giovedì 30 aprile 2020

Se il racconto è un dono di Enzo Bianchi


Se il racconto è un dono
di Enzo Bianchi

La Repubblica - Altrimenti
27 aprile 2020


Maria Lai, Il mare ha bisogno di fichi,
 1996, stoffa e filo, 25,5×17,5×3,5cm,
foto: pierluigi dessì/confini visivi
Siamo ormai abituati al bollettino televisivo quotidiano delle vittime dell’epidemia: contagiati, ricoverati, entrati in terapia intensiva, morti e guariti. L’attenzione è catturata dalle cifre in aumento o diminuzione, destando sentimenti di ansietà o sollievo. Ma il grande rischio di ogni “cronaca” è quello di fermarsi ai numeri, impedendo la consapevolezza che ogni umano ha un volto preciso, una storia, degli affetti e che di ciascuno si deve fare memoria: come scriveva García Márquez, “la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”.
Sarebbe dunque necessario che, oltre ai bollettini, si potessero ascoltare narrazioni dei colpiti e dei guariti dal virus. Narrare significa proprio dare un volto alle persone, che altrimenti rischiano di essere solo numeri; significa dare senso a ciò che accade, rendendo le parole non solo informative ma capaci di umanizzare esistenze anonime. Non ci è dato di rivivere la vita di un altro, ma solo un suo frammento; e se lo riviviamo interiormente, l’altro non ci è più estraneo.

L’uomo è un essere narrante. Quando narra fa memoria, rivive e fa rivivere eventi, apre una strada verso il futuro. Molti hanno ascoltato il testo della lettera indirizzata ai suoi familiari e consegnata a una suora infermiera da un anziano ricoverato, quando ha compreso di avere davanti a sé la via della solitudine e della morte. Questa narrazione è diventata una grande testimonianza: monito per quanti restano, domanda di compassione per chi è vecchio. Si è rivelata capace di penetrare i nostri cuori, muovendoli a interrogarsi e a prepararsi ad agire diversamente. Ma quante altre narrazioni potrebbero essere donate in questi giorni a tutti, dai bambini ai vecchi. Sarebbero veri e propri esercizi al racconto della vita, della capacità di amore e di cura, della possibilità di sperare.
Quanto alla potenza performativa dei racconti, non è per noi difficile cogliere come tutta la nostra cultura, nelle sue radici ebraiche e quindi cristiane, abbia come fondamento la memoria e il racconto. Anche Dio è colui che ci è stato narrato da Abramo, da Mosè, dai profeti e da Gesù: non un Dio dei filosofi ma un Dio narrato da chi lo ha ascoltato.

Ma in questo breve spazio voglio riferire parte di un racconto chassidico: “Quando rabbi Israel Baal Shem Tov voleva ottenere una grazia da Dio, andava in un luogo solitario nel bosco, accendeva un fuoco e pronunciava una preghiera particolare. E veniva esaudito. Alcune generazioni dopo, rabbi Israel di Rizin voleva anch’egli chiedere una grazia, ma non ricordava il luogo particolare, né sapeva accendere il fuoco, né rammentava la preghiera del suo maestro. Allora disse a Dio: ‘Non so ritrovare il luogo, non so accendere il fuoco, non ricordo la preghiera, ma posso raccontarti la storia e questo dovrebbe bastarti’. Ciò fu sufficiente a Dio, il quale esaudì la preghiera del rabbi, perché egli adora i racconti”.

Ciò che vale per Dio dovrebbe valere anche per noi: raccontiamo dunque ai bambini per insegnare loro a vivere, agli anziani per consolarli.

Pubblicato su: La Repubblica


«Se il mondo vive in funzione del denaro, chiunque dimostri che la vita può compiersi nel dono e nella rinuncia diventa un fastidio per il sistema dell’avidità.» Papa Francesco Udienza Generale 29/04/2020 (testo e video)

UDIENZA GENERALE
Biblioteca del Palazzo Apostolico
Mercoledì, 29 aprile 2020


Catechesi sulle Beatitudini: 9. «Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,10)


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Con l’udienza di oggi concludiamo il percorso sulle Beatitudini evangeliche. Come abbiamo ascoltato, nell’ultima si proclama la gioia escatologica dei perseguitati per la giustizia.

Questa beatitudine annuncia la stessa felicità della prima: il regno dei Cieli è dei perseguitati così come è dei poveri in spirito; comprendiamo così di essere arrivati al termine di un percorso unitario dipanato negli annunci precedenti.

La povertà in spirito, il pianto, la mitezza, la sete di santità, la misericordia, la purificazione del cuore e le opere di pace possono condurre alla persecuzione a causa di Cristo, ma questa persecuzione alla fine è causa di gioia e di grande ricompensa nei cieli. Il sentiero delle Beatitudini è un cammino pasquale che conduce da una vita secondo il mondo a quella secondo Dio, da un’esistenza guidata dalla carne – cioè dall’egoismo – a quella guidata dallo Spirito.

Il mondo, con i suoi idoli, i suoi compromessi e le sue priorità, non può approvare questo tipo di esistenza. Le “strutture di peccato”, spesso prodotte dalla mentalità umana, così estranee come sono allo Spirito di verità che il mondo non può ricevere (cfr Gv 14,17), non possono che rifiutare la povertà o la mitezza o la purezza e dichiarare la vita secondo il Vangelo come un errore e un problema, quindi come qualcosa da emarginare. Così pensa il mondo: “Questi sono idealisti o fanatici…”. Così pensano loro.

Se il mondo vive in funzione del denaro, chiunque dimostri che la vita può compiersi nel dono e nella rinuncia diventa un fastidio per il sistema dell’avidità. Questa parola “fastidio” è chiave, perché la sola testimonianza cristiana, che fa tanto bene a tanta gente perché la segue, dà fastidio a coloro che hanno una mentalità mondana. La vivono come un rimprovero. Quando appare la santità ed emerge la vita dei figli di Dio, in quella bellezza c’è qualcosa di scomodo che chiama ad una presa di posizione: o lasciarsi mettere in discussione e aprirsi al bene o rifiutare quella luce e indurire il cuore, anche fino all’opposizione e all’accanimento (cfr Sap 2,14-15). È curioso, attira l’attenzione vedere come, nelle persecuzioni dei martiri, cresce l’ostilità fino all’accanimento. Basta vedere le persecuzioni del secolo scorso, delle dittature europee: come si arriva all’accanimento contro i cristiani, contro la testimonianza cristiana e contro l’eroicità dei cristiani.

Ma questo mostra che il dramma della persecuzione è anche il luogo della liberazione dalla sudditanza al successo, alla vanagloria e ai compromessi del mondo. Di cosa si rallegra chi è rifiutato dal mondo per causa di Cristo? Si rallegra di aver trovato qualcosa che vale più del mondo intero. Infatti «quale vantaggio c’è che un uomo guadagni il mondo intero e perda la propria vita?» (Mc 8,36). Quale vantaggio c’è lì?

È doloroso ricordare che, in questo momento, ci sono molti cristiani che patiscono persecuzioni in varie zone del mondo, e dobbiamo sperare e pregare che quanto prima la loro tribolazione sia fermata. Sono tanti: i martiri di oggi sono più dei martiri dei primi secoli. Esprimiamo a questi fratelli e sorelle la nostra vicinanza: siamo un unico corpo, e questi cristiani sono le membra sanguinanti del corpo di Cristo che è la Chiesa.

Ma dobbiamo stare attenti anche a non leggere questa beatitudine in chiave vittimistica, auto-commiserativa. Infatti, non sempre il disprezzo degli uomini è sinonimo di persecuzione: proprio poco dopo Gesù dice che i cristiani sono il «sale della terra», e mette in guardia dal pericolo di “perdere il sapore”, altrimenti il sale «a null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente» (Mt 5,13). Dunque, c’è anche un disprezzo che è colpa nostra, quando perdiamo il sapore di Cristo e del Vangelo.

Bisogna essere fedeli al sentiero umile delle Beatitudini, perché è quello che porta ad essere di Cristo e non del mondo. Vale la pena di ricordare il percorso di San Paolo: quando pensava di essere un giusto era di fatto un persecutore, ma quando scoprì di essere un persecutore, divenne un uomo d’amore, che affrontava lietamente le sofferenze della persecuzione che subiva (cfr Col 1,24).

L’esclusione e la persecuzione, se Dio ce ne accorda la grazia, ci fanno somigliare a Cristo crocifisso e, associandoci alla sua passione, sono la manifestazione della vita nuova. Questa vita è la stessa di Cristo, che per noi uomini e per la nostra salvezza fu “disprezzato e reietto dagli uomini” (cfr Is 53,3; At 8,30-35). Accogliere il suo Spirito ci può portare ad avere tanto amore nel cuore da offrire la vita per il mondo senza fare compromessi con i suoi inganni e accettandone il rifiuto. I compromessi con il mondo sono il pericolo: il cristiano è sempre tentato di fare dei compromessi con il mondo, con lo spirito del mondo. Questa – rifiutare i compromessi e andare per la strada di Gesù Cristo – è la vita del Regno dei cieli, la più grande gioia, la vera letizia. E poi, nelle persecuzioni c’è sempre la presenza di Gesù che ci accompagna, la presenza di Gesù che ci consola e la forza dello Spirito che ci aiuta ad andare avanti. Non scoraggiamoci quando una vita coerente col Vangelo attira le persecuzioni della gente: c’è lo Spirito che ci sostiene, in questa strada.

Guarda il video della catechesi

Saluti:
...
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Saluto i fedeli di lingua italiana. Oggi celebriamo la festa di Santa Caterina da Siena, compatrona d’Italia. Questa grande figura di donna attinse dalla comunione con Gesù il coraggio dell’azione e quella inesauribile speranza che la sostenne nelle ore più difficili, anche quando tutto sembrava perduto, e le permise di influire sugli altri, anche ai più alti livelli civili ed ecclesiastici, con la forza della sua fede. Il suo esempio aiuti ciascuno a saper unire, con coerenza cristiana, un intenso amore alla Chiesa ad una efficace sollecitudine in favore della comunità civile, specialmente in questo tempo di prova. Chiedo a Santa Caterina che protegga l’Italia durante questa pandemia; e che protegga l’Europa, perché è patrona d’Europa, che protegga tutta l’Europa perché rimanga unita.

Rivolgo un pensiero speciale ai giovani, agli anziani, ai malati e agli sposi novelli. Tutti esorto ad essere testimoni del Cristo risorto il quale mostra ai discepoli le piaghe ormai gloriose della sua Passione. Di cuore vi benedico.

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«Testimonianza e preghiera, vanno insieme. Senza testimonianza e preghiera non si può fare predicazione apostolica, non si può fare annuncio... La nostra testimonianza apre le porte alla gente e la nostra preghiera apre le porte al cuore del Padre perché attiri la gente... Andare in missione non è fare proselitismo.» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)

S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
30 aprile 2020
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 


La preghiera speciale del Papa per le vittime anonime della pandemia

Nella Messa a Santa Marta, Francesco pensa a quanti sono morti a causa del Covid-19, pregando in particolare per i morti senza nome, sepolti nelle fosse comuni. Nell'omelia, ha ricordato che annunciare Gesù non è fare proselitismo ma testimoniare la fede con la propria vita e pregare il Padre che attiri le persone al Figlio


Francesco ha presieduto la Messa a Casa Santa Marta nel giovedì della III settimana di Pasqua. Nell’introduzione ha rivolto il suo pensiero alle vittime del nuovo coronavirus:

Preghiamo oggi per i defunti, coloro che sono morti per la pandemia; e anche in modo speciale per i defunti – diciamo così – anonimi: abbiamo visto le fotografie delle fosse comuni. Tanti …


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Nell’omelia, il Papa commenta il passo odierno degli Atti degli Apostoli (At 8, 26-40) che racconta l’incontro di Filippo con un etíope eunùco, funzionario di Candàce, desideroso di comprendere chi fosse quanto descritto dal profeta Isaìa: “Come una pecora egli fu condotto al macello”. Dopo che Filippo gli spiega che si tratta di Gesù, l’etiope si lascia battezzare.

È il Padre - afferma Francesco ricordando il Vangelo di oggi (Gv 6, 44-51) - che attira alla conoscenza del Figlio: senza questo intervento non si può conoscere il mistero di Cristo. È quello che è successo al funzionario etiope, che nel leggere il profeta Isaia aveva una inquietudine messa nel suo cuore dal Padre. Questo - osserva il Papa - vale anche per la missione: noi non convertiamo nessuno, è il Padre che attira. Noi possiamo semplicemente dare una testimonianza di fede. Il Padre attira attraverso la testimonianza di fede. Occorre pregare che il Padre attiri la gente a Gesù: sono necessarie la testimonianza e la preghiera. Senza testimonianza e preghiera si potrà fare una bella predica morale, tante cose buone, ma il Padre non avrà la possibilità di attirare la gente a Gesù. E questo è il centro del nostro apostolato: che il Padre possa attirare a Gesù. La nostra testimonianza apre le porte alla gente e la nostra preghiera apre le porte al cuore del Padre perché attiri la gente. Testimonianza e preghiera. E questo non è soltanto per le missioni, è anche per il nostro lavoro come cristiani. Domandiamoci: do testimonianza col mio stile di vita, prego perché il Padre attiri le persone a Gesù? Andare in missione non è fare proselitismo, è testimoniare. Noi non convertiamo nessuno, è Dio che tocca il cuore della gente. Chiediamo al Signore - è la preghiera conclusiva del Papa - la grazia di vivere il nostro lavoro con la testimonianza e con la preghiera perché Lui possa attirare la gente a Gesù.

Di seguito il testo dell'omelia (trascrizione di lavoro non ufficiale):

“Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre”: Gesù ricorda che anche i profeti avevano preannunciato questo: “E tutti saranno istruiti da Dio”. È Dio che attira alla conoscenza del Figlio. Senza questo, non si può conoscere Gesù. Sì, si può studiare, anche studiare la Bibbia, anche conoscere come è nato, cosa ha fatto: quello sì. Ma conoscerlo da dentro, conoscere il mistero di Cristo è soltanto per coloro che sono attirati dal Padre a questo.

Questo è quello che è successo a questo ministro dell’economia della regina d’Etiopia. Si vede che era un uomo pio e che si è preso il tempo, in tanti dei suoi affari, per andare ad adorare Dio. Un credente. E tornava in patria leggendo il profeta Isaia. Il Signore prende Filippo, lo invia in quel posto e poi gli dice: “Vai accanto, accostati a quel carro”, e sente il ministro che sta leggendo Isaia. Si avvicina e gli fa una domanda: “Capisci?” – “Ma come posso capire se nessuno mi guida!”, e fa la domanda: “Di chi dice questo, il profeta?”. “Ti prego, sali in carrozza”, e durante il viaggio – non so quanto tempo, io penso che almeno un paio di ore – Filippo spiegò: spiegò Gesù.

Quella inquietudine che aveva questo signore nella lettura del profeta Isaia era proprio del Padre, che attirava verso Gesù: lo aveva preparato, lo aveva portato dall’Etiopia a Gerusalemme per adorare Dio e poi, con questa lettura, aveva preparato il cuore per rivelare Gesù, al punto che appena vide l’acqua disse: “Posso essere battezzato”. E lui credette.

E questo - che nessuno può conoscere Gesù senza che il Padre lo attiri - questo è valido per il nostro apostolato, per la nostra missione apostolica come cristiani. Penso anche alle missioni. “Cosa vai a fare nelle missioni?” – “Io, a convertire la gente” – “Ma fermati, tu non convertirai nessuno! Sarà il Padre ad attirare quei cuori per riconoscere Gesù”. Andare in missione è dare testimonianza della propria fede; senza testimonianza non farai nulla. Andare in missione – e sono bravi i missionari! – non significa fare strutture grandi, cose … e fermarsi così. No: le strutture devono essere testimonianze. Tu puoi fare una struttura ospedaliera, educativa di grande perfezione, di grande sviluppo, ma se una struttura è senza testimonianza cristiana, il tuo lavoro lì non sarà un lavoro di testimone, un lavoro di vera predicazione di Gesù: sarà una società di beneficenza, molto buona – molto buona! – ma niente di più.

Se io voglio andare in missione, e questo lo dico se io voglio andare in apostolato, devo andare con la disponibilità che il Padre attiri la gente a Gesù, e questo lo fa la testimonianza. Gesù stesso lo disse a Pietro, quando confessa che Lui è il Messia: “Tu sei felice, Simon Pietro, perché questo te lo ha rivelato il Padre”. È il Padre che attira, e attira anche con la nostra testimonianza. “Io farò tante opere, qui, di qua, di là, di educazione, di questo, dell’altro …”, ma senza testimonianza sono cose buone, ma non sono l’annuncio del Vangelo, non sono posti che diano la possibilità che il Padre attiri alla conoscenza di Gesù. Lavoro e testimonianza.

“Ma come posso fare perché il Padre si preoccupi di attirare quella gente?”. La preghiera. E questa è la preghiera per le missioni: pregare perché il Padre attiri la gente verso Gesù. Testimonianza e preghiera, vanno insieme. