venerdì 31 dicembre 2021

PRIMI VESPRI DELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO E TE DEUM DI RINGRAZIAMENTO PER L'ANNO TRASCORSO «Sorelle e fratelli, oggi la Madre – la Madre Maria e la Madre Chiesa – ci mostra il Bambino... Lui dà pienezza al tempo, dà senso alle opere e ai giorni. Abbiamo fiducia, nei momenti lieti e in quelli dolorosi: la speranza che Lui ci dona è la speranza che non delude mai.» Papa Francesco Omelia 31/12/2021 (foto, testo e video)

PRIMI VESPRI DELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
E TE DEUM DI RINGRAZIAMENTO PER L'ANNO TRASCORSO

Basilica di San Pietro
Venerdì, 31 dicembre 2021


Papa Francesco alle 17 ha fatto il suo ingresso nella basilica di San Pietro per il tradizionale Te Deum di fine anno. A presiedere i primi Vespri della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio è il card. Giovanni Battista Re, decano del Collegio Cardinalizio. Dopo l’ingresso in basilica, il Santo Padre ha salutato per primo il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri. Poi si è seduto nella sua postazione a destra guardando l’altare e ha salutato due bambini che gli si sono avvicinati. Durante la celebrazione ha tenuto l'omelia di cui di seguito riportiamo il testo integrale.








OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO


In questi giorni la Liturgia ci invita a risvegliare in noi lo stupore, lo stupore per il mistero dell’Incarnazione. La festa del Natale è forse quella che maggiormente suscita questo atteggiamento interiore: lo stupore, la meraviglia, il contemplare... Come i pastori di Betlemme, che prima ricevono il luminoso annuncio angelico e poi accorrono e trovano effettivamente il segno che era stato loro indicato, il Bambino avvolto in fasce dentro una mangiatoia. Con le lacrime agli occhi si inginocchiano davanti al Salvatore appena nato. Ma non solo loro, anche Maria e Giuseppe sono pieni di santa meraviglia per quello che i pastori raccontano di aver udito dall’angelo riguardo al Bambino.

È così: non si può celebrare il Natale senza stupore. Però uno stupore che non si limiti a un’emozione superficiale – questo non è stupore –, un’emozione legata all’esteriorità della festa, o peggio ancora alla frenesia consumistica. No. Se il Natale si riduce a questo, nulla cambia: domani sarà uguale a ieri, l’anno prossimo sarà come quello passato, e così via. Vorrebbe dire riscaldarsi per pochi istanti ad un fuoco di paglia, e non invece esporsi con tutto il nostro essere alla forza dell’Avvenimento, non cogliere il centro del mistero della nascita di Cristo.

E il centro è questo: «Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Lo sentiamo ripetere a più riprese in questa liturgia vespertina, con la quale si apre la solennità di Maria Santissima Madre di Dio. Lei è la prima testimone, la prima e la più grande, e nello stesso tempo la più umile. La più grande perché la più umile. Il suo cuore è colmo di stupore, ma senza ombra di romanticismi, di sdolcinatezze, di spiritualismi. No. La Madre ci riporta alla realtà, alla verità del Natale, che è racchiusa in quelle tre parole di San Paolo: «nato da donna» (Gal 4,4). Lo stupore cristiano non trae origine da effetti speciali, da mondi fantastici, ma dal mistero della realtà: non c’è nulla di più meraviglioso e stupefacente della realtà! Un fiore, una zolla di terra, una storia di vita, un incontro… Il volto rugoso di un vecchio e il viso appena sbocciato di un bimbo. Una mamma che tiene in braccio il suo bambino e lo allatta. Il mistero traspare lì.

Fratelli e sorelle, lo stupore di Maria, lo stupore della Chiesa è pieno di gratitudine. La gratitudine della Madre che contemplando il Figlio sente la vicinanza di Dio, sente che Dio non ha abbandonato il suo popolo, che Dio è venuto, che Dio è vicino, è Dio-con-noi. I problemi non sono spariti, le difficoltà e le preoccupazioni non mancano, ma non siamo soli: il Padre «ha mandato il suo Figlio» (Gal 4,4) per riscattarci dalla schiavitù del peccato e restituirci la dignità di figli. Lui, l’Unigenito, si è fatto primogenito tra molti fratelli, per ricondurre tutti noi, smarriti e dispersi, alla casa del Padre.

Questo tempo di pandemia ha accresciuto in tutto il mondo il senso di smarrimento. Dopo una prima fase di reazione, in cui ci siamo sentiti solidali sulla stessa barca, si è diffusa la tentazione del “si salvi chi può”. Ma grazie a Dio abbiamo reagito di nuovo, con il senso di responsabilità. Veramente possiamo e dobbiamo dire “grazie a Dio”, perché la scelta della responsabilità solidale non viene dal mondo: viene da Dio; anzi, viene da Gesù Cristo, che ha impresso una volta per sempre nella nostra storia la “rotta” della sua vocazione originaria: essere tutti sorelle e fratelli, figli dell’unico Padre.

Roma, questa vocazione, la porta scritta nel cuore. A Roma sembra che tutti si sentano fratelli; in un certo senso, tutti si sentono a casa, perché questa città custodisce in sé un’apertura universale. Oso dire: è la città universale. Le viene dalla sua storia, dalla sua cultura; le viene principalmente dal Vangelo di Cristo, che qui ha messo radici profonde fecondate dal sangue dei martiri, cominciando da Pietro e Paolo.

Ma anche in questo caso, stiamo attenti: una città accogliente e fraterna non si riconosce dalla “facciata”, dalle parole, dagli eventi altisonanti. No. Si riconosce dall’attenzione quotidiana, dall’attenzione “feriale” a chi fa più fatica, alle famiglie che sentono di più il peso della crisi, alle persone con disabilità gravi e ai loro familiari, a quanti hanno necessità ogni giorno dei trasporti pubblici per andare al lavoro, a quanti vivono nelle periferie, a coloro che sono stati travolti da qualche fallimento nella loro vita e hanno bisogno dei servizi sociali, e così via. È la città che guarda a ognuno dei suoi figli, a ognuno dei suoi abitanti, anzi, a ognuno dei suoi ospiti.

Roma è una città meravigliosa, che non finisce di incantare; ma per chi ci vive è anche una città faticosa, purtroppo non sempre dignitosa per i cittadini e per gli ospiti, una città che a volte sembra scartare. L’auspicio allora è che tutti, chi vi abita e chi vi soggiorna per lavoro, pellegrinaggio o turismo, tutti possano apprezzarla sempre più per la cura dell’accoglienza, della dignità della vita, della casa comune, dei più fragili e vulnerabili. Che ognuno possa stupirsi scoprendo in questa città una bellezza che direi “coerente”, e che suscita gratitudine. Questo è il mio augurio per quest’anno.

Sorelle e fratelli, oggi la Madre – la Madre Maria e la Madre Chiesa – ci mostra il Bambino. Ci sorride e ci dice: “Lui è la Via. Seguitelo, abbiate fiducia. Lui non delude”. Seguiamolo, nel cammino quotidiano: Lui dà pienezza al tempo, dà senso alle opere e ai giorni. Abbiamo fiducia, nei momenti lieti e in quelli dolorosi: la speranza che Lui ci dona è la speranza che non delude mai.

Guarda il video integrale
(l'omelia del Papa da 28' a 36')


Enzo Bianchi Il Natale e il vero significato dei regali

Il Natale e il vero significato dei regali

di Enzo Bianchi

La Repubblica - 27 dicembre 2021


Questi giorni di feste natalizie e dell’inizio di un nuovo anno sono contraddistinti soprattutto dallo scambio dei doni. I bambini attendono i regali sotto l’albero di Natale, gli uomini e le donne li fanno e li ricevono da parenti e amici, e poi ci sono anche quelli che fanno doni di carità a chi è nel bisogno… Si scambiano gli auguri, si scambiano parole di affetto, si scambiano “cose” pensate e scelte per rallegrare o aiutare i destinatari. La carità “organizzata”, poi, imbandisce tavole alle quali chiamare per un posto i più poveri, i senza casa, i mendicanti.

