martedì 27 ottobre 2020

«Intolleranza e razzismo hanno costretto mio figlio a scappare»

«Intolleranza e razzismo hanno costretto mio figlio a scappare»

Lo sfogo del padre di un 19enne: «Ora studia negli Stati Uniti e mi manca molto. Da certa Italia se n’è andato con il dispiacere nel cuore quando il colore della sua pelle è diventato un problema»


Il bambino di 5 anni, fratello del ragazzo che ha lasciato l’Italia


Mi chiamo Giovanni, ho 57 anni, vivo a Milano e sono un padre preoccupato. Ho parlato con mio figlio al telefono, ieri. È negli Stati Uniti a studiare e mi manca molto. Un ragazzo fortunato, penseranno tanti di voi, e per molti versi sì, è un ragazzo fortunato. Perché può contare sulla sua famiglia che lo adora, perché non gli è mai mancato niente, perché è intelligente, generoso, disponibile, e perché è stato cresciuto amorevolmente. Per altri versi invece no, non è un ragazzo fortunato. Per esempio perché ogni tanto ha nostalgia dei suoi amici italiani, dei suoi genitori, del suo fratello più piccolo... Dell’Italia, semplicemente.

E allora perché non torna? chiederete voi. Perché mio figlio - che ha 19 anni - qui da noi è stato aggredito da un virus che stava consumando la sua allegria e la sua voglia di vivere. Quel virus si chiama razzismo. Mio figlio è un ragazzo di colore e dall’Italia - da certa Italia, sia chiaro - se n’è andato con il dispiacere nel cuore quando la sua pelle è diventata un problema. Un copione che si è ripetuto poi anche per suo fratello, che però è troppo piccolo per vivere lontano da casa. E io prego il cielo ogni santo giorno che non torni da scuola o da qualunque altro posto con un’umiliazione da raccontare. Lo so bene, di questi tempi l’attenzione di tutti è per l’altro virus, quello che ruba il respiro. Lo so che nei pensieri della gente non c’è molto spazio per tutto quel che non è covid. Lo capisco. Ma mi permetto di dire che anche in un tempo così segnato da paure e malattia è necessario non abbassare la guardia né la testa davanti all’altro virus, il razzismo.

Lo dico in particolare al mondo della scuola, perché è lì dentro che si formano gli uomini e le donne di domani e poi perché nel caso dei miei figli è dalla scuola che mi sarei aspettato un po’ di attenzione e di buonsenso in più. Dire «sporco negro» e «negro di m..», «black immigrant», «nigger» a ripetizione, aver preteso che uno di loro si spostasse dalla panchina o dal posto tal dei tali perché «negro», averlo preso a pugni in testa, avergli detto cose come «il colore della vostra pelle è come la m...»: credo che tutto questo non sarebbe tollerabile nemmeno per un adulto strutturato e paziente. Figuriamoci per un ragazzino!

Un giorno la professoressa ha chiamato d’urgenza me e mia moglie: voleva dirci che mio figlio - quello che ora è in America - le aveva confidato di patire tutte quelle vessazioni fino a sentirsi una persona inutile al mondo. «Ho pensato anche al suicidio», le aveva confessato. Per quello lei ci aveva convocati in fretta, spaventata. Era troppo. Avevamo resistito un bel po’ all’idea di spostare lui e suo fratello perché gli psicologi ci avevano detto che non erano loro a dover cambiare scuola, era la scuola a dover cambiare nei loro confronti. Sto parlando di una scuola internazionale prestigiosa, la quale non nega niente ma giura in mille modi di aver fatto il possibile per rimediare e provare a prevenire gli episodi di razzismo subiti dai miei figli. Peccato che non ci sia stata concessa la sola cosa che noi chiedevamo. Non la luna.

A quella scuola avevamo chiesto con insistenza un solo passaggio: discutere di ciò che stava succedendo con tutti i genitori. Far arrivare a loro l’errore dei figli. Non per chiedere punizioni esemplari o per umiliarli, ma perché le famiglie non possono essere estranee a un argomento così importante che riguarda i loro ragazzi. Per dirci di no ci hanno obiettato perfino la questione della privacy. E intanto i miei figli per alcuni dei loro coetanei sono rimasti «sporchi negri», magari senza che le loro famiglie ne sapessero nulla. «Sporchi negri» dal 2013, quando tutto è cominciato, fino al 2018, quando sono avvenuti gli ultimi episodi contro il minore dei due. Quando il più grande è partito ho provato perfino a non pagare la retta del più piccolo per dar voce alla mia protesta. Risultato: ha dovuto cambiare, oggi frequenta una scuola pubblica e mi sembra felice. Attenzione, però: non ne faccio una questione di pubblico/privato e se con i miei figli qualcuno ha sbagliato lo diranno i magistrati, che devono decidere sia dal punto di vista penale sia civile.

Quello che però oggi mi preoccupa, nel mio Paese adorato, è sapere che ci sono persone - ragazzini o adulti poco importa - che possono fare a pezzi la vita di altre persone per il colore della loro pelle. Ma davvero siamo ancora a questo punto? Io ho conosciuto mia moglie a New York, dove ho vissuto per anni. Eravamo lì per lavoro, io direttore artistico e fotografo, lei manager del mondo della moda. Lei è nata ai Caraibi e di madrelingua inglese. I nostri figli sono biologici, il primo è nato a new York e ha il doppio passaporto. Sono entrambi bilingue. La scuola privata costava moltissimo. Tutto questo lo sottolineo per dire che non è una questione di povertà, di ambienti degradati e famiglie disagiate, come si dice. Il razzismo ha radici più profonde, è nella cultura, nell’educazione, nella testa, nell’ignoranza. È un virus potente. Tocca a noi tutti essere vaccino, far sentire la nostra voce, non voltarci dall’altra parte. Proprio come sto facendo io ora, perché ho capito che uscire allo scoperto è un dovere, lo devo prima di tutto ai miei figli.

testo raccolto da Giusi Fasano