martedì 5 dicembre 2023

L'affettuoso saluto a Giulia - Il vescovo: «Vogliamo imparare l'amore» - Il papà: «Io non so pregare, ma so sperare... voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e che un giorno possa germogliare e produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace. Addio Giulia, amore mio»

L'ultimo affettuoso saluto a Giulia
Il vescovo: «Vogliamo imparare l'amore»
Il papà: «Io non so pregare, ma so sperare... voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e che un giorno possa germogliare e produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace. Addio Giulia, amore mio»
 


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«Abbiamo bisogno di parole e gesti di sapienza che ci aiutino  a non restare intrappolati dall'immane tragedia che si è consumata»

Tre le parole chiave nell'omelia di monsignor Claudio Cipolla, vescovo di Padova, durante la celebrazione nella basilica di Santa Giustina dei funerali di Giulia Cecchettin con papà Gino, i fratelli Elena e Davide e 10mila persone tra chiesa e sagrato: "attesa, speranza e amore". Una preghiera anche per Filippo Turetta e la sua famiglia

Occhi rossi, lacrime, tanta commozione tra quanti sono arrivati per assistere all'ultimo saluto di Giulia Cecchettin. La piazza davanti alla chiesa di Santa Giustina è gremita di giovani, colleghi universitari di Giulia e genitori che la sentono come loro figlia. All'arrivo della bara scoppia l'applauso. Ad accompagnarla ci sono il papà Gino, la sorella Elisa, il fratello, la nonna, i nonni materni, l'avvocato. La bara viene depositata all'ingresso della chiesa. Torna il silenzio. Poi il feretro viene portato all'interno. La chiesa è piena già dal mattino presto. All'esterno circa 8000 persone, molti da Padova, molti dalla provincia.

A monsignor Claudio Cipolla, vescovo di Padova, il compito di trovare le parole per non "restare intrappolati dall’immane tragedia che si è consumata" e ne individua tre: "attesa, speranza e amore".
(R. Gob)


ATTESA, SPERANZA E AMORE

Di seguito il testo integrale.

Non avremmo voluto vedere quello che i nostri occhi hanno visto né avremmo voluto ascoltare quello che abbiamo appreso nella tarda mattinata di sabato 18 novembre. Per sette lunghi giorni avevamo atteso, desiderato e sperato di vedere e sentire cose diverse. Ed invece ora siamo qui, in molti, con gli occhi, anche quelli del cuore, pieni di lacrime e con gli orecchi bisognosi di essere dischiusi ad un ascolto nuovo.

Abbiamo bisogno di parole e gesti di sapienza che ci aiutino a non restare intrappolati dall’immane tragedia che si è consumata, per ritrovare anche solo un piccolo spiraglio di luce.

Dalla fede cristiana e dalla Parola che il Signore ci ha appena rivolto raccolgo come sostegno alcune parole per orientarci in questi giorni di lutto e di dolore.

L’Attesa. Domenica è iniziato il tempo dell’avvento, tempo che educa all’attesa, ad alzare lo sguardo oltre il buio: dal tronco ferito e spezzato della nostra umanità spunti un germoglio, come evocava il profeta nella prima lettura. Non sappiamo quando, non sappiamo come, ma è forza che apre vie di riscatto, di affrancamento da ogni forma di negazione della vita.

La conclusione di questa storia lascia in noi amarezza, tristezza, a tratti anche rabbia ma quanto abbiamo vissuto ha reso evidente anche il desiderio di trasformare il dolore in impegno per l’edificazione di una società e un mondo migliori, che abbiano al centro il rispetto della persona (donna o uomo che sia) e la salvaguardia dei diritti fondamentali di ciascuno, specie quello alla libera e responsabile definizione del proprio progetto di vita.

Questo impegno è indispensabile non solo per garantire qualità di vita al singolo individuo ma anche per realizzare quei contesti sociali e quelle reti in cui le persone siano valorizzate in quanto soggetti in grado di dare un contributo originale e creativo.

Il sorriso di Giulia mancherà al papà Gino, alla sorella Elena e al fratello Davide e a tutta la sua famiglia; mancherà agli amici ma anche a tutti noi perché il suo viso ci è divenuto caro. Custodiamo però la sua voglia di vivere, le sue progettualità, le sue passioni. Le accogliamo in noi come quel germoglio di cui parla il profeta. Perché desideriamo insieme attendere la fioritura del mondo nel quale finalmente anche i nostri occhi saranno beati.

