Aveva ventisette anni e sarebbe morta senza compierne trenta.

Per anni, la sua principale occupazione fu il corso di laurea in diritto, che a dir il vero non le interessava molto, attratta invece dagli studi delle lingue slave e dalla letteratura russa. Era proiettata, senza grande impegno, verso un percorso letterario... In realtà il suo interesse intellettuale ed estetico tardava a trovare fluidità: «È come se in fondo ci fosse qualcosa che mi frenava». Ed era così con tutte le cose. Il suo amore si configurava, in quegli anni, in «un gioco» che la coinvolgeva intensamente, senza però riuscire a toccare quel fondo segreto e imprigionato che era la sua vita.

In quella domenica di marzo, quando iniziò la sua storia diaristica, lei viveva al numero 6 di via Gabriël Metsu, già indipendente dai genitori, ma nello stesso incerto turbinio di possibilità: era governante della casa di un ragioniere in pensione, vedovo, col quale aveva avuto un rapporto sentimentale. Lì viveva anche il figlio di Wegerif, Hans, di poco più di venti anni, la cuoca Käthe e due ospiti, Bernard Meylink, studente di biochimica e Maria Tuinzing, un’infermiera che poi sarebbe diventata sua confidente e amica. Ancora oggi via Gabriël Metsu circonda la spianata verde del Rijksmuseum, dove si trovano i quadri di Vermeer, Pieter de Hooch, Rembrandt... e ha qualcosa dell’atmosfera delicata e coraggiosa che ci sorprende in quelle immagini: «Le cime degli alberi, le ho trovate al mio risveglio (...). I boccioli di tulipano, il rosso e il bianco, inclinati uno verso l’altro (...) i rami scuri che contrastano con l’aria luminosa e più lontano il Rijksmuseum».

È impossibile non accostare il percorso di Etty Hillesum con quello di Simone Weil. Sono contemporanee, entrambe ebree, che si batterono per salvaguardare il sole interiore in un secolo di momenti oscuri, ambedue scrittrici, entrambe consumarono fino alla fine (o oltre la fine) un destino di annientamento, come se si trattasse di un’incredibile avventura spirituale. Anche la morte le accomuna, avvenuta nello stesso anno: 1943. Simone morì in un ospizio inglese, come se spirasse tra le vittime, sul fronte più esposto di un combattimento, ed Etty in un campo di concentramento, verso il quale era partita cantando.

Ma c’è una differenza nell’iconografia. Simone de Beauvoir racconta che Weil si vestiva come chi indossa una divisa, cancellando, con una scelta morale implacabile, i segni che la potessero distinguere, lei che era figlia di una Parigi borghese, dalla più umile delle operaie di fabbrica (anzi, non ebbe pace finché non lo diventò). Le immagini di Etty sono quelle di una donna molto diversa: elegante, femminile, con un tocco di mondanità e una intelligenza anche fisica... Penso che questo illumini i due percorsi. Simone era fin dal principio ascetica, disciplinata, rigorosa: aveva la perfezione di un diamante, ma quasi non aveva corpo. Etty era imprecisa, sensuale e dispersa: e su questo lei lavorò, ad altissimo rischio.

La conversione di Etty Hillesum, o meglio, il suo «cambiamento di ragione» (come ci insegna il termine greco del Nuovo Testamento metanóia), si sviluppò attraverso tre incontri decisivi: il primo ha il nome di una persona; il secondo di un luogo; il terzo non ha nome: è l’incontro con il proprio Innominabile.

Il risveglio spirituale

Il progetto di un diario personale fu suggerito a Etty Hillesum da Julius Spier (nominato con la sola iniziale del cognome, S.) quale proposta terapeutica. L’influenza di questo personaggio, con «occhi grigi e consumati, scaltri, incredibilmente scaltri», fu tanta che i primi quaderni sono stati praticamente dedicati a lui: con considerazioni su di lui, o valutando il riverbero folgorante che egli provocava, oppure semplicemente, con trascrizioni dettagliate del suo pensiero.

Julius Spier era un ebreo di Francoforte, rifugiato nel quartiere ebraico di Amsterdam, dove aveva il suo piccolo studio (le tre strade, un canale e un ponte della casa di lei). Fu anche direttore di banca, in seguito editore, studiò canto finché arrivò, dopo venticinque anni, alla «psico-chirologia», una diagnosi psicologica che parte dalla lettura della morfologia della mano (che lui considerava il «secondo volto »). Andò in analisi da Carl Jung, a Zurigo, il quale gli scrisse un testo che elogiava e raccomandava il suo metodo. Da quel momento, la «psico-chirologia» diventò la sua principale occupazione. Etty lo conobbe alla fine di gennaio, un mese prima di iniziare il suo Diario, durante una serata musicale, dove suo fratello Mischa suonava il pianoforte e Spier cantava.

