sabato 1 agosto 2020

Continuare a tramandare i valori della pace

Continuare a tramandare i valori della pace

L’opera di padre Dall’Oglio ricordata in una conferenza stampa nel settimo anniversario del rapimento


Mercoledì 29 luglio, alle ore 11, nel settimo anniversario del rapimento del padre gesuita Paolo Dall’Oglio, si è svolta una conferenza stampa presso la sede della Fnsi (Federazione Nazionale Stampa Italiana) per ricordare l’opera del religioso e i lati oscuri del suo sequestro. Alla conferenza, organizzata dall'associazione Giornalisti amici di padre Dall’Oglio e da Articolo21, hanno partecipato le tre sorelle del gesuita sequestrato e hanno preso la parola, tra gli altri, padre Federico Lombardi, il presidente della Fnsi, Giuseppe Giulietti, padre Camillo Ripamonti del Centro Astalli, il direttore dell'Osservatore Romano e il prefetto del Dicastero per la comunicazione di cui pubblichiamo qui di seguito il testo dell’intervento.

Siamo in un luogo simbolo del giornalismo, a ricordare una storia che è essa stessa simbolo. A far sì che su di essa non scenda il silenzio. Siamo qui per dire grazie a padre Paolo Dall’Oglio per quello che la sua vita ha testimoniato e testimonia ancora.

Ho pensato, venendo qui, a cosa potrebbe dire lui qui, oggi, a noi riuniti in presenza o collegati via web. E ho pensato che ci parlerebbe forse dell’importanza del buon giornalismo. Per vedere e far vedere le cose nella loro essenza. Per rompere i pregiudizi. Per costruire capacità di incontro. Ho pensato che ci parlerebbe sicuramente dei suoi, dei nostri fratelli siriani. Ci direbbe, da credente, che nulla è perduto per sempre. Che un futuro di pace sempre è possibile; e che è nelle nostre mani se non stessimo solo a guardare. E che quel futuro ci riguarda direttamente. Ci ripeterebbe che è proprio perché ha visto e ha creduto che ha parlato. Con le azioni più che con le parole. Con le chiacchiere, direbbe lui. E che proprio questo è, sarebbe il compito dei giornalisti. Saper vedere. Saper raccontare.

Ci parlerebbe del dinamismo sempre vivo del bene, del dialogo, delle relazioni. Dell’amore che solo conosce. Ci racconterebbe forse anche della staticità sempre morta del male, intrinsecamente imprigionato dal rancore, dalla incapacità di ascoltare, di cambiare. E ci direbbe, forse, che tutto questo purtroppo spesso sfugge a chi fa comunicazione.

Ho pensato che ci chiederebbe di raccontare le sofferenze e le speranze dei monaci e delle monache della sua comunità. Di raccontare e sostenere (anche attraverso il nostro racconto) una storia di dialogo e di accoglienza. Una avventura che rimane magnifica. Una storia che continua. La storia di un rapporto diverso possibile fra mussulmani e cristiani. Di come un luogo piccolo e remoto può essere il centro di una storia grande e centrale.

Ho pensato che da comunicatore ci direbbe anche, come Papa Francesco, che noi siamo ciò che raccontiamo. E proprio questo tocca a noi: raccontare. Senza qualcuno che la racconta, la storia sarebbe muta, immobile, congelata. Invece la storia è viva, cammina. Va dove la portiamo anche noi.

Come scrive Martin Buber ne I racconti dei Chassidim, (Milano, 1979, pagine 3-4), «La parola che narra è più che semplice parola, essa trasmette effettivamente l’accaduto alle generazioni future, anzi la narrazione è accadimento essa stessa, ha la sacralità di un rito (…) Il racconto è lo stesso avvenimento, ha l’unzione di un atto sacro (…) E l’essenza sacra di cui dà testimonianza continua a vivere in essa». Tutti (anche se spesso non ce ne rendiamo conto) siamo responsabili del mondo che la nostra narrazione ricama.

Ho pensato allora a un’altra cosa che forse ci direbbe padre Paolo: che la verità che cerchiamo, nella sua storia, la conosciamo già. È tutto chiaro. Noi sappiano. Paolo le sa. Paolo sapeva le tribolazioni che avrebbe incontrato, ma sapeva anche (dalla lezione del santo di cui porta il nome, Seconda lettera ai Corinzi, 8-15, lettura della liturgia del 25 luglio 2013, pochi giorni prima della sua scomparsa) che non ne sarebbe stato schiacciato; sapeva che avrebbe potuto essere sconvolto, ma non disperato; perseguitato, ma non abbandonato; colpito, ma non ucciso. Sapeva da battezzato, da sacerdote, da credente di portare sempre e dovunque nel proprio corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si possa manifestare.

