VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
nella REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO e in SUD SUDAN
(Pellegrinaggio Ecumenico di Pace in Sud Sudan)
31 GENNAIO - 5 FEBBRAIO 2023
Sabato, 4 febbraio 2023
GIUBA
9:00 Incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati, le Consacrate e i Seminaristi presso la Cattedrale di Santa Teresa
11:00 Incontro privato con i Membri della Compagnia di Gesù presso la Nunziatura Apostolica
16:30 Incontro con gli sfollati interni nella “Freedom Hall”
18:00 Preghiera Ecumenica presso il Mausoleo "John Garang"
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INCONTRO CON I VESCOVI, I SACERDOTI, I DIACONI, I CONSACRATI,
LE CONSACRATE E I SEMINARISTI
Cattedrale di Santa Teresa (Giuba)
Dopo aver celebrato la Santa Messa in privato, il Santo Padre Francesco si è trasferito in auto alla Cattedrale di S. Teresa di Giuba per l’incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate ed i Seminaristi.
Al Suo arrivo alle ore 9.10 (8.10 ora di Roma), il Papa è stato accolto dall’Arcivescovo di Giuba, S.E. Mons. Stephen Ameyu Martin Mulla, e dal parroco che gli ha porto la croce e l’acqua benedetta. Insieme hanno percorso la navata centrale per raggiungere l’altare. Quindi, dopo il canto d’ingresso e il saluto del Presidente della Conferenza Episcopale del Sudan, S.E. Mons. Yunan Tombe Trille Kuku Andali, Vescovo di El Obeid, un sacerdote ed una suora hanno portato la loro testimonianza. Papa Francesco ha pronunciato poi il Suo discorso.
Al termine, dopo la benedizione e il canto finale, il Santo Padre ha posato per una foto di gruppo con i Vescovi. Secondo le autorità locali erano presenti 5000 fedeli, di cui 1000 in chiesa, per l’incontro.
Quindi è rientrato in auto alla Nunziatura Apostolica di Giuba dove - alle ore 11.00 (10.00 ora di Roma) – ha incontrato in forma privata i Membri della Compagnia di Gesù presenti nel Paese. Al termine dell’incontro, ha pranzato in privato.
Nell’incontro di Francesco con i vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i consacrati e i seminaristi del giovane Paese africano, nella cattedrale di Giuba, il ricordo di suor Mary e suor Regina, cadute in un agguato a ferragosto del 2021 e la testimonianza di un sacerdote locale: la Chiesa di qui ha poco ma siamo vicini ai nostri fratelli e sorelle
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Una Chiesa chinata sul dolore di chi vive ai margini
Come un mosaico composto da tanti tasselli, il viaggio apostolico di Papa Francesco nella Repubblica Democratica del Congo e nel Sud Sudan tocca molteplici realtà. E quella odierna riguarda una Chiesa chinata sul dolore e sull’agonia di quanti si trovano ai margini e nelle periferie. La Chiesa che è un rifugio e un “ospedale da campo” per i deboli, i feriti e gli esclusi. Ed è ad essa, ai suoi pastori, che il Papa ha detto grazie, incontrando il clero del Sud Sudan nella cattedrale di Santa Teresa a Juba, ubicata in Unity Avenue a Bahr al Jabal, nel distretto di Kotor.
Nel primo appuntamento del penultimo giorno in terra africana, Francesco ha parlato ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi, ai consacrati e ai seminaristi del Paese. Stimano gli organizzatori locali che hanno partecipato all’incontro cinquemila persone, la maggior parte all’esterno e un migliaio all’interno della chiesa.
All’ingresso del tempio, la cui costruzione è iniziata nel 1952, il Pontefice è stato accolto dall’arcivescovo Stephen Ameyu Martin Mulla, e dal parroco che gli ha porto la croce e l’acqua santa. In sottofondo canti che, insieme con caratteristiche danze, non solo esprimono la gioia ma anche la generosità di questa gente.
Molti sono venuti da lontano e in alcuni casi a piedi. Hanno camminato per giorni, alcuni per tre altri per due, e addirittura un gruppo per ben nove, pur di esserci, come racconta Mary Malakal, catechista della diocesi di Wua.
