venerdì 11 agosto 2023

Chiara, voto di libertà - La scelta rivoluzionaria della povertà in una età “maschia”

La scelta rivoluzionaria della povertà in una età “maschia”

Chiara, voto di libertà
di Giuseppe Perta*
 

Nonostante già Gregorio Magno avesse tramandato al Medioevo l’ideale di uguaglianza di matrice ciceroniana (Omnes namque homines aequales natura sumus), nei fatti non era — e non è — così. C’erano ricchi e poveri, con l’aggravante che in quell’epoca di forti contrasti, di luci abbaglianti e di ombre profondissime, la forbice tra ricchezza e povertà era assai ampia. Per gli indigenti l’inverno era terribilmente rigido e l’estate afosa; per i ricchi le mense abbondanti e succulente, i giacigli soffici e più sicuri. Si era uguali, insomma, solo di fronte a Dio.

La scelta della povertà era — ed è, ma a quel tempo era ancor di più — qualcosa di radicale, specialmente per una donna come Chiara d'Assisi (1194-1253), che visse un’età certamente “maschia”. Maschia, si scrive, non perché faticassero a emergere figure femminili dotate di risolutezza, potere, capacità di comando, possibilità e mezzi — gli esempi sarebbero tanti: dalla longobarda Teodolinda a Isabella di Castiglia, passando per Matilde di Canossa — ma perché le scelte di vita erano in qualche modo condizionate, ostacolate, combattute con più veemenza da chi riteneva di poter limitare il godimento di quelli che oggi chiameremmo diritti sociali e civili.

Stando al biografo Tommaso da Celano, quando il padre di Chiara, Favarone, seppe della decisione di lei di votarsi all’ideale di vita che aveva già sedotto san Francesco, quegli, che era un membro dell’antica nobiltà assisiate — la casa di famiglia sorgeva in piazza San Rufino, al centro del borgo — reagì duramente. Non fece mancare né la forza della violenza né il veleno di promesse che potessero indurre sua figlia a rinunciare. Riteneva la scelta inappropriata per una donna di quel rango. D’altronde, Chiara non si era limitata a far saltare il banco dei progetti paterni, che prevedevano un matrimonio sicuro, volto al consolidamento economico e sociale della famiglia, ma si presentò al monastero di San Paolo volutamente senza dote. Chi faceva così, era destinata non ai compiti di una monaca da coro, ma alle umili occupazioni di una serva. Chiara fu costretta, per un po’, a girovagare. Ma, alla fine, furono i parenti a desistere, vedendola così ostinatamente aggrappata alle tovaglie dell’altare, alla fermezza della fede e alla decisione, ormai presa, di farsi per sempre penitente. La scelta era stata segnata, simbolicamente, dal taglio netto dei capelli.

Chiara seguì certamente l’esempio di Francesco; lo aveva conosciuto, incontrato, ascoltato. All’inizio, le sorores che si raggrupparono a San Damiano non ebbero altra Regola che le istruzioni date dal Poverello. Però l’avventura di Chiara ebbe peculiarità tutte femminili. La fondatrice delle clarisse plasmò una Regola nuova, la prima scritta per mano di una donna (con l'intervento del cardinale Ugolino, è vero, il futuro Gregorio XI ) e pensata specificatamente per le donne-monache, che fino ad allora avevano dovuto adattare testi e consuetudini declinati al maschile. In questa Regola emerge con assoluta limpidezza un elemento associabile a una sorta di emancipazione. La fondatrice lascia alle “povere recluse” una certa libertà nella gestione delle proprietà, sia quelle possedute prima della monacazione, sia quelle ottenute in eredità. Chiara manifestava, così, piena fiducia nelle consorelle, la cui decisione nulla aveva a che fare con la costrizione; era scelta di devozione e di perseguimento degli ideali evangelici; era amore per la povertà. Non c’era ragione, in quest’ottica, di imporre privazioni, digiuni, penitenze. La paupertas assurge dunque a “privilegio”, e come tale fu riconosciuto da Innocenzo IV nel 1253, poco prima della morte di Chiara. Nella sostanza, si difendeva il diritto delle clarisse a non ricevere terre e possedimenti d’ogni genere. Tutti gli sforzi del papa, per mitigare la durezza del voto di povertà attraverso la concessione di alcune proprietà, furono vani, poiché la proprietà, come ha scritto Paul Sabadier, era, per loro, «una gabbia colle gretole dorate, alla quale le povere allodole sono talvolta così ben assuefatte, che non pensano più a fuggirne per slanciarsi in mezzo al cielo». Dunque, la novità del messaggio di Francesco e di Chiara stava nell’intendere questa povertà in senso lato, non come una rinuncia, ma come un voto di libertà (altissima povertà). Anzi, a differenza di Francesco, che aveva messo da parte tutt’ad un tratto le dissolutezze degli anni giovanili per sposare Madonna Povertà, lei si era distinta sin da bambina nel cercare di alleviare le sofferenze ai bisognosi. Le testimonianze raccolte nel corso del suo processo di canonizzazione si soffermano a ricordare come, giovinetta, tra le mura di una dimora ricca e nobile, si preoccupasse di accantonare vivande per i poveri.

L’esperienza di Chiara è innovativa, ma non singolare. L’Umbria è terra d’origine di molte sante: da Scolastica da Norcia, sorella di Benedetto, a Rita da Cascia. Inoltre, assieme a Chiara si muovono, sulle orme di Cristo, madre, sorelle carnali, amiche. La prima, Ortolana, era stata pellegrina in Terra Santa. Le figlie di quest’ultima, Agnese e Beatrice, seguirono Chiara in convento. Poi c’è l’amica d'infanzia, Pacifica di Guelfuccio, che per prima, assieme a Chiara, fuggì da palazzo al calar della notte. Né si dimentichi sant’Agnese di Praga, badessa e figlia di re, con la quale Chiara intrattenne una corrispondenza epistolare. E così tutte le sorores che in Europa, dagli anni Trenta del Duecento, replicarono l’esperienza di San Damiano; soltanto in Italia, alla morte della fondatrice, sono documentate più di un migliaio di clarisse, disseminate in sessantasei conventi. Si potrebbe, poi, non ricordare la più recente, compianta, biografa? Chiara Frugoni conobbe in gioventù, sulla propria pelle, i segni dell'austerità, delle privazioni, della penitenza. Al fascino clariano non ha saputo resistere neanche la penna di Dacia Maraini, che, raccontandola attraverso un dialogo con una fantasiosa e appassionata lettrice — a tratti, in verità, irridente — la immagina volitiva, disobbediente, rivoluzionaria.

Singolare fu, piuttosto, il percorso agiografico e di canonizzazione, rapidissimo al punto da spingere Jacques Dalarun, uno dei suoi più insigni studiosi, a parlare di “fabbrica di una santa”. Tommaso da Celano organizza il suo dossier agiografico mentre Chiara è ancora in vita. Delle sue qualità si legge già nella Vita prima di Francesco (1228): «chiara per nome, più chiara per vita, chiarissima per virtù». Come tale, con l’aureola, Giotto la raffigura, alla fine del Trecento, negli affreschi della basilica superiore, ispirati alla Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio. Stando così le cose, non è difficile comprendere come mai, due mesi appena dopo la sua morte, il vescovo di Spoleto ricevesse dal pontefice l’incarico di istituire il processo di canonizzazione che avrebbe condotto, nel 1255, alla bolla Clara claris praeclara meritis. Alessandro IV e la sua cancelleria sottolinearono — con qualche gioco di parole e artifizi retorici non troppo sofisticati — lo splendor e la claritas di un’esperienza vissuta, in realtà, molto intimamente, da povera reclusa, tra preghiere e silenzi. Splendore e lucentezza non sempre l’hanno proiettata fuori dal cono d’ombra di Francesco. Era un Medioevo, comunque, maschio. Ma, tra le ombre, la luce seppe farsi strada.

Giuseppe Perta*
Docente di Storia medievale, Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa


Il film: Chiara

L’atto rivoluzionario di Santa Chiara, che si spoglia della propria nobiltà e sceglie la povertà, è raccontato al cinema dalla regista Susanna Nicchiarelli che ha diretto «Chiara». Il film, interpretato da Margherita Mazzucco, al suo esordio cinematografico, è stato in concorso alla 79. Mostra di Venezia, dove ha ricevuto vari riconoscimenti: il premio «Sorriso Diverso Venezia Award», assegnato alle opere di interesse sociale che valorizzano la diversità e tutelano le fragilità delle persone; il «Premio Carlo Lizzani» assegnato da una giuria di esercenti; il «Premio Signis» promosso dall’Associazione cattolica mondiale per la comunicazione Signis. (Credits Emanuela Scarpa 2022 Vivo film, Tarantula)
(fonte: L'Osservatore Romano 05 novembre 2022)