Sembra un trionfo della bontà, e a molti questa atmosfera di regali appare come una verifica della buona qualità della nostra vita famigliare e sociale. Ma io confesso che sovente mi interrogo e resto perplesso: non dimentico infatti che anche nella stagione della mia infanzia, il dopoguerra povero, si scambiavano regali, ma per conservare l’anonimato del donatore e affinché nessuno se ne assumesse la paternità (“questo è il regalo del papà, questo della mamma, questo della nonna…”) i doni si attribuivano a Gesù bambino o Babbo Natale. Sapevamo che non c’era nessuna discesa di Gesù nel camino della cucina ma, in questo modo, i doni venivano da chi ci amava senza troppi individualismi e senza lasciar spazio a possibili concorrenze e protagonismi. Era un canto alla gratuità, alla non reciprocità (perché i bambini non sapevano fare doni), era un accogliere i regali con stupore e meraviglia. Per tutti c’erano doni, per i più poveri come per i meno poveri, perché alle persone bisognose si portava qualcosa affinché potessero anche loro fare un dono ai figli, altrimenti non sarebbe stato Natale. Nessun idealismo, perché allora come oggi chi festeggiava soffriva nello stesso tempo ferite, faceva fatica a vivere, aveva parole inghiottite anche a tavola con gli altri.

Oggi viviamo nell’abbondanza, in una società segnata da un accentuato individualismo con tratti di narcisismo, tentati di assumere la logica del do ut des, la logica del mercato: c’è ancora posto per l’arte del donare, per esercitarci a donare resistendo alla perversione del dono? Il dono è ancora contraddistinto dalla gratuità, oppure la simula facendo regnare la legge del tornaconto? Perché ormai abbiamo imparato a interrogarci e a diffidare anche di questo atto del donare che dovrebbe essere la prima azione umanizzante. Basterebbe pensare ai cosiddetti “aiuti umanitari” con cui abbiamo voluto nascondere il male operante nella realtà della guerra.

Ma oltre alla perversione del dono è possibile anche la sua banalizzazione: sovente il dono viene depotenziato e stravolto quando gli si assegna il nome di “carità”, e si dona con un sms una briciola a quelli che i mass media ci indicano come destinatari – lontani! lontanissimi!... che non incontreremo mai –, per i quali vale la pena provare emozioni, illudendoci di essere capaci di compassione. Io chiamo questa emozione “carità presbite”, che si indirizza ai lontani ed è incapace di vedere e incontrare nella vita quotidiana chi è bisognoso ed è vicino a noi! E poi la chiamano carità cristiana!...

Fare doni è un movimento asimmetrico, unilaterale, che nasce da libertà ed è capax amoris. Sa assumere i rischi, ma così nega l’autosufficienza e si pone come gesto eversivo, “contro natura”, vera diastasi nelle relazioni umane facendo emergere che ognuno deve donare perché sempre e comunque debitore dell’amore verso l’altro.

E non si dimentichi che il dono all’altro per eccellenza è la propria presenza, la propria vita, il proprio tempo, la vicinanza nella gratuità. Da questo esercizio del dono può essere generata la capacità del dono dei doni: il perdono!
(fonte: blog dell'autore)


STUPORE, INCANTO E PACE, TRA NATALE E CAPODANNO CON DON TONINO BELLO


STUPORE, INCANTO E PACE, 
TRA NATALE E CAPODANNO CON DON TONINO BELLO

Cosa può e deve ispirare il mistero dell'Incarnazione a partire dalla statuina meno conosciuta del presepe, quella del pastore meravigliato. L'insegnamento del compianto vescovo di Molfetta alla vigilia della Giornata mondiale della pace nei ricordi personali e diretti del presidente della Fondazione che porta il nome dell'ex presidente nazionale di Pax Christi



Era il Dicembre del 1977 quando con don Tonino Bello ci si incontrava in Parrocchia per allestire il presepe. L'occasione di condividere con lui un momento creativo era per noi giovani molto importante: si attendeva con impazienza che il giorno volgesse al termine e puntuali lo aspettavamo. Imparammo molte cose in quelle serate fatate: che presepe viene dal latino praesepium che significa mangiatoia, che il presepe educa alla contemplazione e allo stupore. Contemplazione e stupore che lui stesso ci trasmetteva quando ideava e costruiva sentieri e montagne, ruscelli e casette, stalle e capanne: nei suoi occhi leggevamo il mistero del Natale.

Ho appreso solo successivamente dell'esistenza di una statuina del presepe, forse la meno conosciuta, che ci insegna ad aprire il cuore allo stupore: è quella dell'Incantato o Pastore meravigliato. Un fanciullo con le mani vuote, le braccia aperte e il viso estasiato che esprime appunto meraviglia. Racconta la tradizione che il fanciullo non era ben visto dagli altri pastori perché non portava nessun dono a Gesù. " Gli dicevano: Non hai vergogna? Vieni a Gesù e non gli porti niente? L’Incantato non rispondeva: era totalmente assorto nel guardare il Bambino. E quando i rimproveri si fecero insopportabili intervenne Maria: Incantato non viene a mani vuote! Non vedete che porta al mio Gesù la sua meraviglia, il suo stupore!"

Pastore dell'essenziale, l'Incantato va oltre ogni cosa! Ci dice ancora oggi che la nascita di un bambino suscita gioia e stupore, perché ci pone dinnanzi al mistero della vita. Divenuto Pastore, don Tonino scriveva "la meraviglia è la base dell'adorazione, l'empietà più grande non è tanto la bestemmia o il sacrilegio, la profanazione di un tempio o la dissacrazione di un calice, ma la mancanza di stupore. Senza stupore è difficile l'incontro con Dio". E Francesco sembra fargli eco: "Vivi, ama, sogna, credi! Sogna un mondo che ancora non si vede... Impara dalla meraviglia, coltiva lo stupore!"

Sognare un mondo che ancora non c'è significa già iniziare a costruirlo. Un mondo di pace, senza guerre . Un mondo senza disuguaglianze , un mondo senza inganni. Perché anche il Natale può essere un inganno se passata la pausa festiva tutto ritorna come prima, se ogni giorno dimentichiamo che laddove ci sono armi, prepotenza, potenza, dominio, non è Natale. Ecco perché il Natale, quello vero, più che darci quiete deve trasmettere inquietudine: inquietudine per chi oggi è senza pane, senza casa, senza lavoro, senza salute, senza un amore, senza Dio. Senza speranza! Era inquieto don Tonino. Perché uomo di speranza.

Per questo amava il presepe. Perché il presepe “si inerpica (più della teologia) sui crinali scoscesi della rivelazione col bilico dei suoi ponti, col paradosso delle sue montagne, con la trasognata semplicità dei suoi personaggi.( ) Ma lo (amava ) soprattutto perché suggerisce un'arditezza ancora più grande: che Lui, il Signore, è disposto a ricollocare la sua culla, ancora oggi, tra le pietraie della mia anima inquieta".

Così, con questa certezza, don Tonino, Pastore Incantato, ai fedeli confidava in una notte di Natale: "Cara città, vorrei affidare a ben altro che a un foglio di giornale il mio augurio di buon Natale per te. Vorrei, se mi fosse concesso, lasciare nella mezzanotte il trasognato rapimento della liturgia, e aggirarmi per le tue strade, e bussare a tutte le porte, e suonare a tutti i campanelli, e parlare a tutti i citofoni, e dare una voce sotto ogni finestra illuminata e dire a ognuno. " Non scoraggiarti. È nata la speranza! ".

E allora nostro compito sarà quello di far crescere la speranza nel cuore del mondo. E' il mondo il cantiere di Dio. E' in questo cantiere deve nascere la Pace. Ci dice papa Francesco nel suo messaggio della 54a Giornata mondiale della pace: «Quanta dispersione di risorse vi è per le armi, in particolare per quelle nucleari, risorse che potrebbero essere utilizzate per priorità più significative per garantire la sicurezza delle persone quali la promozione della pace e dello sviluppo umano integrale, la lotta alla povertà, la garanzia dei bisogni sanitari. Anche questo, d'altronde, è messo in luce da problemi globali come l'attuale pandemia da Covid-19 e dai cambiamenti climatici. Che decisione coraggiosa sarebbe quella di "costruire con i soldi che s'impiegano nelle armi e in altre spese militari un "Fondo mondiale" per poter eliminare definitivamente la fame e contribuire allo sviluppo dei paesi più poveri "». Sono inequivocabili le parole dei Profeti: e allora cambiamo! Oggi dobbiamo prendere coscienza che le spese militari conducono al declino economico, non favoriscono lo sviluppo ma lo depotenziano, portano maggiore insicurezza e maggiore instabilità politica.

Da qui bisogna partire se vogliamo davvero essere gli attori del cambiamento d'epoca che stiamo vivendo. Utilizzare le risorse per le armi significa investire nella morte, utilizzare le stesse risorse per eliminare la fame, le povertà, investire per la salute, garantendo oggi a tutti i vaccini anti covid, significa credere nella vita, dar senso appunto al Natale, viverlo come incanto di pace: «​Gesù è venuto non perché tutto restasse come prima, ma perché cambiasse la vita di tutti. Natale è rinascere noi e far nascere un mondo nuovo».



giovedì 30 dicembre 2021

MESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO PER LA LV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE 1° GENNAIO 2022 - Dialogo fra generazioni, educazione e lavoro: strumenti per edificare una pace duratura (testo integrale)

MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ
PAPA FRANCESCO

PER LA LV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

1° GENNAIO 2022


Dialogo fra generazioni, educazione e lavoro:
strumenti per edificare una pace duratura


1. «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace» (Is 52,7).

Le parole del profeta Isaia esprimono la consolazione, il sospiro di sollievo di un popolo esiliato, sfinito dalle violenze e dai soprusi, esposto all’indegnità e alla morte. Su di esso il profeta Baruc si interrogava: «Perché ti trovi in terra nemica e sei diventato vecchio in terra straniera? Perché ti sei contaminato con i morti e sei nel numero di quelli che scendono negli inferi?» (3,10-11). Per questa gente, l’avvento del messaggero di pace significava la speranza di una rinascita dalle macerie della storia, l’inizio di un futuro luminoso.

Ancora oggi, il cammino della pace, che San Paolo VI ha chiamato col nuovo nome di sviluppo integrale, [1] rimane purtroppo lontano dalla vita reale di tanti uomini e donne e, dunque, della famiglia umana, che è ormai del tutto interconnessa. Nonostante i molteplici sforzi mirati al dialogo costruttivo tra le nazioni, si amplifica l’assordante rumore di guerre e conflitti, mentre avanzano malattie di proporzioni pandemiche, peggiorano gli effetti del cambiamento climatico e del degrado ambientale, si aggrava il dramma della fame e della sete e continua a dominare un modello economico basato sull’individualismo più che sulla condivisione solidale. Come ai tempi degli antichi profeti, anche oggi il grido dei poveri e della terra [2] non cessa di levarsi per implorare giustizia e pace.

In ogni epoca, la pace è insieme dono dall’alto e frutto di un impegno condiviso. C’è, infatti, una “architettura” della pace, dove intervengono le diverse istituzioni della società, e c’è un “artigianato” della pace che coinvolge ognuno di noi in prima persona. [3] Tutti possono collaborare a edificare un mondo più pacifico: a partire dal proprio cuore e dalle relazioni in famiglia, nella società e con l’ambiente, fino ai rapporti fra i popoli e fra gli Stati.

Vorrei qui proporre tre vie per la costruzione di una pace duratura. Anzitutto, il dialogo tra le generazioni, quale base per la realizzazione di progetti condivisi. In secondo luogo, l’educazione, come fattore di libertà, responsabilità e sviluppo. Infine, il lavoro per una piena realizzazione della dignità umana. Si tratta di tre elementi imprescindibili per «dare vita ad un patto sociale», [4] senza il quale ogni progetto di pace si rivela inconsistente.

2. Dialogare fra generazioni per edificare la pace

In un mondo ancora stretto dalla morsa della pandemia, che troppi problemi ha causato, «alcuni provano a fuggire dalla realtà rifugiandosi in mondi privati e altri la affrontano con violenza distruttiva, ma tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta c’è un’opzione sempre possibile: il dialogo. Il dialogo tra le generazioni». [5]

Ogni dialogo sincero, pur non privo di una giusta e positiva dialettica, esige sempre una fiducia di base tra gli interlocutori. Di questa fiducia reciproca dobbiamo tornare a riappropriarci! L’attuale crisi sanitaria ha amplificato per tutti il senso della solitudine e il ripiegarsi su sé stessi. Alle solitudini degli anziani si accompagna nei giovani il senso di impotenza e la mancanza di un’idea condivisa di futuro. Tale crisi è certamente dolorosa. In essa, però, può esprimersi anche il meglio delle persone. Infatti, proprio durante la pandemia abbiamo riscontrato, in ogni parte del mondo, testimonianze generose di compassione, di condivisione, di solidarietà.

Dialogare significa ascoltarsi, confrontarsi, accordarsi e camminare insieme. Favorire tutto questo tra le generazioni vuol dire dissodare il terreno duro e sterile del conflitto e dello scarto per coltivarvi i semi di una pace duratura e condivisa.

Mentre lo sviluppo tecnologico ed economico ha spesso diviso le generazioni, le crisi contemporanee rivelano l’urgenza della loro alleanza. Da un lato, i giovani hanno bisogno dell’esperienza esistenziale, sapienziale e spirituale degli anziani; dall’altro, gli anziani necessitano del sostegno, dell’affetto, della creatività e del dinamismo dei giovani.

Le grandi sfide sociali e i processi di pacificazione non possono fare a meno del dialogo tra i custodi della memoria – gli anziani – e quelli che portano avanti la storia – i giovani –; e neanche della disponibilità di ognuno a fare spazio all’altro, a non pretendere di occupare tutta la scena perseguendo i propri interessi immediati come se non ci fossero passato e futuro. La crisi globale che stiamo vivendo ci indica nell’incontro e nel dialogo fra le generazioni la forza motrice di una politica sana, che non si accontenta di amministrare l’esistente «con rattoppi o soluzioni veloci», [6] ma che si offre come forma eminente di amore per l’altro, [7] nella ricerca di progetti condivisi e sostenibili.

Se, nelle difficoltà, sapremo praticare questo dialogo intergenerazionale «potremo essere ben radicati nel presente e, da questa posizione, frequentare il passato e il futuro: frequentare il passato, per imparare dalla storia e per guarire le ferite che a volte ci condizionano; frequentare il futuro, per alimentare l’entusiasmo, far germogliare i sogni, suscitare profezie, far fiorire le speranze. In questo modo, uniti, potremo imparare gli uni dagli altri». [8] Senza le radici, come potrebbero gli alberi crescere e produrre frutti?

Basti pensare al tema della cura della nostra casa comune. L’ambiente stesso, infatti, «è un prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere alla generazione successiva». [9] Vanno perciò apprezzati e incoraggiati i tanti giovani che si stanno impegnando per un mondo più giusto e attento a salvaguardare il creato, affidato alla nostra custodia. Lo fanno con inquietudine e con entusiasmo, soprattutto con senso di responsabilità di fronte all’urgente cambio di rotta, [10] che ci impongono le difficoltà emerse dall’odierna crisi etica e socio-ambientale [11] .

D’altronde, l’opportunità di costruire assieme percorsi di pace non può prescindere dall’educazione e dal lavoro, luoghi e contesti privilegiati del dialogo intergenerazionale. È l’educazione a fornire la grammatica del dialogo tra le generazioni ed è nell’esperienza del lavoro che uomini e donne di generazioni diverse si ritrovano a collaborare, scambiando conoscenze, esperienze e competenze in vista del bene comune.

3. L’istruzione e l’educazione come motori della pace

Negli ultimi anni è sensibilmente diminuito, a livello mondiale, il bilancio per l’istruzione e l’educazione, considerate spese piuttosto che investimenti. Eppure, esse costituiscono i vettori primari di uno sviluppo umano integrale: rendono la persona più libera e responsabile e sono indispensabili per la difesa e la promozione della pace. In altri termini, istruzione ed educazione sono le fondamenta di una società coesa, civile, in grado di generare speranza, ricchezza e progresso.

Le spese militari, invece, sono aumentate, superando il livello registrato al termine della “guerra fredda”, e sembrano destinate a crescere in modo esorbitante. [12]

È dunque opportuno e urgente che quanti hanno responsabilità di governo elaborino politiche economiche che prevedano un’inversione del rapporto tra gli investimenti pubblici nell’educazione e i fondi destinati agli armamenti. D’altronde, il perseguimento di un reale processo di disarmo internazionale non può che arrecare grandi benefici allo sviluppo di popoli e nazioni, liberando risorse finanziarie da impiegare in maniera più appropriata per la salute, la scuola, le infrastrutture, la cura del territorio e così via.

Auspico che all’investimento sull’educazione si accompagni un più consistente impegno per promuovere la cultura della cura. [13] Essa, di fronte alle fratture della società e all’inerzia delle istituzioni, può diventare il linguaggio comune che abbatte le barriere e costruisce ponti. «Un Paese cresce quando dialogano in modo costruttivo le sue diverse ricchezze culturali: la cultura popolare, la cultura universitaria, la cultura giovanile, la cultura artistica e la cultura tecnologica, la cultura economica e la cultura della famiglia, e la cultura dei media». [14] È dunque necessario forgiare un nuovo paradigma culturale, attraverso «un patto educativo globale per e con le giovani generazioni, che impegni le famiglie, le comunità, le scuole e le università, le istituzioni, le religioni, i governanti, l’umanità intera, nel formare persone mature». [15] Un patto che promuova l’educazione all’ecologia integrale, secondo un modello culturale di pace, di sviluppo e di sostenibilità, incentrato sulla fraternità e sull’alleanza tra l’essere umano e l’ambiente. [16]

Investire sull’istruzione e sull’educazione delle giovani generazioni è la strada maestra che le conduce, attraverso una specifica preparazione, a occupare con profitto un giusto posto nel mondo del lavoro. [17]

4. Promuovere e assicurare il lavoro costruisce la pace

Il lavoro è un fattore indispensabile per costruire e preservare la pace. Esso è espressione di sé e dei propri doni, ma anche impegno, fatica, collaborazione con altri, perché si lavora sempre con o per qualcuno. In questa prospettiva marcatamente sociale, il lavoro è il luogo dove impariamo a dare il nostro contributo per un mondo più vivibile e bello.

La pandemia da Covid-19 ha aggravato la situazione del mondo del lavoro, che stava già affrontando molteplici sfide. Milioni di attività economiche e produttive sono fallite; i lavoratori precari sono sempre più vulnerabili; molti di coloro che svolgono servizi essenziali sono ancor più nascosti alla coscienza pubblica e politica; l’istruzione a distanza ha in molti casi generato una regressione nell’apprendimento e nei percorsi scolastici. Inoltre, i giovani che si affacciano al mercato professionale e gli adulti caduti nella disoccupazione affrontano oggi prospettive drammatiche.

In particolare, l’impatto della crisi sull’economia informale, che spesso coinvolge i lavoratori migranti, è stato devastante. Molti di loro non sono riconosciuti dalle leggi nazionali, come se non esistessero; vivono in condizioni molto precarie per sé e per le loro famiglie, esposti a varie forme di schiavitù e privi di un sistema di welfare che li protegga. A ciò si aggiunga che attualmente solo un terzo della popolazione mondiale in età lavorativa gode di un sistema di protezione sociale, o può usufruirne solo in forme limitate. In molti Paesi crescono la violenza e la criminalità organizzata, soffocando la libertà e la dignità delle persone, avvelenando l’economia e impedendo che si sviluppi il bene comune. La risposta a questa situazione non può che passare attraverso un ampliamento delle opportunità di lavoro dignitoso.

Il lavoro infatti è la base su cui costruire la giustizia e la solidarietà in ogni comunità. Per questo, «non si deve cercare di sostituire sempre più il lavoro umano con il progresso tecnologico: così facendo l’umanità danneggerebbe sé stessa. Il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale». [18] Dobbiamo unire le idee e gli sforzi per creare le condizioni e inventare soluzioni, affinché ogni essere umano in età lavorativa abbia la possibilità, con il proprio lavoro, di contribuire alla vita della famiglia e della società.

È più che mai urgente promuovere in tutto il mondo condizioni lavorative decenti e dignitose, orientate al bene comune e alla salvaguardia del creato. Occorre assicurare e sostenere la libertà delle iniziative imprenditoriali e, nello stesso tempo, far crescere una rinnovata responsabilità sociale, perché il profitto non sia l’unico criterio-guida.

In questa prospettiva vanno stimolate, accolte e sostenute le iniziative che, a tutti i livelli, sollecitano le imprese al rispetto dei diritti umani fondamentali di lavoratrici e lavoratori, sensibilizzando in tal senso non solo le istituzioni, ma anche i consumatori, la società civile e le realtà imprenditoriali. Queste ultime, quanto più sono consapevoli del loro ruolo sociale, tanto più diventano luoghi in cui si esercita la dignità umana, partecipando così a loro volta alla costruzione della pace. Su questo aspetto la politica è chiamata a svolgere un ruolo attivo, promuovendo un giusto equilibrio tra libertà economica e giustizia sociale. E tutti coloro che operano in questo campo, a partire dai lavoratori e dagli imprenditori cattolici, possono trovare sicuri orientamenti nella dottrina sociale della Chiesa.

Cari fratelli e sorelle! Mentre cerchiamo di unire gli sforzi per uscire dalla pandemia, vorrei rinnovare il mio ringraziamento a quanti si sono impegnati e continuano a dedicarsi con generosità e responsabilità per garantire l’istruzione, la sicurezza e la tutela dei diritti, per fornire le cure mediche, per agevolare l’incontro tra familiari e ammalati, per garantire sostegno economico alle persone indigenti o che hanno perso il lavoro. E assicuro il mio ricordo nella preghiera per tutte le vittime e le loro famiglie.

Ai governanti e a quanti hanno responsabilità politiche e sociali, ai pastori e agli animatori delle comunità ecclesiali, come pure a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, faccio appello affinché insieme camminiamo su queste tre strade: il dialogo tra le generazioni, l’educazione e il lavoro. Con coraggio e creatività. E che siano sempre più numerosi coloro che, senza far rumore, con umiltà e tenacia, si fanno giorno per giorno artigiani di pace. E che sempre li preceda e li accompagni la benedizione del Dio della pace!

Dal Vaticano, 8 dicembre 2021
Francesco

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[1] Cfr Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 76ss.
[2] Cfr Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 49 .
[3] Cfr Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 231.
[4] Ibid., 218.
[5] Ibid., 199.
[6] Ibid., 179.
[7] Cfr ibid., 180.
[8] Esort. ap. postsin. Christus vivit (25 marzo 2019), 199.
[9] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 159.
[10] Cfr ibid., 163; 202.
[11] Cfr ibid., 139.
[14] Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 199.
[17] Cfr S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens (14 settembre 1981), 18.
[18] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 128.



NATALE 2021 - "Nessuno può battere il male da solo" di Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto

NATALE 2021
"Nessuno può battere il male da solo"
di Bruno Forte,
Arcivescovo di Chieti-Vasto




    In questo Natale, celebrato al termine di un altro anno segnato dalla pandemia da CoVid 19, vorrei invitare a riflettere su che cosa significhi sperare in un momento difficile come quello che stiamo vivendo. Per molti oggi la speranza si riduce al desiderio che il flagello del CoVid passi al più presto, in modo da poter riprendere una vita “normale”, senza paure e distanziamenti, senza bollettini giornalieri di contagiati e di morti. Un’affermazione di Papa Francesco mette in discussione quest’idea: 
«Peggio di questa crisi - ha affermato il Papa nell’omelia di Pentecoste, il 31 maggio 2020 -, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi». Il virus e le sue conseguenze sono certo un male, da cui tutti vorremmo uscire. Non imparare niente da quanto abbiamo vissuto sarebbe, però, il modo peggiore di uscirne. Mi soffermo allora su tre aspetti che l’esperienza vissuta potrebbe aiutarci a riscoprire della speranza, in particolare di quella che per la fede cristiana si è fatta visibile nel Bambino avvolto di luce nella mangiatoia del presepio. 

    Il primo aspetto è che la speranza non può identificarsi con la fede in un infinito progresso, di cui l’umanità sarebbe capace. Quest’idea - alla base degli atteggiamenti di consumismo ed edonismo precedenti alla pandemia - è stata smentita proprio da questo piccolo virus: ci siamo ritrovati tutti più fragili, indifesi, pieni di dubbi e di incertezze. Lo stesso rifiuto ostinato del vaccino da parte di alcuni riflette una presunzione ideologica, di cui la diffusione del CoVid ha mostrato l’inconsistenza: quella di poter fare da soli nell’affrontare l’assalto del male, al prezzo di negare la realtà dolorosamente presente sotto gli occhi di tutti. Se un grande orgoglio dominava la “ragione adulta” delle ideologie moderne, non meno orgoglioso è chi suppone di poter affrontare il pericolo con soluzioni fai-da-te. Imparare a esercitare una maggiore umiltà sarebbe un primo, prezioso guadagno. E umiltà non vuol dire solo avere un’idea chiara dei propri limiti e delle proprie fragilità, ma anche capire di aver bisogno degli altri, in particolare delle competenze e del lavoro serio e corale degli esperti. Speranza vuol dire in tal senso ascoltare chi ha conoscenze e responsabilità maggiori delle nostre e corrispondere a quanto ci viene detto con impegno e disponibilità.

      Un secondo frutto della crisi prodotta dalla pandemia è che in tanti si è risvegliato il bisogno di Dio: non si tratta di cercare un Dio “tappabuchi”, che magicamente risolva quello che ci appare insolubile, ma di metterci nelle mani del Dio affidabile, del cui amore possiamo essere certi. È il Dio che Gesù ci ha rivelato e che il Suo Natale ci porta a riscoprire. Il Dio con noi non abbandonerà mai i Suoi figli: a chiunque lo invochi con fede Egli darà l’aiuto necessario a vivere con dignità e amore la propria vita e ad affrontare con speranza e fede anche la malattia e la morte, quando essa arriverà. Certo, i segni di questo ritorno all’invocazione sono stati spesso ambigui e confusi: non di meno, però, sono attestati da non pochi indicatori, a cominciare dal diffuso ricorso al web e ai canali televisivi per seguire le liturgie a distanza o dal rinnovato afflusso dei pellegrini ai santuari presenti sul territorio del nostro Paese. Speranza vuol dire in questa prospettiva fare esercizi di fede e di preghiera fiduciosa, rimettendo noi stessi e quanti portiamo in cuore, insieme all’umanità intera, nelle braccia di Dio con una confidenza infinita. 

     Infine, la pandemia ha accresciuto di molto le povertà: il bisogno di aiuto alimentare, l’urgenza di essere soccorsi di fronte alle gravi perdite subite, sfidano l’egoismo e la chiusura di tanti. Nessuno può salvarsi da solo: c’è bisogno di sostenersi gli uni gli altri e a tutti è richiesto il coraggio di uscire da logiche centrate solo su di sé e sui propri bisogni, per aprirsi a una più vasta solidarietà. Iniziando dalla preghiera per chi sta soffrendo, ognuno di noi può prendere qualche impegno per aiutare chi si trova in difficoltà e vive il peso della solitudine o la riduzione drammatica delle proprie possibilità di una vita sana, dignitosa e operosa. La Caritas molto sta facendo per i nuovi poveri ed è pronta a indicare a chiunque lo chieda la maniera di contribuire al bene di chi è nella prova. Speranza vuol dire oggi più che mai compiere gesti di carità attenta e concreta, mettendo a disposizione il poco o molto che abbiamo per il bene di tutti. La pandemia, insomma, con le sfide che sta comportando, ci chiede - come ha detto Papa Francesco - di organizzare la speranza, di tradurla, cioè, «in vita concreta ogni giorno, nei rapporti umani, nell’impegno sociale e politico» (Omelia del 14 novembre 2021, Giornata Mondiale dei Poveri). 
   Occorre non solo rinnovare in noi la certezza che Dio è il nostro vero bene, ma anche corrispondere al Suo amore con scelte e gesti eloquenti di solidarietà vissuta e di fede umile e fiduciosa. La mia preghiera e il mio augurio è che questo Natale sia per tutti un tempo fecondo per organizzare la speranza, accogliendo il Dio che viene, Signore della vita e della storia, e mostrandone sempre più con la nostra vita la bontà e la tenerezza per tutti. 

     Lo chiedo rivolgendomi a Lui con le parole struggenti della poesia Il dolore di Giuseppe Ungaretti, voce della tragedia della guerra nella Roma ancora occupata dalle truppe naziste: 

«Cristo, pensoso palpito, 
Astro incarnato nell’umane tenebre, 
Fratello che t’immoli 
perennemente per riedificare 
umanamente l’uomo, 
Santo, Santo che soffri, 
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,  
Santo, Santo che soffri 
 per liberare dalla morte i morti 
e sorreggere noi infelici vivi, 
d’un pianto solo mio non piango più.  
Ecco, Ti chiamo, Santo, 
Santo, Santo che soffri».

(Fonte: "Il Centro" - Venerdì 24 dicembre 2021)

«Pensiamo a Gesù nelle braccia di Giuseppe e Maria, fuggendo, e vediamo in Lui ognuno dei migranti di oggi.» Papa Francesco Udienza Generale 29/12/2021 (foto, testo e video)

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 29 dicembre 2021


Papa Francesco nell'ultima udienza generale di quest'anno, dedicata ancora a San Giuseppe, ha preso spunto dalla vicenda narrata nel vangelo di Matteo e conosciuta come 
“la fuga in Egitto” per prenderlo come modello di tutti coloro che sono costretti, per diverse ragioni, a lasciare la propria patria e parlare così del fenomeno della "migrazione di oggi, davanti alla quale non possiamo chiudere gli occhi" e definendola come "uno scandalo sociale dell’umanità.".
A conclusione ha recitato una nuova preghiera dedicata a "San Giuseppe, migrante perseguitato e coraggioso" nella quale affida  tutti gli abbandonati e i sofferenti di oggi.








Catechesi su San Giuseppe: 5. San Giuseppe, migrante perseguitato e coraggioso


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi vorrei presentarvi San Giuseppe come migrante perseguitato e coraggioso. Così lo descrive l’Evangelista Matteo. Questa particolare vicenda della vita di Gesù, che vede come protagonisti anche Giuseppe e Maria, è conosciuta tradizionalmente come “la fuga in Egitto” (cfr Mt 2,13-23). La famiglia di Nazaret ha subito tale umiliazione e sperimentato in prima persona la precarietà, la paura, il dolore di dover lasciare la propria terra. Ancora oggi tanti nostri fratelli e tante nostre sorelle sono costretti a vivere la medesima ingiustizia e sofferenza. La causa è quasi sempre la prepotenza e la violenza dei potenti. Anche per Gesù è accaduto così.