Anche noi sappiamo. Noi sappiamo che chi ci ha sottratto la presenza fisica di padre Paolo voleva/vorrebbe soffocare ogni dialogo con l’altro; voleva/vorrebbe farci precipitare in una spirale di odio, nel meccanismo amico-nemico, eletti e reietti. Un circolo infernale direbbe padre Paolo. Una trappola diabolica.

Come ha scritto un giornalista franco-libanese, saggista e romanziere, Amin Maalouf in Les identités meurtrières, (Grasset&Frasquelle, 1998): «Se i nostri contemporanei non verranno incoraggiati ad assumere le loro molteplici appartenenze, se non riusciranno a conciliare il loro bisogno di identità con una apertura schietta e priva di complessi alle culture diverse, se si sentiranno obbligati a scegliere fra la negazione di se stessi e la negazione degli altri, formeremo legioni di pazzi sanguinari, legioni di squilibrati».

Questo discorso ci riguarda direttamente. Tutti noi sappiamo quanto siano importanti in questo i mezzi di comunicazione per rompere questo gioco perverso. Possono contribuire a ricostruire l’unità della famiglia umana, la consapevolezza di essere parte di un unico destino condiviso; o possono, al contrario, essere la via per continuare ad alimentare gli equivoci, i risentimenti, le inimicizie, che hanno purtroppo sin qui aggrovigliato il nostro presente e minacciato il nostro futuro.

Sta a noi, come ha affermato con forza Papa Francesco (Udienza alla Stampa estera, 18 maggio 2019), far sì che la comunicazione sia strumento per costruire, non per distruggere; per incontrarsi, non per scontrarsi; per dialogare, non per monologare; per orientare, non per disorientare; per capirsi, non per fraintendersi; per camminare in pace, non per seminare odio.

Tocca anche ai giornalisti diffondere con il loro lavoro questa verità, questa consapevolezza, questa conoscenza; custodire e tramandare i valori della pace, denunciare l’uso strumentale delle religioni, restituire alla fratellanza il concetto e il coraggio di alterità. Dire che si può rimanere se stessi e allo stesso tempo riconoscere nell’altro un fratello.

È quel che Paolo ha fatto in occidente e in oriente, con la sua rude dolcezza: raccontando agli uni la storia degli altri. «Ognuno di noi — disse nella sua ultima, credo, intervista — ha la sua appartenenza, io sono cattolico e appartengo a Roma, che problema c’è in questo? E se l’altro è cristiano ortodosso avrà e porterà rapporti privilegiati con Istanbul, con la Grecia e la Russia. Dobbiamo mettere tutte queste appartenenze in un quadro di comprensione caratterizzato dalla religiosità. Alcuni di noi dicono che la religione è di Dio e la patria di tutti. Io non rifiuto questa frase. Ma voglio un Paese plurale e armonioso, dove regni la religiosità, cioè dove le persone si amano perché esseri umani, creature di Dio, e quindi con diritti e dignità e il meritato rispetto. Religiosità significa guardarsi come Dio guarda le sue creature». I suoi figli. I figli di Isacco e i figli di Ismaele.

Ricordare senza tradirla la storia di Paolo non può non partire da qui. Dalla sua testimonianza più che dal calcolo sbagliato di chi ha pensato di poterla fermare. Dalla ricerca costante del dialogo fra i figli di Abramo. Dallo sforzo ostinato di sottrarre le religioni al ricatto dei fondamentalismi fanatici. Dallo sguardo capovolto di chi si mette nei panni dell’altro, più che dallo sguardo corto di chi pensa di potersi salvare da solo, separandosi dall’altro. Dal paradosso evangelico secondo cui è proprio l’escluso che diventa l’eletto. Dalla consapevolezza ragionevole che quel che ci unisce è molto di più di quello che ci divide.

Prendo ancora in prestito le sue parole per dirlo: «Se solo riuscissimo a pensare in modo razionale non escludendo gli altri, potremmo immaginare di costruire un Paese dove regna la convivenza, la comprensione, la fratellanza, la solidarietà, e la diversità …. Se ciascuno di noi chiude la sua mente e crede che le cose andranno come vuole lui, resterà deluso: procedendo in questo modo le cose andranno come vuole il diavolo».

Ciascuno di noi. Ecco il punto. Queste parole, profetiche, ci dicono della sua presenza. Ci sfidano a un racconto diverso di quel che accade e che ci accade. Penso che sia questo il compito che ci è assegnato come giornalisti, come comunicatori, nel raccontare la Siria, il Medio oriente, il mondo, e la stessa storia della temporanea scomparsa di padre Paolo da una prospettiva diversa. E che sia questo, anche, il modo migliore (nella certezza cristiana di poterlo comunque un giorno riabbracciare) per ritrovare Paolo, per ritrovarci con Paolo; smentendo il calcolo perverso di chi sette anni fa ha pensato di poterlo sottrarre alla Siria e a tutti noi.
di Paolo Ruffini

(fonte: L'Osservatore Romano 30/07/2020)

Vedi anche il post precedente: