mercoledì 2 febbraio 2022

“Ritroveremo la primavera – I giovani protagonisti del rinnovamento” Lettera alla città 2022 di Erio Castellucci, Arcivescovo di Modena - Nonantola

“Ritroveremo la primavera
I giovani protagonisti del rinnovamento”
Lettera alla città 2022

di Erio Castellucci,
Arcivescovo di Modena - Nonantola




«Ci siamo persi la primavera», ha scritto nei giorni scorsi una ragazza diciassettenne, riflettendo sul lockdown di due anni fa. Poi ha proseguito, con una nota di amarezza: «ed è ancora inverno». Ancora nel tunnel della pandemia, stiamo per perderci la terza primavera. Ma una cosa è perdere delle primavere dopo averne vissute decine, come nel mio caso e in quello di altri adulti e anziani, un’altra è perderle nella giovinezza. Cos’è l’adolescenza senza le corse libere, le feste a casa degli amici, le attività di gruppo, lo sport, gli abbracci? Quali segni lascerà nell’animo dei giovani un tempo così lungo di limitazioni, incontri sospesi, relazioni monche? Un altro diciassettenne ha scritto: «non ci sono più volti, solo mascherine: ci vediamo a metà». Il senso di incompletezza pervade ormai la nostra vita: tutto appare dimezzato e ristretto, comprese le stagioni. Ritroveremo la primavera?

Il “fenomeno giovanile”

I giovani, gli stessi dai quali si leva il grido silenzioso che denuncia la grave crisi in atto, ci aiuteranno a ritrovare la primavera. Non sono un sognatore e cerco guardare anche al di fuori del (presunto) recinto dorato dei ragazzi delle parrocchie, piccola minoranza rispetto all’universo giovanile. Come tutti, cerco di informarmi e so quanti problemi, specialmente in questo tempo, affliggono gli adolescenti, affiorando in episodi di bullismo, violenza, autolesionismo, disimpegno. Le statistiche collocano oltre due milioni di giovani italiani nella situazione NEET (= Not in Education, Employment or Training), al di fuori cioè degli ambienti educativi e lavorativi, senza nemmeno la ricerca di un’istruzione o una professione. Ad essi vanno affiancati, nel nostro Paese, decine di migliaia di Hikikomori, una parola giapponese ormai entrata nel gergo diffuso, che indica lo “stare in disparte”: giovani che si chiudono in casa tagliando ogni rapporto con il mondo esterno, spesso anche con i loro familiari. La dispersione scolastica, che già prima della pandemia riguardava più di centomila alunni ogni anno, nonostante l’intensa attività delle istituzioni si è accentuata con la pandemia. E si potrebbe proseguire con la lista dei malesseri.


Ma non è necessario ricorrere alla sociologia per farsi un’idea della condizione giovanile; basta aprire un giornale qualsiasi, in un giorno qualsiasi di un mese e un anno qualsiasi. Per evitare di pescare nelle consuete cronache del tempo di pandemia, dove tutti i disagi – compreso quello dei ragazzi – risultano amplificati, ho sfogliato un vecchio quotidiano di cinque anni fa, alla data del 15 febbraio. Riporto semplicemente i titoli, tutti documentabili: Ragazzi suicidi, è allarme; Generazione friabile; Basta genitori amici dei figli; Giovane diciassettenne vittima del male oscuro; Sul social il video hot della sedicenne; Due ventenni accusati di violenza sessuale di gruppo; Adolescenti depressi; Lottiamo tutti contro il bullismo; Botte fuori dal liceo. E tutto questo, confermo, nello stesso giorno. È il famoso “disagio giovanile”, che diventa perfino dramma. Sembra la conferma della convinzione diffusa che “i giovani d’oggi” sono sbandati, poveri di valori, incapaci di impegno e di sacrificio, candidati a militare nelle baby-gang.

“I giovani d’oggi”: tanto studiati, rimproverati, imputati, segnati a dito. Leggiamo cosa scrive di loro un grande intellettuale, dal linguaggio raffinato e leggermente fuori moda:

Ora i giovani sentono il bisogno di distinguersi, e non trovando altra strada aperta come una volta, consumano le forze della loro giovanezza, e studiano tutte le arti, e gettano la salute del corpo, e si abbreviano la vita, non tanto per l’amore del piacere, quanto per essere notati e invidiati e vantarsi di vittorie vergognose, che tuttavia il mondo ora applaude, non restando a un giovane altra maniera, di far valere il suo corpo, e procacciarsene lode, che questa.

