mercoledì 8 marzo 2023

8 Marzo Lettere alle donne del pianeta - Nadia Terranova: Bambine nate in guerra - Igiaba Scego: La speranza Yanomami

8 marzo
Lettere alle donne del pianeta

Volevamo incontrare e parlare con le donne che nel mondo si battono per il cambiamento e che oggi sono le protagoniste della lotta per la vita e la libertà. ...

Lo facciamo nel modo più semplice: le lettere di dieci scrittrici italiane che - siamo sicure - in qualche modo arriveranno anche nelle parti più lontane del globo. ...
  • Nadia Terranova scrive alle bambine che sono nate in tempo di guerra, le fragili piccole donne che devono affrontare un mondo difficile e cattivo.
  • Igiaba Scego ad una bambina Yanomani le cui terre sono invase e derubate per la corsa all'oro in Amazzonia..
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(fonte: DONNE CHIESA MONDO marzo 2023)

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Nadia Terranova
Bambine nate in guerra

“Ho cominciato a scrivervi quando è nata mia figlia. Ci siete tutte figlie, siamo responsabili di voi.
E, sì, questa è una lettera per chiedere perdono”


Care bambine nate in tempo di guerra, (in ogni tempo, in ogni guerra), ho cominciato a scrivervi questa lettera il dieci marzo 2022. Ero in ospedale e ogni tanto una dottoressa passava a controllare, quando entrava nella stanza però non sempre mi vedeva: di solito ero chiusa in bagno, piegata dal dolore. Sì, non stavo per niente bene, anche se a breve avrei vissuto il momento più bello della mia vita, stringere tra le braccia mia figlia. Però, per il momento, mia figlia era ancora nella mia pancia, ben posizionata per uscire, diretta verso la vita, verso il mondo. Che mondo? In quelle ore ho cominciato a sentirmi responsabile di ogni cosa che passava sulla terra, di ogni istante che da quel momento non avrei più sciupato, di ogni bellezza di cui avrei fatto tesoro. Ero sola in una stanza di ospedale, attraversata dai dolori delle doglie, guardavo le foglie, gli alberi nel giardino, verdi e arruffati alla finestra, guardavo la luce trascolorare dal picco del mezzogiorno al grigio del pomeriggio al buio della sera, e le ore erano scandite dalla velocità e dall’intensità delle mie contrazioni che aumentavano. Sentivo le voci dietro la porta, voci di dottoresse e infermiere, di ostetriche e partorienti. Però ero altrove. Mi sembrava di essere dappertutto. Mia figlia si moltiplicava in tutte le bambine che avevo incontrato nella mia vita, diventava ogni sguardo, ogni sorriso e ogni pianto. La flebo attaccata al braccio faceva il suo dovere e anche la bambina faceva il suo – mi disse poi la dottoressa che non aveva perso mai un battito, continuava a scendere un centimetro dopo l’altro verso il mondo. Il mondo, dicevo, che le stavo per presentare.

Avevo sul comodino due libri e un quaderno, che avevo portato certa che le pagine della mia letteratura preferita mi avrebbero come sempre parlato, mi avrebbero consolata, arricchita, mi avrebbero tenuta per mano. Invece, in quel momento non mi interessava più andare da un’altra parte, mi interessava il presente. M’importava della vita, e il mondo era tutto racchiuso in una parola, futuro, che a lungo, in passato, avevo rigettato. Guardavo le notizie, e le notizie del giorno erano: ospedale pediatrico bombardato a Marjupol, in Ucraina. Le immagini di donne in fuga con i loro pancioni mi colpivano con una violenza che mi faceva dimenticare ogni altro dolore. Sono entrata in sala parto con loro – con quelle donne e con le loro fughe, con quello che non stava accadendo a me, o forse sì. Poche ore dopo mezzanotte sarebbe nata mia figlia, e allora ogni cosa mi avrebbe riguardata.

Care bambine nate in tempo di guerra, io non so bene perché vi sto scrivendo. Non ho nulla da insegnarvi – siete voi a insegnare a me. Sarete voi a raccontare o a scegliere di non dire, di dire in altro modo, quello che sapete in più di noi. Care bambine – dovrei dire anche cari bambini, ma conosco meglio la vostra sorte di quanto conosca la loro, e so che il carico che ora sembra uguale per voi potrebbe essere raddoppiato – care bambine, io posso solo vergognarmi, e molto, di essere nata in questa parte di mondo. Virginia Woolf ha scritto che finché non pensiamo la pace ci ritroviamo tutti in un unico buio ronzante e mortifero sopra le nostre teste, e ha scritto che in questa parola, “tutti”, sono ricompresi anche i corpi delle persone che non sono ancora nate. Io non so trovare parole migliori di quelle che ha scritto lei, so solo raccontare oppure tacere, e di solito in questi casi preferisco la seconda strada. Se ho accettato di prendere parola è perché in un modo sghembo e assoluto, voglio dire che ci siete tutte figlie. Che siamo responsabili di voi, che portiamo una colpa grande e che con quella parola, mondo, non siamo stati capaci di fare molto bene. E, sì, questa è una lettera per chiedere perdono.