Etty racconta che era arrivata da lui con un grande sentimento di solitudine e insicurezza: «Come vorrei che ci fosse qualcuno che mi prendesse per mano e si occupasse di me». Spier rappresentò, nella scoperta, nella saggezza e anche nel disordine, la concretizzazione di quel desiderio. È stato senza dubbio per Etty Hillesum un vero iniziatore alla vita spirituale, «l’ostetrico della mia anima», usando parole sue. Le insegnò «a pronunciare con naturalezza il nome di Dio». La iniziò alla pratica della preghiera. Le aveva consigliato la lettura dell’Antico e del Nuovo Testamento, di autori come sant’Agostino e Tommaso da Kempis. D’altra parte, Etty riuscì progressivamente a elaborare la sua autonomia, a rivisitare in maniera distaccata e originale ciò che da lui riceveva, a difendere il suo spazio decisionale.

Lungo il Diario si trovano qua e là molti insegnamenti di Julius Spier: il più importante di tutti, impresso non su carta ma nella trasformazione che in Etty si vede, è stata la fede inequivocabile nella possibilità di vivere una vita piena e totale. Il resto è materia convergente, luccichio di quella verità maggiore, come gli esempi che presentiamo in seguito.

1) «Aiutati che il ciel ti aiuta». Quando aiutiamo noi stessi, coltivando una sincera fiducia personale, diventa possibile fidarsi di Dio. 2) Bisogna portare gli altri dentro di sé, spiritualmente: questa può essere una «memoria orante», una vera preghiera. Per pregare, ci viene richiesto di abbandonarci al raccoglimento profondo. 3) Alla fine di ogni giornata, è importante raccoglierci una decina di minuti per ricordare come l’abbiamo vissuta e cosa ci ha portato di bene e di male.

Un giorno, ed Etty lo racconta il 25 settembre del 1941, lui le disse: «Ho l’impressione di essere una “fase preparatoria” per un tuo grande amore». Spier morì nel settembre dell’anno seguente, ad Amsterdam. Lei ritornò al campo di Westerbork poco dopo aver assistito alla breve cerimonia funebre.

Il risveglio spirituale di Etty si legava ancora a un’altra amicizia, quella con Henny Tideman, una cattolica che conobbe proprio durante gli incontri con Spier. Etty ricorda il commento che questa esprimeva su di lei: «Ha l’intelligenza dell’anima». Con Tide, capì la portata della preghiera, imparò dalla «sua voce radiante e affermativa», a rivolgersi anche a Dio con parole sue, con un’apertura misteriosa e totale, di cui cominciano a far parte, con maggiore naturalezza, l’allusione alla sofferenza, alla bellezza dei gerani o a un verso di Rilke.

Alla scoperta della sua patria

Nei giorni in cui continuava a scrivere il Diario, l’Olanda si trovava sempre di più nel mirino dell’espansionismo nazista. Da un anno gli ebrei olandesi venivano isolati con discrezione. Ma nel febbraio del 1941 ebbe luogo nella città di Amsterdam uno sciopero generale inedito contro i progrom e allora la repressione tedesca diventò aperta: gli ebrei erano stati licenziati dai loro datori di lavoro, non potevano frequentare i luoghi di commercio e svago, venivano limitati nei ghetti e nei campi chiamati «di lavoro». Il 14 giugno di quell’anno Etty scrisse: «Ancora altre prigioni, terrore, campi di concentramento, genitori, sorelle, fratelli portati via indiscriminatamente. Uno cerca il senso della vita e si domanda se davvero essa abbia ancora un senso. Ma questo è un tema che ognuno deve decidere con se stesso e con Dio». È la terza volta che compare questo nome nei suoi scritti.

Nella zona orientale dell’Olanda, non molto distante della frontiera, avevano cominciato a costruire un campo di concentramento intermedio, da dove successivamente gli ebrei venivano incamminati allo sterminio.

Il 29 aprile del 1942 gli ebrei furono costretti a portare la stella di David. Quasi due mesi dopo, Etty scrisse (a mezzanotte e mezza): «Questa mattina sono passata in bicicletta per Stadionkade e ho goduto del vasto cielo lì ai limiti della città e ho respirato l’aria fresca e non razionata. E dappertutto scritte che impedivano agli ebrei il libero accesso alle strade e agli spazi aperti. Ma su quel tratto di strada, che rimane nostro, esiste anche il cielo totale. Non ci possono fare nulla, non ci possono fare realmente niente». È curioso che, in quello stesso giorno, il sabato 20 giugno del 1942, c’era ad Amsterdam un’altra ragazza, molto più giovane di lei, che scriveva anch’essa un Diario: si chiamava Anna Frank.

Grazie alla sollecitudine di alcuni amici, Etty cominciò allora a lavorare come dattilografa in una delle sezioni del Consiglio ebraico. Si accorse, brutalmente, che della grande maggioranza di ebrei destinati alla deportazione i primi erano i poveri. Decise allora di chiedere di accompagnarli come volontaria al campo di concentramento di Westerbork. Cominciava a capire che quel momento estremo del suo popolo aveva un significato al quale non poteva sottrarsi. Visse in quel campo dal mese di agosto del 1942 fino al settembre del 1943, lavorando in un ospedale più che di fortuna. Uno dei vantaggi del suo stato di volontaria era di poter andare talvolta ad Amsterdam, anche perché la sua stessa salute si stava rapidamente deteriorando. Ma ecco l’inaudito. Nella sua camera, «bella e tranquilla», davanti alla spianata che porta allo Rijksmuseum, sentì una nostalgia irreprimibile di Westrbork. «Mi sono tanto innamorata di Westerbork che ne sento nostalgia. Quei mesi tra il filo spinato sono stati i miei mesi più intensi e ricchi».

Intanto, i suoi amici comunisti e trotzkisti che erano passati alla resistenza, insistevano perché anche lei entrasse in clandestinità, e le avevano già preparato un rifugio. Cercavano di convincerla facendola notare i molti pericoli ai quali era esposta, ma Etty resisteva, dicendo loro che non potevano capirla. «Molte persone mi accusano di indifferenza e passività e dicono che mi arrendo facilmente. E aggiungono: “Ogni persona che riesca a sfuggire dai loro artigli deve cercare di farlo e questo è un obbligo. E io devo fare qualcosa per me stessa”. Questa è una frase non molto azzeccata. In questo momento, tutti sono occupati a salvare la propria vita e intanto bisogna che un certo numero di persone, un grande numero, vada. E quel che è strano è questo: io non ho la sensazione di essere imprigionata tra le loro grinfie... Non sento di essere tra le grinfie di nessuno, sento unicamente che sto tra le braccia di Dio». Ma bisogna capire fino a quale punto sacrificale, fino a quale spoliazione spirituale, Etty visse questo suo «stare tra le braccia di Dio». Niente fu evitato. Si ritrovò nella stordente infelicità, che abbraccia.

Uno degli aspetti più commoventi è capire che luogo ebbe la letteratura nell’immenso cammino compiuto da Etty. All’inizio lei lo chiamò «la mia seconda patria». È una specie di altra vita che la occupava, una terra promessa verso la quale propendeva. Il Diario è pieno di riferimenti a queste ore di lettura compulsiva, anche prima della colazione, ore di manifesto piacere: da sant’Agostino a Hegel, fino ai suoi amati russi (Dostoevskij, Tolstoj, Lermontov, Puschkin), che lei commentava con profondità, ai quali pensava sempre e che sognava di tradurre. Ma dopo, quando partì per il campo di concentramento, aveva soltanto un piccolo zainetto. Fece allora le scelte decisive. Scrisse: «Voglio memorizzare una cosa per i miei momenti più difficili e voglio anche tenere sempre a mente che Dostoevskij ha trascorso quattro anni esiliato in Siberia avendo come unica lettura la Bibbia». E portò con sé la Bibbia. Oltre a questa, tenne sempre con sé altri due libri, tutti i due di Rainer Maria Rilke: Il libro delle ore e Lettere a un giovane poeta.

A Westerbork, Etty si affermava finalmente come scrittrice. Lei, che da tanto cercava la sua voce la trovò qui, in questo posto dove tutto fu ridotto a gran silenzio, munita soltanto di un quaderno a quadretti e di una matita. C’è un testo di Anna Akhmatova che può essere un paragone illuminante per il caso di Etty: Come prefazione. Nei terribili anni della «ežovščina», ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi «riconobbe». Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio di noi tutti e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): «Ma lei può descrive questo?». E io dissi: «Posso». Allora una specie di sorriso scivolò su quello che una volta era stato il suo volto.

Anche Etty Hillesum scrive: «In me non c’è un poeta, in me c’è un pezzetto di Dio che potrebbe farsi poesia. In un campo deve pur esserci un poeta, che da poeta viva anche quella vita e la sappia cantare». Questo è stato il modo da lei scelto per attraversare la vita. Ma qui la sua seconda patria non era più la letteratura: coincideva con quella, unica, che in piena oscurità aveva trovato.