Il re Erode viene a sapere dai Magi della nascita del “re dei Giudei”, e la notizia lo sconvolge. Si sente insicuro, si sente minacciato nel suo potere. Così riunisce tutte le autorità di Gerusalemme per informarsi sul luogo della nascita, e prega i Magi di farglielo sapere con precisione, affinché – dice falsamente – anche lui possa andare ad adorarlo. Accorgendosi però che i Magi erano ripartiti per un’altra strada, concepì un proposito scellerato: uccidere tutti i bambini di Betlemme dai due anni in giù in quanto, secondo il calcolo dei Magi, quello era il tempo in cui Gesù era nato.

Nel frattempo, un angelo ordina a Giuseppe: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò. Erode, infatti, vuole cercare il bambino per ucciderlo» (Mt 2,13). Pensiamo oggi a tanta gente che sente questa ispirazione dentro: “Fuggiamo, fuggiamo, perché qui c’è pericolo”. Il piano di Erode richiama quello del Faraone di gettare nel Nilo tutti i figli maschi del popolo d’Israele (cfr Es 1,22). E la fuga in Egitto evoca tutta la storia d’Israele a partire da Abramo, che pure vi soggiornò (cfr Gen 12,10), fino a Giuseppe, figlio di Giacobbe, venduto dai fratelli (cfr Gen 37,36) e poi divenuto “capo del paese” (cfr Gen 41,37-57); e a Mosè, che liberò il suo popolo dalla schiavitù degli egiziani (cfr Es 1; 18).

La fuga della Santa Famiglia in Egitto salva Gesù, ma purtroppo non impedisce a Erode di compiere la sua strage. Ci troviamo così di fronte a due personalità opposte: da una parte Erode con la sua ferocia e dall’altra parte Giuseppe con la sua premura e il suo coraggio. Erode vuole difendere il proprio potere, la propria “pelle”, con una spietata crudeltà, come attestano anche le esecuzioni di una delle sue mogli, di alcuni dei suoi figli e di centinaia di oppositori. Era un uomo crudele: per risolvere dei problemi, aveva una sola ricetta: “fare fuori”. Egli è il simbolo di tanti tiranni di ieri e di oggi. E per loro, per questi tiranni, la gente non conta: conta il potere, e se hanno bisogno di spazio di potere, fanno fuori la gente. E questo succede anche oggi: non dobbiamo andare alla storia antica, succede oggi. E’ l’uomo che diventa “lupo” per gli altri uomini. La storia è piena di personalità che, vivendo in balìa delle loro paure, cercano di vincerle esercitando in maniera dispotica il potere e mettendo in atto disumani propositi di violenza. Ma non dobbiamo pensare che si vive nella prospettiva di Erode solo se si diventa tiranni, no! In realtà è un atteggiamento in cui possiamo cadere tutti noi, ogni volta che cerchiamo di scacciare le nostre paure con la prepotenza, anche se solo verbale o fatta di piccoli soprusi messi in atto per mortificare chi ci è accanto. Anche noi abbiamo nel cuore la possibilità di essere dei piccoli Erode.

Giuseppe è l’opposto di Erode: prima di tutto è «un uomo giusto» (Mt 1,19), mentre Erode è un dittatore; inoltre si dimostra coraggioso nell’eseguire l’ordine dell’Angelo. Si possono immaginare le peripezie che dovette affrontare durante il lungo e pericoloso viaggio e le difficoltà che comportò la permanenza in un paese straniero, con un'altra lingua: tante difficoltà. Il suo coraggio emerge anche al momento del ritorno, quando, rassicurato dall’Angelo, supera i comprensibili timori e con Maria e Gesù si stabilisce a Nazaret (cfr Mt 2,19-23). Erode e Giuseppe sono due personaggi opposti, che rispecchiano le due facce dell’umanità di sempre. È un luogo comune sbagliato considerare il coraggio come virtù esclusiva dell’eroe. In realtà, il vivere quotidiano di ogni persona – il tuo, il mio, di tutti noi – richiede coraggio: non si può vivere senza coraggio! Il coraggio per affrontare le difficoltà di ogni giorno. In tutti i tempi e in tutte le culture troviamo uomini e donne coraggiosi, che per essere coerenti con il proprio credo hanno superato ogni genere di difficoltà, sopportando ingiustizie, condanne e persino la morte. Il coraggio è sinonimo di fortezza, che insieme alla giustizia, alla prudenza e alla temperanza fa parte del gruppo delle virtù umane, dette “cardinali”.

La lezione che ci lascia oggi Giuseppe è questa: la vita ci riserva sempre delle avversità, questo è vero, e davanti ad esse possiamo anche sentirci minacciati, impauriti, ma non è tirando fuori il peggio di noi, come fa Erode, che possiamo superare certi momenti, bensì comportandoci come Giuseppe che reagisce alla paura con il coraggio di affidarsi alla Provvidenza di Dio. Oggi credo ci voglia una preghiera per tutti i migranti, tutti i perseguitati e tutti coloro che sono vittime di circostanze avverse: che siano circostanze politiche, storiche o personali. Ma, pensiamo a tanta gente vittima delle guerre che vuole fuggire dalla sua patria e non può; pensiamo ai migranti che incominciano quella strada per essere liberi e tanti finiscono sulla strada o nel mare; pensiamo a Gesù nelle braccia di Giuseppe e Maria, fuggendo, e vediamo in Lui ognuno dei migranti di oggi. E’ una realtà, questa della migrazione di oggi, davanti alla quale non possiamo chiudere gli occhi. E’ uno scandalo sociale dell’umanità.

San Giuseppe,
tu che hai sperimentato la sofferenza di chi deve fuggire
tu che sei stato costretto a fuggire
per salvare la vita alle persone più care,
proteggi tutti coloro che fuggono a causa della guerra,
dell’odio, della fame.
Sostienili nelle loro difficoltà,
rafforzali nella speranza e fa’ che incontrino accoglienza e solidarietà.
Guida i loro passi e apri i cuori di coloro che possono aiutarli. Amen.


Guarda il video della catechesi


Saluti
...

* * *

Con la gioia del clima natalizio, rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Apostole del Sacro Cuore di Gesù e le esorto a rinnovare l’adesione a Cristo povero, umile e obbediente per trasmettere l’amore e la misericordia di Dio nel contesto odierno. Saluto poi gli adolescenti e i giovani di Librino, San Fermo della Battaglia, Villa d’Almé, Portogruaro, Clusone, Celadina di Bergamo, Gravedona e Trento giunti a Roma in questo tempo natalizio per fare esperienze formative e di carità: andate avanti con gioia e tenacia nel cammino intrapreso.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Sappiate essere forti nella fede, guardando al divino Bambino, che nel mistero del Natale si offre in dono per l’intera umanità.

A tutti la mia benedizione.


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mercoledì 29 dicembre 2021

40° della FRATERNITA' CARMELITANA DI BARCELLONA P.G. - "Grazie di cuore! Cammineremo ancora insieme ..." di Maurilio Assenza

40° della FRATERNITA' CARMELITANA DI BARCELLONA P.G.
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"Grazie di cuore! 
Cammineremo ancora insieme ..."
di Maurilio Assenza

Maurilio Assenza e P. Alberto Neglia

    In questi giorni di Natale vorrei dire un grazie tutto particolare alla comunità dei Padri Carmelitani di Barcellona Pozzo di Gotto in Sicilia. 
   Una comunità dentro la storia, capace di aiutare a scorgere Dio nel vento leggero dell’ascolto della Parola meditata con sapienza, della liturgia celebrata con sobria bellezza, dell’incontro affettuoso con il fratello, della predilezione dei piccoli e dei poveri. 
    Una comunità accogliente, in cui poter trovare riposo e attingere alle fonti per molti.
   Una comunità con quarant’anni di presenza, aiuto ad attraversare i deserti della vita e a vivere quel senso che acquista il tempo tra la Pasqua di resurrezione e l'ascensione, tempo di Chiesa che si apre al dono dello Spirito. E, con l'agile quadrimestrale “Horeb”, la possibilità di tenere vivo il dialogo su temi essenziali e nutrienti.
   Grazie di cuore! 
   Cammineremo ancora insieme per come e quanto Dio vorrà, nel volgere del tempo e nello sguardo oltre ciò che passa.
                                                                                                  Maurilio Assenza


LA FRATERNITA' CARMELITANA CON IL VESCOVO
(Egidio Palumbo, Gregorio Battaglia, Mons. Accolla, Alberto Neglia e Aurelio Antista)


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NATALE 2021 - "Dio ama e solo questo vince la paura. È la prima parola che viene rivolta a quei pastori: non temete, non abbiate paura!" don Matteo Zuppi, cardinale (TESTO E VIDEO)

NATALE 2021 
Dio ama e solo questo vince la paura. 
È la prima parola che viene rivolta a quei pastori: 
non temete, non abbiate paura! 
Don Matteo Zuppi, cardinale

Bologna - Cattedrale



OMELIA MESSA DELLA NOTTE DI NATALE

“Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce”. Ecco il segreto che contempliamo questa notte, notte di solo amore, che restituisce sentimenti a cuori spesso involgariti e aridi. Per vederla dobbiamo entrare dentro noi stessi e uscire verso gli altri, scendere nel profondo della nostra vita così com’è, nella mangiatoia del nostro cuore, perché anche lì il Signore si lascia deporre. Le tenebre non hanno vinto questa luce che viene nel mondo. Ma non dobbiamo dimenticare che le tenebre continuano a cercare di vincerla, spesso con la stolta complicità degli uomini che la luce della fede e dell’amore la nascondono sotto il moggio o che si lasciano attrarre da “delle piccole luci che illuminano il breve istante, ma sono incapaci di aprire la strada”. Quando manca la luce, “tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla meta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione”, scrive Papa Francesco insieme a Papa Benedetto.

È duro camminare nelle tenebre. Lo capiamo quando ci misuriamo con le tenebre delle tante pandemie, che questa pandemia ci può insegnare a riconoscere: la malattia e la sofferenza, la scomparsa di una persona cara che misuriamo proprio a Natale in una sedia che rimane vuota; la violenza che diventa aggressività epidermica, un po’ elettrica, violenza contro le donne o follia banale, indecente per come si mette a rischio la vita ma anche indecente filmarla con i cellulari invece di intervenire per bloccarla; la povertà, con le sue tante e dolorose sorelle, che spingono a farsi stranieri pur di sfuggirle; la guerra, mostro che uccide la vita, quando si ode il rimbombo dei calzari dei soldati e troppi mantelli sono pieni di sangue, come descrive il profeta Isaia, spesso nel disinteresse del mondo.

Le pandemie le capiamo nel volto concreto di una persona, nei suoi occhi. Guardiamo gli occhi e capiremo meglio come qualunque cosa avete fatto ad uno di questi suoi fratelli più piccoli l’avete fatta a Lui. Nell’indifferenza si lascia solo, nudo, affamato, straniero tutto l’universo, il sole che sorge, il Verbo senza il quale nulla “è stato fatto di ciò che esiste”. Ma nell’amore è il mondo intero che è Gesù ad essere amato! A volte le tenebre sono nascoste nel cuore, nelle pieghe dell’anima, come quando il mondo crolla addosso poco alla volta e l’io, che l’idolatria del benessere esalta, precipita nell’abisso della malinconia e della depressione. Sono tenebre che spengono la voglia di vivere e di essere migliori, rendono schiavi di dipendenze e di se stessi.

Ecco allora nella notte e in quelle notti di buio profondo vediamo la luce del Natale, sempre uguale e sempre nuova, che non smettiamo di scoprire perché ci dice “ti amo” per aiutarci a capire chi è Dio, chi siamo noi e quanto siamo preziosi. È una luce che non acceca, non abbaglia come una falsa idea di forza, fosse pure cristiana, potrebbe fare credere. È una luce forte, fortissima, perché più forte delle tenebre; è dolce, tenerissima, umana, possibile a tutti, per tutti, che non allontana ma attrae; non ordina, ma bussa; non fa sentire condannati perché sporchi ma rende puri perché amati; che conosce le nostre imperfezioni e le trasforma perché tutto è bello quando è amato da Dio.

Questa luce non è una entità generica. Ha un nome e un volto: l’Emanuele, Gesù, il Dio con noi che significa anche “io con te” e anche “io con io” perché non scappiamo più da noi stessi e da Lui, perché l’alto ci fa trovare l’altro e anche noi stessi. Dio rischia consegnandosi a noi perché non siamo buoni ma vuole che lo diventiamo. Lui assume il rischio che spesso fa dire a noi: “Non voglio figli”, “Debbo pensare solo a me stesso perché il mondo è troppo duro e difficile”. Dio ama e solo questo vince la paura. È la prima parola che viene rivolta a quei pastori: non temete, non abbiate paura! Questa è la gioia così umana di questa notte, questo pezzo di paradiso, che proprio perché non si impone chiede qualcosa a noi. Lo aveva capito nella pandemia dell’idolatria nazista e poco prima di essere deportata nei campi di concentramento, dove venne uccisa, la giovanissima Etty Hillesum. Lei promise a Dio una cosa soltanto: “Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me” perché “siamo noi a dover aiutare te” e dobbiamo “salvare un piccolo pezzetto di te in noi stessi, mio Dio”.

Ecco chi dobbiamo salvare nelle pandemie, nella marea dell’individualismo che tutto sommerge: Gesù. Lui. È per tutti ma per loro non c’è posto. “Per loro non c’era posto nell’alloggio”. Come non c’era posto? A volte facciamo di questo una colpa proprio a chi resta fuori! La paura, l’egoismo, il pregiudizio occupano tutti i posti, fanno sentire in diritto di farlo, anche quando le case sono mezze vuote e la convenienza stessa indica il contrario. Non hanno posto, non perché non c’è, ma perché non vediamo con amore un forestiero che può diventare un fratello. Quando le porte restano chiuse vuol dire che non c’è amore, non che non c’è posto! Gesù resta fuori e fuori dobbiamo cercarlo.

Il Vangelo non ci lascia alibi: chi non trova posto è Gesù. Quando accogliamo Gesù non prendiamo un problema, un utente da sistemare, un peso, ma l’amore. Quando manca, non perché non ci sia ma perché nascosto in noi o speso alla ricerca di una vita pornografica che lo ruba ma non lo restituisce, tutti finiamo per perdere il nostro valore. Ecco, allora siamo chiamati ad essere pastori. Vegliano perché hanno qualcuno da proteggere, hanno un gregge, cercano il futuro. Non sono gli intelligenti, i sapienti, i ricchi che pensano a sé: hanno cura degli altri. Ecco, a chi veglia e nella preghiera cerca il Signore e difende il gregge, a chi si ferma ad aiutare chi vive per strada, a chi si prende cura e visita un anziano perché non può accettare che resti solo e diventa un angelo che protegge dall’inferno di tanti fantasmi e sofferenze, a chi dona fiducia ad un ragazzo o ad uno straniero non perché buono ma perché lo diventi, ecco a chi si prende cura del prossimo – e tutti possono farlo – parla l’angelo di questo Natale.

Sono io, Gesù. Non avere paura di amarmi e di amare! Io non ho paura di te perché tu abbia fiducia che l’amore vince il male. Sono nato per te e per voi, fratelli miei tutti. Sono fragile perché così non scappi più da me, da te stesso e dalla tua debolezza. Sono povero, perché così capisci quello che ti fa ricco e gioisci di tutto perché trovi quello che conta per davvero. Sono per te e per voi, perché non posso vederti e vederli nella tempesta delle pandemie e la vostra sofferenza mi fa soffrire. Io nasco nel tuo cuore perché non ho paura e perché tu non abbia più paura di amarmi e di amare. Se mi ami anche tu diventi luminoso. Sono piccolo perché tu diventi grande e possa crescere con me e diventare grande di cuore. Aiutami, come sai e come puoi a portare luce nel buio così forte in questa pandemia. Io sono la gloria di Dio che è nel più alto dei cieli ma io sono qui sulla terra, con te e con gli uomini che amo.