Nadia Terranova
(fonte: DONNE CHIESA MONDO marzo 2023)

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Igiaba Scego
La speranza Yanomami

“Nel paese che era solo terra e libertà, sono arrivati i cercatori clandestini al soldo della mafia dell’oro, e tutto è cambiato. Ma ora una donna ...”


Vorrei vederti felice. Non so il tuo nome. Ho visto velocemente il tuo viso su instagram. Eri attaccata al seno di tua madre. Un seno senza latte. Una madre senza carne. Una madre pelle e ossa. Aveva fame tua madre come te che non riesci a succhiare il suo latte. Una fame che dura da più di cinquecento anni.

Il paese in cui vivi era solo terra, era solo libertà, era solo felicità cinquecento anni prima.

Le tue antenate vivevano della foresta e del cielo.

Poi sono arrivati uomini, con la barba, su una caravella dall'altra parte del mondo, dall'Europa. Uomini con una bandiera e della prepotenza che usciva dai loro polpastrelli frementi. E le tue antenate, in quel cono gelato che oggi chiamiamo America Latina, si sono viste sottrarre la terra, la felicità, la vita. Si sono viste sottrarre persino la morte che al tempo delle tue antenate era ancora dignitosa, ancora in collegamento con gli spiriti ancestrali.

Poi ogni collegamento è stato spazzato via. Ogni strada distrutta. Ogni comunicazione è stata interrotta. La tua gente, che è sempre stata lì, è diventata orfana di se stessa. Gli uomini scesi dalle caravelle, gli uomini dell'altro mondo, hanno cominciato a dire ai quattro venti che vi avevano “scoperto”. Ma voi sapevate di essere sempre stati lì, in quella terra, vostra, donata dagli dei e dal cielo. Persone mai scoperte da nessuna. Ma si sa le menzogne hanno le gambe corte, ma quando vengono lanciate nell'universo corrono veloci. Soprattutto se portate sulla punta di lance taglienti. Ed è così che i popoli originari da Nord a Sud, da Est a Ovest sono stati sterminati. Uccisi da lance velenose o da killer invisibili che ne hanno reso la carne come bruciata. Gente felice improvvisamente persa dentro l'incubo di un potere carnivoro. E così antenata dopo antenata i popoli originari, quelli che erano sempre stati lì, hanno visto il mondo cambiare. Dove c'era la foresta improvvisamente un recinto. Dove c'era la libertà improvvisamente la prigione. E con le tue antenate hanno pianto anche gli animali e gli alberi. I primi uccisi senza un motivo e gli altri massacrati dalle asce della deforestazione. Avete imparato così a resistere. A tenere a mente i saperi ancestrali. A non perdere il contatto con la natura. Del tuo popolo, gli yanomami, bambina si dice che siete osservatori attenti della natura. Conoscete specie botaniche che gli scienziati pluridecorati delle università blasonate non conoscono. E sapete come non esagerare con Madre Natura. Conoscete il limite tra l'uomo e la terra. Rispettate il mondo. E forse per questo che il mondo non ha rispettato voi. Dagli anni Novanta del secolo scorso le vostre terre sono invase dai “garimpeiros”, minatori clandestini al soldo delle “mafie dell’oro”, che inquinano i fiumi e i cieli. Sono al soldo di potentati senza scrupoli. E negli ultimi anni, la situazione della tua gente è peggiorata. Intorno a te bambina sta morendo tutto. I pesci, gli uccelli, le larve. Il mercurio gettato nei fiumi sta facendo ammalare pure voi. Avete crampi allo stomaco, la vostra amata terra è diventata malarica, putrida. E non avete più di che sostentarvi. Il Brasile, il paese in cui le tue antenate hanno sempre abitato, si è accorto della vostra fame solo pochi istanti fa. Molta gente non sapeva del vostro dolore. Ha visto il vostro corpo scheletrico, quella fame che vi disegna un ghigno in bocca per la prima volta. E molti, non quelli che vi hanno affamato, ma tutte e tutti gli altri, hanno pianto. Si sono arrabbiati. Tutto deve cambiare, hanno detto, per strada, sui social, in editoriali di giornali ben scritti. Una donna guida il ministero per le Popolazioni indigene, di nuova istituzione. Tu non riesci a guardarla tanto sei debole. Ma vedo un luccichio nel lato sinistro dei tuoi occhi bambini. Quella è la speranza che hai per la tua piccola grande vita. E ti stringi a tua madre stretta in attesa che arrivi la felicità.

Igiaba Scego