La prescelta di Dio

Chi ha affermato che la poesia e la possibilità di Dio si sono interrotte con Auschwitz pone questioni molto serie, che hanno segnato intensamente il dibattito filosofico e teologico della seconda metà del XX secolo. In effetti, entro un determinato ambito di comprensione è stato il suo collasso. Ciò che Etty intuì in maniera folgorante è che l’esperienza di quell’inferno storico richiede la necessità di una nuova grammatica. «Devo trovare un linguaggio nuovo», scrisse. E l’ha trovato.

A Westerbork vediamo la prescelta del Signore passeggiare nella solitudine e nel fango, mentre scrive alcune delle preghiere più straordinarie che un essere umano possa proferire, non nell’ampiezza maestosa di un tempio, ma nello spazio putrescente della latrina comune, dove si rifugiava all’alba in cerca di un momento di silenzio e di concentrazione. Vediamo l’innamorata di Dio consumarsi nelle attenzioni verso i deportati, curando, intercedendo, lei stessa ferita da dolori violenti, sempre in cerca di una finestra da dove si potesse scorgere un pezzetto di cielo, o di un asse sul quale alla fine potersi sedere a leggere qualche frase di Rilke. La seguiamo nella lettura che fa dell’evangelista Matteo, «il mio buon Matteo»; nei commenti ai testi di Paolo e di sant’Agostino, come se fosse una maestra esperta nei cammini dello spirito. Leggiamo, «Mi piacerebbe molto vivere come i gigli dei campi. Se le persone capissero quest’epoca, sarebbero capaci di imparare con essa a vivere come i gigli dei campi», ed è difficile ricordare che chi parla è quella ragazza di Amsterdam arrivata lì da pochi mesi.

In mezzo alla tortura totale, lei è quella che si preoccupa di Dio. «Ti aiuto, Dio, a non abbandonarmi», scrive. O allora: «Se mi trovassi imprigionata in una cella stretta e una nube passasse davanti alla mia finestra reticolata, allora ti porterei quella nube, mio Dio, se almeno avessi forze per farlo». La sua è una preghiera di ringraziamento e di mille piccole attenzioni: il profumo di un fiore, la musicalità di una parola, la bellezza indicibile di un incontro: «Mi piacerebbe parlare di ciò che abbiamo in comune, con un tono di voce basso e dolce, ma ininterrotto e convincente. Dammi parole e forza».

È anche chiaramente una preghiera notturna, popolata da strazianti quesiti: «Delle volte, Dio, mi domando, in un momento difficile come questa notte, quali sono i piani che hai per me». Ma il tratto più forte è quello di un’impressionante e inspiegabile fiducia: «Stanotte alle due, quando sono finalmente salita di sopra e mi sono inginocchiata nel mezzo della camera di Dicky, quasi nuda e completamente sciolta, ho detto improvvisamente: ho certo vissuto delle cose grandi quest’oggi e questa notte, mio Dio, ti ringrazio perché sono in grado di sopportare tutto e perché tu lasci che così poche cose mi passino accanto senza toccarmi». Il 30 novembre del 1943, la Croce Rossa annunciò la sua morte ad Auschwitz.

Come diceva Etty Hillesum, «la vita è difficile, ma questo non è grave». O, meglio, non è questo che ci fa del male. Perché noi impariamo in fretta, come lei imparò, che su quei segmenti di cammino interrotto dal filo spinato non cessa di estendersi il medesimo cielo che s’innalza sui meravigliosi campi aperti, il vasto cielo che nessuna barriera potrà mai interrompere. Ogni volta, per esempio, che diciamo dentro di noi, e con tutte le forze del nostro essere, che “la vita vale la pena”, ripartiremo liberi da tutto ciò che la sfigura. E il resto non importa più. Perché in fondo — e sono parole di Etty — «il più grande furto che ci viene fatto siamo noi stessi che lo mettiamo a segno». E questo accade più spesso di quanto noi non pensiamo, accade quando ci svuotiamo del meglio di noi a motivo di una visione unilaterale che non si è debitamente confrontata con le ragioni profonde del nostro cuore. Quando permettiamo che quella che erroneamente diciamo “realtà”, e che siamo tentati di accettare come l’unica voce che ci parla, sia, a conti fatti, un rullo compressore che schiaccia non solo ciò che la nostra vita è, ma anche quella che potrebbe essere. Etty sapeva che la rovina più fatale si produce quando rinunciamo a collegare la nostra vita a una porzione, per infima che possa essere, di eternità. È allora che i miracoli diventano impossibili, e noi moriamo.

(Fonte: L'Osservatore Romano - 04.12.2023)