Certo, sono così “i giovani d’oggi” … ma non stiamo parlando né dei Millennials né della Generazione Zeta; forse la parola “giovanezza” e il verbo “procacciarsi” fanno la spia: qui si tratta dei “giovani d’oggi” di due secoli fa; il brano è tratto dallo Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi, alla data del 21 giugno 1820. Il poeta di Recanati del resto deplora più volte la condizione e la vita dei giovani del suo tempo, da lui ritenuti peggiori a confronto delle generazioni passate.

Un altro famoso autore ragiona sulla differenza tra i ragazzi del passato e quelli del presente: nelle scuole di oggi, dice, non c’è più interesse per gli studi, mentre la gioventù si accalca nei festini e gli adolescenti si pettinano tutti allo stesso modo… che sia un giornalista appostato fuori da un Liceo? No, è un passo tratto dall’epistolario di Seneca (Lettere morali a Lucilio, 95), un testo che ha poco meno di duemila anni. Non mancano certo scritti ancora più antichi contro il degrado dei “giovani d’oggi”; è probabile che questa tendenza sia radicata addirittura nella preistoria. Evidentemente il biasimo nei confronti dei giovani ha radici antiche ed è legato alla tendenza degli adulti a leggere il presente in termini di decadenza, per far risplendere la superiorità del passato, cioè del presente di quando loro erano giovani. Sant’Agostino, in un discorso tenuto più di sedici secoli fa, affermava non senza ironia:

troverai degli uomini che si lamentano dei loro tempi, convinti che solo i tempi passati siano stati belli. Ma si può essere sicuri che se costoro potessero riportarsi all’epoca degli antenati, non mancherebbero di lamentarsi ugualmente. Se, infatti, tu trovi buoni quei tempi che furono, è appunto perché quei tempi non sono più i tuoi (Disc. Caillau-Saint-Yves 2).

Prudenza, dunque, nel dare giudizi sui giovani d’oggi, nel gridare allo sfacelo morale, culturale, affettivo e sociale, nell’addossare agli adolescenti le etichette di teppisti, violenti e sfaccendati. Negli anni sono diventato allergico al costante abbinamento del sostantivo disagio all’aggettivo giovanile. Quando il mondo degli adulti rileva comportamenti inaccettabili nei giovani, è tenuto moralmente a premettere un esame di coscienza. Che mondo stiamo lasciando ai ragazzi di oggi? Quali valori abbiamo custodito per loro, quali ideali testimoniamo? Quale modello di vita adulta stiamo incarnando? Loro sono incerti e confusi, è vero: ma gli orizzonti futuri che si aprono, quegli orizzonti che noi adulti stiamo disegnando, che promesse contengono? Quando gli adulti sono affetti dal mito del giovanilismo, comportandosi da adolescenti, come si può sperare che i giovani desiderino e progettino una vita adulta? Non intendo ora cadere nella tentazione di una requisitoria sugli “adulti d’oggi”, che oltretutto mi si ritorcerebbe contro per ragioni anagrafiche; però mi sembra onesto porre alcune questioni scomode per noi più attempati. Le presento senza alcuna pretesa di completezza, così come mi vengono dal cuore.

Abbiamo mille ragioni per contrastare fermamente e reprimere il bullismo, la violenza e il vandalismo giovanile. A patto però di affrontare la domanda su chi abbia creato le condizioni problematiche in cui vivono i giovani. Non abbiamo forse costruito, negli ultimi decenni, una convivenza civile ispirata ad una libertà senza relativa responsabilità, ad un consumismo sfacciato, ad una “legge del più forte” che ha trasferito la logica di mercato dentro le relazioni sociali, affettive, sessuali e familiari? Spero di non risultare moralista se, dando voce a molti educatori, esprimo preoccupazione per il bombardamento incontrollato della pornografia, in tutte le sue varianti social, sugli adolescenti e i giovani; un mercato, gonfiatosi nella pandemia, che vuole creare dipendenza, favorendo un approccio utilitaristico al corpo proprio e altrui, fino a considerarlo strumento da sfruttare solo a proprio vantaggio. Ci scandalizziamo poi per gli atti di teppismo adolescenziale, ma non sempre risaliamo alle radici di una cultura adulta che sparge dovunque immagini violente e sbandiera l’aggressività come metodo normale nei dibattiti e nei confronti a tutti i livelli: familiare, sociale, politico e perfino ecclesiale… non a caso papa Francesco ha messo in moto in tutte le comunità cristiane uno “stile sinodale”, per educare i cattolici stessi ad ascoltarsi a vicenda – cosa tutt’altro che scontata, come si vede dalle profonde divisioni nella Chiesa – per seminare uno stile di ascolto reciproco in tutti gli ambienti. Siamo meravigliati per la confusione dei ragazzi, lo smarrimento degli adolescenti, la mancanza di prospettive dei giovani: ma basterebbe ricostruire a grandi linee le recenti crisi esplose nei campi dell’economia e dell’ecologia, per renderci conto di quanto le ultime generazioni di adulti abbiano contribuito nel creare situazioni di disagio, ragionando più sui vantaggi immediati che sulle conseguenze future delle loro scelte.

Potendo ricordare personalmente quali erano quarant’anni fa le prospettive di un ventenne, mi sembra che già da tempo l’orizzonte del futuro si sia notevolmente abbassato. Sono istruttive le statistiche dei giovani che ogni anno, da un po’ di tempo ad oggi – non fa testo il periodo della pandemia – si recano all’estero per specializzarsi, trovare lavoro e normalmente poi rimanervi: decine e decine di migliaia. Ancora negli anni Ottanta, noi ventenni dell’epoca potevamo sognare il futuro “con i piedi per terra”, orientandoci ad una scelta lavorativa e vocazionale che appariva realistica e raggiungibile; ma da alcuni decenni i giovani faticano a pianificare, per mancanza di reali e concrete prospettive: i progetti di vita familiare e professionale, pur coltivati, sono inevitabilmente precari. Si naviga a vista.

La pandemia sta svolgendo, anche in questo caso, una funzione acceleratrice, intensificando il clima di incertezza in tutti e specialmente nei giovani; nei loro discorsi abbondano i “forse”, i “non so”, i “chissà”, i “per ora”. E quando gli adulti se la sbrigano con un giudizio su di loro come nichilisti, depressi, liquidi, viziati, immaturi, superficiali o sdraiati – senza negare l’esistenza di tendenze di questo tipo, comunque non solo tra i giovani – dovrebbero ricordarsi che siamo stati noi adulti a consegnare a loro questa condizione precaria.

Sguardo nuovo sui giovani

È necessario uno sguardo nuovo degli adulti sui giovani: occhi che scrutano il bene prima di segnalare il male; occhi che guardano al futuro più che fissarsi sul passato. Scrisse San Giovanni Bosco, uno dei più grandi educatori della storia: «l’educazione è cosa di cuore» (Lettera del 29 gennaio 1883). Dal cuore, non dalle analisi, prende avvio uno sguardo nuovo sui giovani. E non si tratta di un discorso romantico, ma estremamente pratico: infatti proprio dal cuore, da questo sguardo nuovo, il santo torinese aveva tratto l’ispirazione per stipulare il primo contratto di apprendistato tra il datore di lavoro e un giovane, facendo egli stesso da garante:

Il Sig. Bertolino Giuseppe Mastro Minusiere esercente la professione in Torino, riceve nella qualità di apprendista nell’arte di falegname il giovane Giuseppe Odasso, natio di Mondovì, del vivente Vincenzo natìo di Garessío e in questa capitale domiciliato, e si obbliga di insegnargli l’arte suddetta, per lo spazio d’anni due che si dichiarano aver avuto principio col primo del corrente anno… (Contratto di apprendizzaggio, 8 febbraio 1852).