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Omelia integrale



OMELIA MESSA GIORNO DI NATALE

Natale con la sua realtà disarmante, essenziale, semplice, profonda riesce a cambiare i nostri cuori. È occasione – certo non solo per il consumismo – nella quale volentieri scegliamo regali per le persone che amiamo e siamo contenti di fare sentire loro il nostro amore, tanto che offrire un segno di riconoscenza all’altro è un obbligo che rispettiamo volentieri.

È quello che sceglie Dio che a Natale ci regala il suo amore. In realtà ci rendiamo conto che dalla sua pienezza abbiamo ricevuto grazia su grazia, come abbiamo ascoltato nel Vangelo, delle quali spesso non ci accorgiamo, pensiamo siano un diritto, un nostro possesso oppure le diamo per scontate, motivo per cui siamo scontenti, perché non capiamo quanto il Signore ci circonda con tanti segni di amore. Dipende da noi capirlo.

Quando accade, siamo liberi dal cercare quello che ci manca e sappiamo godere del tanto che abbiamo. La grazia basta perché contiene tanto amore. Il consumismo non basta mai. Dio ci regala il suo amore a Natale: non ci compra, non impone, non ci circuisce con l’inganno o, come si direbbe, con l’abuso di potere, non ci possiede: ci ama. Quando anche noi diciamo al Signore: ti amo, voglio essere tuo, ho gioia di stare con te, da quando ti conosco voglio essere migliore, mi sento sicuro perché sei con me, ecc., allora è Natale nel cuore.

Natale, infatti, è la prima prova più grande dell’amore di Dio, il regalo più impegnativo: se stesso. Gesù non regala qualcosa che parli del suo amore, non ci riempie di regali come chi deve convincerci o chi non sa regalare il suo cuore e risolve mandando cose. Gesù dona se stesso e così si espone, si dichiara, corre il facile rischio di essere rifiutato, tradito, male interpretato. Ma ci ama.

Stamane in carcere con i detenuti abbiamo detto che in fondo si fa carcerare proprio per stare insieme a noi, per liberarci dalla condanna della vita prigioniera della terra e aprirci la strada del cielo e per donarci la chiave per uscire. Gesù non ci obbliga ad aprire la cella di cui solo noi abbiamo la chiave, quella del nostro cuore.

Dipende solo da noi. Quando ce ne accorgiamo avviene qualcosa di bellissimo, sempre affidato a noi, ma che ci cambia: dire anche noi al Signore ti amo, ti prendo con me, imparo da te ad amare il prossimo, perché chi ama Dio ama il prossimo. Ama: non svolge un compito. È perché amiamo che affrontiamo i sacrifici, non viceversa. Alla Dozza lo hanno capito i detenuti che hanno spontaneamente raccolto tra loro dei soldi per aiutare i bambini del reparto di oncologia pediatrica. Mi ha molto commosso. Nessuno è tanto povero da non potere aiutare uno che sta peggio di lui.

Ecco Natale, inizio di una vita nuova. Sarà perfetta o sarà la stessa di prima? Non lo sappiamo. La differenza è che c’è Lui e noi siamo gli stessi ma nuovi. Noi avremo sempre bisogno di imparare ad amare e certamente sbaglieremo: ma il Signore non si stancherà di volerci bene, perché la sua è una nuova creazione come descrive il prologo di Giovanni e con Lui inizia anche un uomo nuovo. In principio e poi inizia tanta vita diversa, perché amata.

Forse Dio non si accorge di come siamo? Perché non pensa in maniera scettica che tanto uno resterà sempre lo stesso? Non si fida troppo? Certamente, ma come un padre non si arrende anche Dio ci aspetta sempre, ci cerca, perché sa che vogliamo e possiamo diventare nuovi. Lo sappiamo: la vita non cambia come schiacciando un tasto, in maniera digitale o scavando tanti pozzi in superficie, ma scavando in profondità nel nostro cuore, perché solo così si trova la sorgente che in esso è nascosta. Natale, infatti, non è un’emozione: è carne, un bambino che è nato e ci è affidato, che chiede solo una cosa: mi ami, mi prendi con te, mi fai tuo. Certo, è Lui che ci adotta ma siamo noi che dobbiamo aprirgli la casa del nostro cuore. Perché tutto questo avviene solo per amore.

Natale ci apre al mondo intero, perché è nato per tutti e con Gesù tutti li sentiamo nostri, tutto ci appartiene nell’amore. E questo è bellissimo. Gesù è una presenza personale, ma non individuale; è privata, ma pubblica, come la nostra vita che è nostra ma trova il suo senso quando la doniamo, diviene di altri. Dio stesso fa così con ciascuno di noi. Viene per me, per entrare nella mia vita e per collegarla al prossimo perché non siamo noi se soli ma siamo noi se stiamo insieme.

Chi sono, però, questi “suoi” ai quali ha dato il potere di diventare figli? Possono essere tutti. È un potere che ha dato Lui a chi lo accoglie: essere come Lui. È questo il potere dell’amore perché l’unica cosa che chi ama desidera è che l’altro dica di sì, corrisponda. I suoi sono quelli che lo accolgono.

Non si appartiene ai suoi per diritto, per eredità, per meriti, credendo di possedere senz’amare. L’hanno accolto, hanno sentito che si è fatto carcerato nella cella di questo mondo e della vita che ha una barriera, un limite invalicabile, che non fa uscire: la morte. Ci cerca e attende che gli diciamo ti voglio bene. Il nostro popolo è libero dai legami di sangue, non perché non valgano ma perché viviamo un legame ancora più forte, che dona senso agli stessi legami di sangue: siamo suoi per amore, quello che il sangue non garantisce.

Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Perché come nella creazione il divisore lo nasconde agli uomini, lo fa immaginare come un limite e non come libertà. Per questo i “suoi non lo hanno accolto”. Lo riduciamo ad una regola da osservare o da evitare e non lo accogliamo nel cuore come amore da vivere. Se il Vangelo diventa una legge e non spirito ci fa sentire suoi ma non lo siamo.

Suoi lo diventiamo non perché perfetti, ma perché osserviamo i precetti, perché ci sentiamo amati. Questa è la differenza del Natale, quella per cui i perfetti non sono suoi, mentre quelli con una vita sbagliata, rovinata, lo diventano. Ecco perché i primi saranno gli ultimi e i pubblicani e le prostitute ci passano avanti nel regno dei cieli. Non ci costringe: non sarebbe amore. Siamo suoi e amiamo perché liberi. Non ha ragione Nicodemo per cui chi è vecchio resta tale, chi ha sbagliato sbaglierà! Nicodemo non conosce l’amore di Dio e può nascere solo dall’alto. Gesù è amore, è un corpo, concreto non virtuale.

Oggi, Natale del Signore nel mondo, si realizza l’attesa di tutti i poveri e i piccoli. Cantano i bambini dell’Antoniano per rassicurare Gesù perché scenda lo stesso sulla terra: “Forza Gesù, non ti preoccupare se il mondo non è bello visto da lassù, tutto il male che viviamo sulla Terra. Ogni lacrima che scende sale su. Con il tuo amore si può sognare. E avere un po’ di Paradiso. Quaggiù”.

Sì, Gesù non ti preoccupare, vieni lo stesso nonostante tanta violenza e cattiveria, nonostante le tante lacrime che scendono giù. Tu non ti abitui alla sofferenza delle persone e tu le raccogli, asciughi le lacrime apri alla fiducia. Insegnaci Signore ad aiutarti, a prendere sul serio il tuo amore, ad essere umili e pieni di gioia per metterci a servizio, amando tutti perché incontrino il tuo amore. Gloria a Dio e pace in terra agli uomini amati dal Signore.

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