Speranza. L’attesa più o meno giustificata di un evento gradito, di un giorno favorevole, è illusoria se consiste nella semplice proiezione di nostre aspirazioni, anche legittime. Come trasformarla in reale cammino verso la felicità? Abbiamo bisogno che la nostra attesa sia arricchita e sostenuta dalla speranza. La speranza è un dono dello Spirito, che ci aiuta a vivere, a cercare, trovare e custodire la vita. Di fronte alla morte di Giulia ma anche a quella di tante donne, bambini e uomini sopraffatti dalla violenza e dalle guerre, emergono tutti i nostri dubbi. Non solo ci chiediamo: davvero ci sarà la vita dopo la morte? Ma anche: ha senso impegnarsi se poi tutto si riduce a poca cenere?

La speranza, che oggi rinnoviamo, per noi cristiani ha un nome e un volto: quello di Gesù, il Signore Risorto. E’ lui la vita che la morte non è riuscita a ingabbiare, il Giusto che l’ingiustizia non è riuscita a spezzare, il mite e umile di cuore che ha scardinato la violenza del potere.

La speranza, che è Cristo, è più di un antidoto nei momenti difficili della vita. Il profeta Isaia descrive un mondo in cui compaiono una dopo l’altra scene che sembrano avere dell’assurdo e del fantasioso: “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il lattante si trastullerà sulla buca della vipera”. Sembra pura utopia immaginare un mondo in cui le tensioni e gli opposti si compongano con una tale armonia.

Le piazze, le aule universitarie, i palazzi, le nostre case possono certo diventare quei luoghi dove poter difendere i diritti dei più deboli e creare le condizioni per una vita sociale e individuale all’insegna della giustizia e della libertà. Ma i cammini intrapresi in questi spazi saranno efficaci e giungeranno a dei risultati duraturi nella misura in cui dentro ciascuno di noi si comporrà l’armonia annunciata dal profeta.

Arriviamo così alla terza parola: Amore: una grande parola, una parola che orienta alla alterità, che cerca il bene dell’altro, dell’altra. Io, con la mia concreta e personale esperienza, non so parlarne se non a partire dal Vangelo e da Dio ma anche per me il riferimento è così alto da sembrare irrealizzabile, come la profezia di Isaia.

I nostri, anche se umani e responsabili, sono sempre tentativi di amore, e noi siamo sempre in cammino e sempre in ricerca della strada migliore.

Forse voi giovani potete osare di più rispetto al passato: avete a disposizione le università e gli studi, avete possibilità di incontri e confronti a livello internazionale, avete più opportunità e benessere rispetto a 50 anni fa.

Nella libertà potete amare meglio e di più: questa è la vostra vocazione e questa può e deve diventare la vostra felicità!

Su questa strada ci incontreremo e potremo aiutarci: si incontreranno i giovani e Dio, i giovani e il Vangelo.

L’amore non è un generico sentimento buonista, quindi. Non si sottrae alla verità, non sfugge la fatica di conoscere ed educare se stessi. E’ empatia che genera solidarietà, accordo di anime e corpi nutrito di idealità comuni, compassione che nell’ascolto dell’altro trova la via per spezzare l’autoreferenzialità e il narcisismo.

Se questo è il nostro sogno, se cerchiamo germogli di speranza e di amore avvertiamo tutti la fatica di questo lavoro interiore. La nostra fragilità rende corto il respiro della speranza e precaria la tenuta dei nostri amori. Attesa, speranza, amore sono la nostra vita bella.

Preghiera altro non è che metterci di fronte a Dio e al mistero della vita e della morte senza nascondere le nostre fatiche ma anche senza rinunciare ai nostri sogni.

Ti preghiamo, Signore, di farci il dono della Pace. È nella pace che i popoli progrediscono in cultura e civiltà, in solidarietà e umanità; è nella pace che le risorse vengono indirizzate per acquisire strumenti che nobilitano la vita delle persone, soprattutto delle più deboli e fragili e scompaiono le disuguaglianze sociali.

Insegnaci, Signore, la pace tra generi, tra maschio e femmina, tra uomo e donna. Vogliamo imparare l'amore e vivere nel rispetto reciproco, cercando anzi il bene dell'altro nel dono di noi stessi. Non possiamo più consentire atti di sopraffazione e di abuso; per questo abbiamo bisogno di concorrere per riuscire a trasformare quella cultura che li rende possibili.

Ti domandiamo, o Signore, la pace nel rapporto tra generazioni, tra giovani, adulti e anziani così che il coraggio e le aspirazioni possano coniugarsi con la sapienza e la profondità di chi conosce la storia e ne interpreta le direttrici. Così che non torni ad essere accolto tra le possibilità a nostra disposizione ciò che già ha prodotto il male.

Donaci, Signore, anche la pace del cuore, del mio cuore e del cuore di tutti i presenti, Chiediamo la pace del cuore anche per Filippo e la sua famiglia. Il nostro cuore cerca tenerezza, comprensione, affetto, amore. La pace del cuore è pace con se stessi, con il proprio corpo, con la propria psiche, con i propri sentimenti soprattutto quelli che riguardano il senso delle azioni che compiamo e il senso della vita. Il nostro cuore è il luogo dove il Vangelo e la Pasqua di Gesù di Nazareth bussano con delicatezza pronti a dispiegare la loro forza umanizzante.

Il volto di Giulia è stato sottratto alla nostra vista. Resta impresso nell’affetto e nella memoria di chi l’ha conosciuta e apprezzata. Ora noi posiamo lo sguardo su quello di Gesù, il Signore, via verità e vita; in Lui brilla il volto di Giulia, (vicino alla mamma), da Lui si accendano ancora il desiderio che cresca per tutti la passione per la vita.
+ Claudio Cipolla
vescovo di Padova

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Gino Cecchettin, dall'unico che avrebbe diritto alla rabbia 
una lezione di civiltà 

Dal padre di Giulia, nel momento più difficile della vita, l'altruismo di un messaggio pacato: in cui c’erano le parole “scusa” e “grazie”, parole con cui si è rivolto agli uomini e ai padri, dicendo “noi”, non "voi" per sperare in un futuro senza più tragedie come la sua


In un mondo in cui il linguaggio dell’odio trova spazio in Rete, quando si azionano i polpastrelli prima di aver acceso l’interruttore della razionalità, senza che nessuno metta un argine di educazione, la lezione di civiltà vissuta ci viene dall’unico cui nessuno, non oggi, oserebbe rimproverare un moto di rabbia, un accesso di intemperanza: dal signor Gino Cecchettin, un padre che ha perso una figlia in un modo di cui è difficile darsi ragione, che dall’altare, mentre le rivolgeva l’ultimo saluto, ha rivolto al mondo un messaggio pacato: in cui c’erano le parole “scusa” e “grazie”, assai poco frequentate di questi tempi, rivolte a chi gli ha dimostrato affetto, aiuto, vicinanza, anche sconosciuti, cui non è riuscito a rispondere. Parole di scusa e di ringraziamento, da parte di chi del tutto legittimamente, ripiegato su se stesso, le scuse avrebbe tutte le ragioni di pretenderle soltanto e neanche basterebbero di fronte all’enormità del dolore che deve provare.

Parole con cui si è rivolto agli uomini, dicendo “noi”, non “voi”; ai padri, dicendo “noi”, chiedendo di lavorare dal basso nella quotidianità perché nessuno più si trovi nell’abisso in cui da padre ora si trova: un padre orfano di una figlia, per mano di un giovane uomo che diceva di amarla.

In un tempo in cui la politica è spesso rissa pubblica, da pollaio, ha chiesto pacatamente alle istituzioni di mettere da parte le divisioni ideologiche per sminare il terreno culturale che rende possibile che accada quanto sta accadendo alla sua famiglia. «Perché da questo tipo di violenza che è solo apparentemente personale e insensata si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti».

In un momento in cui i media hanno spiato senza riguardo il suo dolore con inquadrature sfacciate, ha chiesto uno sguardo meno morboso, ma lo ha chiesto civilmente, con un’antica cortesia: mai che si sappia ha avuto la tentazione di mandare a quel Paese chi in questo tempo di dramma personale e familiare ha sostato davanti alla sua casa per rapirgli anche solo un sospiro. Se quella tentazione l’ha avuta, ha saputo nasconderla dietro una signorilità impeccabile.

Se esiste da qualche parte una lezione civile in questo dramma umano e sociale apparentemente senza senso alcuno, è dentro le parole di quest’uomo perbene, per i loro contenuti, sì, ma anche per la loro forma: vengono da una persona che ha certo dentro una guerra che neanche possiamo immaginare ma emanano pace, seminano speranza.