Seguono tutte le regole della convenzione: durata, stipendio, diritti e doveri del lavoratore e del datore. Lo sguardo di don Bosco – la cui memoria noi modenesi trascuriamo un po’ perché cade nel giorno stesso della solennità di San Geminiano – è lo stesso sguardo che ha ispirato don Mario Rocchi, seguito da tanti preti e laici, nell’avviare e guidare la Città dei Ragazzi, dentro la quale generazioni di modenesi si sono incontrati e formati, e che anche oggi è luogo di crescita, educazione e inclusione, punto di riferimento per bambini, adolescenti, giovani e famiglie. Su questo stesso sguardo insiste ora papa Francesco. Rivolgendosi agli universitari, in una visita a Bologna, richiamò due miti greci, quello di Ulisse e quello di Orfeo, per indicare il metodo di comunicazione tra giovani e con i giovani. Entrambi i personaggi riuscirono a vincere il richiamo fatale delle sirene, ma in due modalità molto diverse:

Ulisse, per non cedere al canto delle sirene, che ammaliavano i marinai e li facevano sfracellare contro gli scogli, si legò all’albero della nave e turò gli orecchi dei compagni di viaggio. Invece Orfeo, per contrastare il canto delle sirene, fece qualcos’altro: intonò una melodia più bella, che incantò le sirene (Discorso del primo ottobre 2017).

La cera, con la quale Ulisse tappa le orecchie dei compagni, è un simbolo di difesa, è un no. La cetra, con la quale Orfeo esegue un canto più attraente di quello delle sirene, è un simbolo di proposta, è un sì. E le corde con le quali Ulisse si lega all’albero maestro sono dei no, mentre le corde della cetra di Orfeo sono dei sì. Entrambe le corde sono necessarie, perché l’educazione necessita dei e dei no. Ma dobbiamo confessare che noi adulti siamo attrezzati ad usare più la cera che la cetra, più le corde per legare che le corde per suonare; mentre gli indispensabili no devono custodire un grande e unico sì: alla vita, alla bellezza, al futuro.

La sfida educativa si affronta non tanto biasimando nei giovani le sirene dell’istinto, dell’egoismo, della “vita facile”, quanto proponendo loro una “vita bella”, armoniosa, progettuale; e non tanto con le parole, ma soprattutto con la testimonianza della vita. I giovani sono disposti ad ascoltare gli adulti, anche i più anziani, se li vedono realizzati come adulti; se si sentono da loro amati, accompagnati, compresi; se avvertono da parte loro uno sguardo di fiducia. La trasmissione intergenerazionale di tradizioni e valori, oggi così ardua, passa attraverso questo sguardo fiducioso sui giovani.

In ascolto dei giovani

«Mi sento felice nel restituire qualcosa dei tanti doni ricevuti». Questa frase, lanciata durante un incontro organizzato dalla Caritas diocesana di Modena nella primavera del 2020, venne ripetuta in modi diversi da tutti i giovani presenti. Era un gruppo di maggiorenni, provenienti da varie parrocchie e realtà diocesane, che si erano impegnati durante le settimane del lockdown per portare gli alimenti alle persone bisognose tappate in casa. Semplice la logica di quei ragazzi, che richiama l’invito di Gesù ai discepoli: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Matteo 10,8). Non so se fossero tutti credenti, ma so che questa logica del gratuito è profondamente umana, prima ancora che cristiana, e che coinvolge molti giovani; ben più di quelli che si possono immaginare. Cinquanta ventenni che tutte le mattine lavorano gratis alcune ore per aiutare il prossimo non fanno notizia; un ventenne che si ubriaca nei giardini pubblici finisce in prima pagina e detta i titoli sul “disagio giovanile”. È giusto, d’accordo, dare rilievo al malessere, per mantenere alto il livello dello sdegno; ma sarebbe ancora più giusto dare rilievo al bene nascosto, rendere “sensazionale” la quotidiana semina di gratuità e prossimità che molti giovani compiono. Di generosità ne abbiamo vista molta in questi due anni così difficili: e non ci siamo stancati di apprezzare chi si è speso per alleviare le sofferenze sanitarie, economiche, sociali, educative delle persone colpite dal covid-19. Non possiamo dimenticare che spesso sono proprio stati i giovani ad intervenire nelle situazioni più faticose, a partire dalle loro stesse famiglie; che sono soprattutto i giovani a rendere possibili le comunicazioni, in questo biennio di esplosione del digitale; e che, tra gli oltre cinque milioni di volontari nel nostro paese, si contano molti giovani, spesso anche tra quelli che impropriamente vengono definiti “disabili” e che sono, invece, portatori di ricchezze enormi, di creatività e di un affetto profondo. È un mare di bene nascosto, che non reclama pubblicità e nemmeno cerca ricompense; perché il bene si ricompensa da se stesso: «mi sento felice nel restituire qualcosa».