In abito bianco, tre bambini di etnie diverse hanno consegnato dei fiori al Papa, che ha percorso la navata fino all’altare della cattedrale, sede dell’arcidiocesi metropolitana di Juba, creata il 12 dicembre 1974 da Paolo VI con la bolla Cum in Sudania.
Il primo a parlare è stato il vescovo Yunan Tombe Trille Kuku Andali, presidente della Conferenza episcopale del Sudan (Scbc), che, tra gli applausi, ha ringraziato Francesco per gli accorati appelli contro i conflitti mortali che hanno devastato e continuano a devastare la vita di tanti uomini, donne e bambini in tutto il mondo.
Particolarmente toccanti le testimonianze di un sacerdote, della stessa diocesi del presidente della Scbc, e di una suora, che quotidianamente devono far fronte alle violenze; e, nonostante ciò, riescono in alcune diocesi a gestire ospedali, dispensari di medicina di base, villaggi con persone affette da lebbra e altre malattie croniche, centri che si prendono cura di bambini provenienti da famiglie fragili. Un’azione caritativa e sociale che resta centrata sull’evangelizzazione, per non ritrovarsi presi da tante richieste e avere, come la chiama Papa Francesco, la cosiddetta “sindrome dell’ong “(organizzazione non governativa). Una “malattia” che svilisce la natura della Chiesa, rendendola innocua, se è semplicemente diretta a offrire servizi che aiutano lo sviluppo sociale ma non tocca in profondità le coscienze e non favorisce abbastanza la formazione di una nuova mentalità.
La suora che ha parlato ha ricordato due consorelle uccise nell’agosto 2021 senza poter realizzare il sogno di un ostello per l’istruzione delle ragazze salvate dalla guerra civile e di una clinica ostetrica.
Infine il vescovo di Roma ha pronunciato il suo discorso e dopo la benedizione ha posato per una foto di gruppo con i vescovi del Paese. Quindi in automobile è rientrato in nunziatura, dove ha ricevuto i gesuiti attivi nel Paese. Nel pomeriggio è in agenda un altro momento forte di questo quarantesimo viaggio internazionale: l’incontro con una delegazione di sfollati interni, in rappresentanza del popolo di disperati che vivono ammassati nei campi per “internally displaced”.
(fonte: L'Osservatore Romano, articolo di Silvina Pérez 04/02/2023)
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DISCORSO DEL SANTO PADRE
Cari fratelli Vescovi, presbiteri e diaconi,
cari consacrati e consacrate,
cari seminaristi, novizie e novizi e aspiranti, buongiorno a tutti!
Da tempo coltivavo il desiderio di incontrarvi; per questo oggi vorrei ringraziare il Signore. Sono grato a Mons. Tombe Trille per il suo saluto e a tutti voi per la presenza e per il vostro saluto! Alcuni hanno fatto giorni di strada per essere qui oggi! Porto sempre scolpiti nel cuore alcuni momenti vissuti prima di questa visita: la celebrazione a San Pietro nel 2017, durante la quale abbiamo elevato la supplica a Dio per il dono della pace; e il ritiro spirituale del 2019 con i Leader politici, invitati affinché, attraverso la preghiera, prendessero nel cuore la ferma decisione di perseguire la riconciliazione e la fraternità nel Paese. Abbiamo anzitutto bisogno di questo: di accogliere Gesù, nostra pace e nostra speranza.