Ci scusi Lei, signor Cecchettin, per non aver saputo - come persone, come società, come mondo – essere come Lei è, anche ora nel momento più difficile della sua vita, e di non aver saputo far crescere per tempo una civiltà diversa. E grazie di essere così, ancora, nonostante tutto.
Elisa Chiari

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Il saluto di papà Gino: «Grazie amore, per questi 22 anni insieme»

È provato e commosso papà Gino Cecchettin quando prende la parola al termine del funerale della figlia Giulia. Parla di chi resta, lui e i fratelli, e di chi non c'è più Giulia e mamma Monica ""vi immagino strette insieme, il vostro amore sia così forte da aiutare Elena, Davide e anche me". Non manca un appello alle istituzioni e agli uomini in primis per combattere una piaga della società dilagante, il femminicidio


Sale sull'altare alla fine della celebrazione dei funerali della figlia Giulia, papà Gino Cecchettin per darle l'ultimo saluto «è ora di lasciarti andare» ed è commosso e provato, ma come sempre pacato tanto da scusarsi per non essere riuscito a dare riscontro a tutti in questi giorni di infinito dolore. Nel suo discorso, "cercherò le parole giuste" aveva detto nei giorni scorsi, trova la forza per fare un invito a tutti - nessuno escluso - a contrastare la violenza sulle donne. In prima fila lui, i figli Elena e Davide, e i parenti stretti, hanno tutti appuntato sulla giacca il fiocchetto rosso simbolo della lotta contro la violenza alle donne.

«Abbiamo vissuto un tempo di profonda angoscia: ci ha travolto una tempesta terribile e anche adesso questa pioggia di dolore sembra non finire mai» afferma papà Gino che ringrazia chi gli è stato vicino «ne avevamo bisogno» e le istituzioni. Ci racconta Giulia «era proprio come l’avete conosciuta, una giovane donna straordinaria. Allegra, vivace, mai sazia di imparare. Ha abbracciato la responsabilità della gestione familiare dopo la prematura perdita della sua amata mamma».

Accenna alla laurea "meritata" e afferma che nonostante la giovane età "era già diventata una combattente". E poi sottolinea quella che, a tutti gli effetti, è una piaga dilagante della nostra società: «il femminicidio è spesso il risultato di una cultura che svaluta la vita delle donne». Poi l'appello, nella sua incredibilità lucidità, alle responsabilità; tante, ma una su tutte: «Quella educativa ci coinvolge tutti: famiglie, scuola, società civile, istituzioni, mondo dell’informazione».

Papà Gino sferza gli uomini «per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi che conosciamo, sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali». E si rivolge a chi è gentiore come lui: «insegniamo ai nostri figli il valore del sacrificio e dell’impegno e aiutiamoli anche ad accettare le sconfitte. Creiamo nelle nostre famiglie quel clima che favorisce un dialogo sereno perché diventi possibile educare i nostri figli al rispetto della sacralità di ogni persona, ad una sessualità libera da ogni possesso e all’amore vero che cerca solo il bene dell’altro».

Poi con coraggio affronta una realtà ineluttabile: «In questo momento di dolore e tristezza, dobbiamo trovare la forza di reagire, di trasformare questa tragedia in una spinta per il cambiamento. La vita di Giulia, la mia Giulia, ci è stata sottratta in modo crudele, ma la sua morte, può anzi DEVE essere il punto di svolta per porre fine alla terribile piaga della violenza sulle donne. Grazie a tutti per essere qui oggi: che la memoria di Giulia ci ispiri a lavorare insieme per creare un mondo in cui nessuno debba mai temere per la propria vita».

Affida alle parole di una poesia di Gibran le conclusioni per ispirarci a come "bisognerebbe imparare a vivere": La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta, ma di come danzare nella pioggia.

Poi è il momento dell'addio: «Cara Giulia, è giunto il momento di lasciarti andare. Salutaci la mamma. Ti penso abbracciata a lei e ho la speranza che, strette insieme, il vostro amore sia così forte da aiutare Elena, Davide e anche me non solo a sopravvivere a questa tempesta di dolore che ci ha travolto, ma anche ad imparare a danzare sotto la pioggia». E ancora: «Cara Giulia, grazie, per questi 22 anni che abbiamo vissuto insieme e per l’immensa tenerezza che ci hai donato». E conclude: «Io non so pregare, ma so sperare: ecco voglio sperare insieme a te e alla mamma, voglio sperare insieme a Elena e Davide e voglio sperare insieme a tutti voi qui presenti: voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e voglio sperare che un giorno possa germogliare. E voglio sperare che produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace. Addio Giulia, amore mio».
Chiara Pelizzoni
(fonte: Famiglia Cristiana 05/12/2023)

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Terminato il funerale nella Basilica di Santa Giustina a Padova, il feretro di Giulia Cecchettin si è avviato verso Saonara dove alle 14 ha avuto luogo una cerimonia privata.