Dobbiamo imparare tutti, comunità civile ed ecclesiale, ad ascoltare le domande di autenticità dei giovani, più sensibili di noi adulti su vari fronti: dalla cura del creato alla lotta ai privilegi, dal rispetto per le persone svantaggiate ad una ricerca spirituale meno convenzionale e più convinta. Se vogliamo che i messaggi più alti possano bussare al loro cuore, non possiamo impacchettarli nei nostri laboratori adulti, presumendo di sapere noi cosa pensano e di cosa hanno bisogno. Molte volte l’universo giovanile è oggetto di analisi, studi e proposte, mentre sono poche le occasioni nelle quali i giovani possono, come soggetti, presentare agli adulti le loro idee, i loro sogni e progetti. Il 2022 si apre con un’opportunità ulteriore, essendo stato proclamato dalle istituzioni del nostro continente Anno Europeo dei Giovani.

Spesso ci domandiamo “come parlare ai giovani”; ma la prima e più importante domanda è: “come ascoltare i giovani”. Anche se avessimo l’impressione di sentire cose sgradevoli, provocatorie e ingiuste, dovremmo partire dal loro vissuto, accettare che essi stessi si confrontino con la vita, stare al loro fianco e non dettare regole dall’alto. Saranno loro stessi ad indicare le strade per trovare, insieme a noi adulti, delle piste e delle risposte plausibili per la loro vita. Non saranno sempre i sentieri che noi avevamo pensato “per loro”, ma saranno i “loro” sentieri. Più volte ho sperimentato, nel ministero pastorale, che i ragazzi accettano il confronto, anche vivace, con quegli adulti dai quali si sentono amati e accompagnati, e non classificati e giudicati. E non è vero che sono impermeabili alle proposte esigenti: semplicemente le devono vedere prima incarnate negli adulti, per poterle considerare e tradurre alla loro misura di giovani.

Concludo richiamando una scena che si trova nella favola contemporanea di Michael Ende intitolata Momo, pubblicata nel 1973, trasformata in film nel 1986 e in lungometraggio a cartoni animati nel 2001. In una città senza nome giunge Momo, una bambina, anche se pare avesse 108 anni… forse l’autore vuole così simboleggiare il dialogo intergenerazionale. Momo è dotata di poteri straordinari: stimola la fantasia, rimette pace tra i contendenti, trova la soluzione dei problemi. Il suo segreto è uno solo: è capace di ascoltare. Un giorno un giovanotto portò a Momo il suo canarino in gabbia, che non voleva più cantare. Per risolvere il problema, Momo si siede davanti alla gabbia una settimana intera, in silenzio, e alla fine il canarino ricomincia a cantare allegramente. Morale della favola: non aveva più cantato, perché non aveva trovato nessuno che avesse la pazienza di ascoltarlo.

San Geminiano, che secondo la cronologia tradizionale diventò vescovo di Modena ancora giovane, aiuti gli adulti a mettersi più decisamente in ascolto dei giovani. Propongo, pandemia permettendo, che nelle ultime settimane di primavera troviamo una mezza giornata da dedicare all’ascolto dei ragazzi: un ascolto da parte della città, insieme alla diocesi e tutte le istituzioni e gli enti locali che stanno operando intensamente per ricostruire il tessuto educativo e sociale. Sarebbe una specie di cattedra dei giovani, che potrebbero parlare agli adulti esprimendo liberamente ciò che hanno nel cuore: sogni e sofferenze, desideri e consigli. Potremo ascoltare alcune loro esperienze di studenti e lavoratori, educatori, sportivi e volontari impegnati nei diversi ambiti. Sarebbe un’occasione per sperimentare come, ripartendo dall’ascolto dei giovani, possiamo ritrovare insieme la primavera