Nel mio discorso di ieri mi sono ispirato al corso delle acque del Nilo, che attraversa il vostro Paese come se fosse la sua spina dorsale. Nella Bibbia, all’acqua sono spesso associate l’azione di Dio creatore, la compassione con cui ci disseta quando ci troviamo a vagare nel deserto, la misericordia con cui ci purifica quando cadiamo nelle paludi del peccato; Egli, nel Battesimo, ci ha santificati «con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo» (Tt 3,5). Proprio secondo una prospettiva biblica vorrei guardare nuovamente alle acque del Nilo. Da una parte, nel letto di questo corso d’acqua si riversano le lacrime di un popolo immerso nella sofferenza e nel dolore, martoriato dalla violenza; un popolo che può pregare come il salmista: «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo» (Sal 137,1). Le acque del grande fiume, infatti, raccolgono i gemiti sofferenti delle vostre comunità, raccolgono il grido di dolore di tante vite spezzate, raccolgono il dramma di un popolo in fuga, l’afflizione del cuore delle donne e la paura impressa negli occhi dei bambini. Si vede, la paura, negli occhi dei bambini. Allo stesso tempo, però, le acque del grande fiume ci riportano alla storia di Mosè e, perciò, sono segno di liberazione e di salvezza: da quelle acque, infatti, Mosè è stato salvato e, conducendo i suoi in mezzo al Mar Rosso, è diventato strumento di liberazione, icona del soccorso di Dio che vede l’afflizione dei suoi figli, ascolta il loro grido e scende a liberarli (cfr Es 3,7). Guardando alla storia di Mosè, che ha guidato il Popolo di Dio attraverso il deserto, chiediamoci che cosa significa essere ministri di Dio in una storia attraversata dalla guerra, dall’odio, dalla violenza, dalla povertà. Come esercitare il ministero in questa terra, lungo le sponde di un fiume bagnato da tanto sangue innocente, mentre i volti delle persone a noi affidate sono solcati dalle lacrime del dolore? Questa è la domanda. E quando parlo di ministero, lo faccio in senso largo: ministero presbiterale, diaconale e ministero catechistico, di insegnamento, che fanno tanti consacrati, consacrate e laici.
Per provare a rispondere, vorrei soffermarmi su due atteggiamenti di Mosè: la docilità e l’intercessione. Credo che queste due cose toccano la nostra vita, qui.
La prima cosa che colpisce della storia di Mosè è la sua docilità all’iniziativa di Dio. Non dobbiamo pensare, però, che sia sempre stato così: in un primo tempo egli aveva preteso di portare avanti da solo il tentativo di combattere l’ingiustizia e l’oppressione. Salvato dalla figlia del faraone nelle acque del Nilo, quando aveva scoperto la sua identità si era lasciato toccare dalla sofferenza e dall’umiliazione dei suoi fratelli, tanto che un giorno aveva deciso di fare giustizia da solo, colpendo a morte un egiziano che maltrattava un ebreo. A seguito di questo episodio, però, era dovuto scappare e restare per lunghi anni nel deserto. Lì sperimentò una sorta di deserto interiore: aveva pensato di affrontare l’ingiustizia con le sue sole forze e adesso, come conseguenza, si ritrovava ad essere un fuggitivo, a doversi nascondere, a vivere nella solitudine, a sperimentare il senso amaro del fallimento. Mi domando: qual era stato l’errore di Mosè? Pensare di essere lui il centro, contando solo sulle sue forze. Ma così era rimasto prigioniero dei peggiori metodi umani, come quello di rispondere alla violenza con la violenza.
A volte qualcosa di simile può capitare anche nella nostra vita di sacerdoti, diaconi, religiosi, seminaristi, consacrate, consacrati, tutti: sotto sotto pensiamo di essere noi il centro, di poterci affidare, se non in teoria almeno in pratica, quasi esclusivamente alla nostra bravura; o, come Chiesa, di trovare la risposta alle sofferenze e ai bisogni del popolo attraverso strumenti umani, come il denaro, la furbizia, il potere. Invece, la nostra opera viene da Dio: Lui è il Signore e noi siamo chiamati a essere docili strumenti nelle sue mani. Mosè apprende questo quando, un giorno, Dio gli viene incontro, apparendogli «in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto» (Es 3,2). Mosè si lascia attrarre, fa spazio allo stupore, si mette nell’atteggiamento della docilità per lasciarsi illuminare dal fascino di quel fuoco, di fronte al quale pensa: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?» (v. 3). Ecco la docilità che serve al nostro ministero: avvicinarci a Dio con stupore e umiltà. Sorelle e fratelli, non perdete lo stupore dell’incontro con Dio! Non perdete lo stupore del contatto con la Parola di Dio. Mosè si è lasciato attrarre e orientare da Dio. Il primato non è a noi, il primato è a Dio: affidarci alla sua Parola prima di servirci delle nostre parole, accogliere docilmente la sua iniziativa prima di puntare sui nostri progetti personali ed ecclesiali.
È questo lasciarci plasmare docilmente che ci fa vivere in modo rinnovato il ministero. Davanti al Buon Pastore, comprendiamo che non siamo capi tribù, ma Pastori compassionevoli e misericordiosi; non padroni del popolo, ma servi che si chinano a lavare i piedi dei fratelli e delle sorelle; non siamo un’organizzazione mondana che amministra beni terreni, ma siamo la comunità dei figli di Dio. Sorelle e fratelli, facciamo allora come Mosè al cospetto di Dio: togliamoci i sandali con umile rispetto (cfr v. 5), spogliamoci della nostra presunzione umana, lasciamoci attrarre dal Signore e coltiviamo l’incontro con Lui nella preghiera; accostiamoci ogni giorno al mistero di Dio, perché ci stupisca e perché bruci le sterpaglie del nostro orgoglio e delle nostre ambizioni smodate e ci renda umili compagni di viaggio di quanti ci sono affidati.
Purificato e illuminato dal fuoco divino, Mosè diventa strumento di salvezza per i suoi che soffrono; la docilità verso Dio lo rende capace di intercedere per i fratelli. Ecco il secondo atteggiamento di cui vorrei parlarvi oggi: l’intercessione. Mosè ha fatto esperienza di un Dio compassionevole, che non resta indifferente davanti al grido del suo popolo e scende a liberarlo. È bello questo: scendere. Dio scende a liberarlo. Dio, per la sua condiscendenza nei nostri riguardi, viene in mezzo a noi fino ad assumere in Gesù la nostra carne, provare la nostra morte e i nostri inferi. Sempre scende per rialzarci e chi fa esperienza di Lui è portato a imitarlo. Così fa Mosè, che “scende” in mezzo ai suoi: lo farà più volte durante la traversata nel deserto. Egli, infatti, nei momenti più importanti e difficili, sale e scende dal monte della presenza di Dio al fine di intercedere per il popolo, cioè di mettersi dentro alla sua storia per avvicinarlo a Dio. Fratelli e sorelle, intercedere «non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo. Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione» (C.M. Martini, Un grido di intercessione, Milano, 29 gennaio 1991). A volte non si ottiene molto, ma bisogna farlo: un grido di intercessione. Intercedere è quindi scendere per mettersi in mezzo al popolo, “farsi ponti” che lo collegano a Dio.
Ai Pastori è richiesto di sviluppare proprio quest’arte di “camminare in mezzo”. Dev’essere la specialità dei pastori, camminare in messo: in mezzo alle sofferenze, in mezzo alle lacrime, in mezzo alla fame di Dio e alla sete di amore dei fratelli e delle sorelle. Il nostro primo dovere non è quello di essere una Chiesa perfettamente organizzata – questo lo può fare qualsiasi ditta –, ma una Chiesa che, in nome di Cristo, sta in mezzo alla vita sofferta del popolo e si sporca le mani per la gente. Mai dobbiamo esercitare il ministero inseguendo il prestigio religioso e sociale – quel brutto “fare carriera” –, ma camminando in mezzo e insieme, imparando ad ascoltare e a dialogare, collaborando tra noi ministri e con i laici. Ecco, vorrei ripetere questa parola importante: insieme. Non dimentichiamola: insieme. Vescovi e preti, preti e diaconi, pastori e seminaristi, ministri ordinati e religiosi, sempre nutrendo rispetto per la meravigliosa specificità della vita religiosa: cerchiamo di vincere tra di noi la tentazione dell’individualismo, degli interessi di parte. È molto triste quando i Pastori non sono capaci di comunione, non riescono a collaborare, addirittura si ignorano tra loro! Coltiviamo il rispetto reciproco, la vicinanza, la collaborazione concreta. Se ciò non accade tra di noi, come possiamo predicarlo agli altri?
Torniamo a Mosè e, per approfondire l’arte dell’intercessione, guardiamo alle sue mani. La Scrittura ci offre tre immagini al riguardo: Mosè col bastone in mano, Mosè con le mani protese, Mosè con le mani alzate al cielo.
La prima immagine, quella di Mosè col bastone in mano, ci dice che egli intercede con la profezia. Con quel bastone compirà dei prodigi, segni della presenza e della potenza di Dio, nel nome del quale parla, denunciando ad alta voce il male che il popolo soffre e chiedendo al faraone di lasciarlo partire. Fratelli e sorelle, per intercedere a favore del nostro popolo siamo chiamati anche noi ad alzare la voce contro l’ingiustizia e la prevaricazione, che schiacciano la gente e si servono della violenza per gestire gli affari all’ombra dei conflitti. Se vogliamo essere Pastori che intercedono, non possiamo restare neutrali dinanzi al dolore provocato dalle ingiustizie e dalle violenze perché, là dove una donna o un uomo vengono feriti nei loro diritti fondamentali, Cristo stesso è offeso. Sono stato contento di ascoltare nella testimonianza di Padre Luka che la Chiesa non smette di portare avanti un ministero insieme profetico e pastorale. Grazie! Grazie perché, se c’è una tentazione da cui dobbiamo guardarci, è quella di lasciare le cose come stanno e non interessarci delle situazioni per paura di perdere privilegi e convenienze.
Seconda immagine: Mosè con le mani protese. Egli, dice la Scrittura, «stese la mano sul mare» (Es 14,21). Le sue mani distese sono il segno che Dio sta per operare. In seguito, Mosè terrà tra le mani le tavole della Legge (cfr Es 34,29) per mostrarle al popolo; le sue mani protese indicano la vicinanza di Dio che è all’opera e accompagna il suo popolo. Per liberare dal male non basta infatti la profezia, occorre protendere le braccia ai fratelli e alle sorelle, sostenere il loro cammino. Accarezzare il gregge di Dio. Possiamo immaginare Mosè che indica il percorso e stringe le mani dei suoi per incoraggiarli ad andare avanti. Per quarant’anni, da anziano, rimane accanto ai suoi: ecco la vicinanza. E non è stato un compito facile: egli spesso ha dovuto rianimare un popolo scoraggiato e stanco, affamato e assetato, a volte anche capriccioso, che si lasciava andare alla mormorazione e alla pigrizia. E per esercitare tale compito ha dovuto anche lottare con se stesso, perché a volte ha vissuto momenti di oscurità e di desolazione, come quello in cui disse al Signore: «Perché hai fatto del male al tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, al punto di impormi il peso di tutto questo popolo? [...] Non posso io da solo portare il peso di tutto questo popolo; è troppo pesante per me» (Nm 11,11.14). Guarda la preghiera di Mosè: è stanco. Eppure, Mosè non si è ritirato: sempre vicino a Dio, non si è mai allontanato dai suoi. Anche noi abbiamo questo compito: tendere le mani, rialzare i fratelli, ricordare loro che Dio è fedele alle sue promesse, esortarli ad andare avanti. Le nostre mani sono state “unte di Spirito” non solo per i sacri riti, ma per incoraggiare, aiutare, accompagnare le persone ad uscire da ciò che le paralizza, le chiude e le rende timorose.
Infine – terza immagine –: le mani alzate al cielo. Quando il popolo cade nel peccato e si costruisce un vitello d’oro, Mosè sale di nuovo sul Monte – pensiamo a quanta pazienza! – e pronuncia una preghiera che è una vera e propria lotta con Dio perché non abbandoni Israele. Arriva a dire: «Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro. Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato… Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,31-32). Si schiera dalla parte del popolo fino alla fine, alza la mano in suo favore. Non pensa a salvarsi da solo, non vende il popolo per i propri interessi! Intercede. Mosè intercede, Mosè lotta con Dio; tiene le braccia alzate in preghiera mentre i suoi fratelli combattono a valle (cfr Es 17,8-16). Sostenere con la preghiera davanti a Dio le lotte del popolo, attirare il perdono, amministrare la riconciliazione come canali della misericordia di Dio che rimette i peccati: questo è il nostro compito di intercessori!
Carissimi, queste mani profetiche, protese e alzate costano fatica, non è facile. Essere profeti, accompagnatori, intercessori, mostrare con la vita il mistero della vicinanza di Dio al suo Popolo può richiedere la vita stessa. Tanti sacerdoti, religiose e religiosi – come suor Regina ci ha detto delle sue sorelle – sono rimasti vittime di violenze e attentati in cui hanno perso la vita. In realtà, l’esistenza l’hanno offerta per la causa del Vangelo e la loro vicinanza ai fratelli e alle sorelle è una testimonianza meravigliosa che ci lasciano e che ci invita a portare avanti il loro cammino. Possiamo ricordare San Daniele Comboni, che con i suoi fratelli missionari ha compiuto in questa terra una grande opera di evangelizzazione: egli diceva che il missionario dev’essere disposto a tutto per Cristo e per il Vangelo, e che c’è bisogno di anime ardite e generose che sappiano patire e morire per l’Africa.
Allora io vorrei ringraziarvi per quello che fate in mezzo a tante prove e fatiche. Grazie, a nome della Chiesa intera, per la vostra dedizione, il vostro coraggio, i vostri sacrifici, la vostra pazienza. Grazie! Vi auguro, cari fratelli e sorelle, di essere sempre Pastori e testimoni generosi, armati solo di preghiera e di carità; pastori testimoni, che docilmente si lasciano sorprendere dalla grazia di Dio e diventano strumenti di salvezza per gli altri; pastori e profeti di vicinanza che accompagnano il popolo, intercessori con le braccia alzate. La Vergine Santa vi custodisca. In questo momento, pensiamo in silenzio a questi nostri fratelli e sorelle che hanno dato la vita in questo ministero pastorale qui, e ringraziamo il Signore perché è stato vicino. Ringraziamo il Signore per la loro vicinanza martiriale. Preghiamo in silenzio.
Grazie per la vostra testimonianza. E se avete un pochettino di tempo, pregate per me. Grazie.
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La cronaca dell'incontro raccontata da Massimiliano Menichetti
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Pastori che intercedono in mezzo al popolo,
non manager o capi tribù.
ANDREA TORNIELLI
Incontro con i Vescovi, i Sacerdoti e i Diaconi presso la Cattedrale di S. Teresa (Vatican Media)
Papa Francesco incontra i vescovi e il clero del Sud Sudan nella cattedrale di Santa Teresa a Giuba. Un'occasione per parlare del ruolo della Chiesa universale e dell'intercessione come icona di sinodalità
A chiunque eserciti un ministero nella Chiesa è chiesto di far spazio al Signore e di intercedere in mezzo al popolo. È profondo e pieno di spunti che vanno ben oltre i confini del Sud Sudan e dell’Africa il discorso pronunciato da Papa Francesco nella cattedrale di Giuba, all’incontro con i vescovi, il clero, le religiose e i religiosi del Paese. Il Successore di Pietro ha dapprima richiamato la necessità di non pensare “di essere noi al centro”, di non affidarci “alla nostra bravura”, perché “la nostra opera viene da Dio: Lui è il Signore e noi siamo chiamati a essere docili strumenti nelle sue mani”. Quindi ha chiesto ai pastori di essere compassionevoli e misericordiosi, “non padroni del popolo” o “capi tribù”. E ha poi introdotto un atteggiamento fondamentale di chi è chiamato a servire i fratelli e le sorelle: l’intercessione.
Come ha fatto il Figlio di Dio incarnandosi e morendo sulla croce: è sceso per rialzarci. Come ha fatto Mosè, che intercede per il popolo, si mette dentro la sua storia per avvicinarlo a Dio. E intercedere, ha spiegato Francesco facendo eco alle parole del cardinale Martini, non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo. Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione. “Tante volte non va tanto bene, ma ci vuole di farlo”, ha chiosato il Papa.
È parso evidente, ascoltandolo, che il vescovo di Roma parlasse in terza persona ma dal cuore della sua propria esperienza di pastore che prega, che grida, che intercede, che si mette in mezzo per aiutare il suo popolo. Perché, come ha spiegato, ai pastori è richiesto proprio questo, “camminare in mezzo”: in mezzo alle sofferenze, in mezzo alle lacrime, in mezzo alla fame di Dio e alla sete di amore dei fratelli e delle sorelle. “Il nostro primo dovere – ha detto ancora Francesco - non è quello di essere una Chiesa perfettamente organizzata: questo lo può fare qualsiasi ditta”. La Chiesa di Cristo “sta in mezzo alla vita sofferta del popolo e si sporca le mani per la gente” e i suoi pastori esercitano il loro ministero, “camminando in mezzo e insieme, imparando ad ascoltare e a dialogare, collaborando tra noi ministri e con i laici”. Insieme, non da privilegiati appartenenti a una casta. Insieme seguendo il Maestro e facendo spazio a Lui, non da funzionari del sacro o da manager che si affidano a strutture e strategie. Non è forse questa l’icona più appropriata a descrivere la sinodalità?
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Vedi anche il post (all'interno i link a quelli precedenti):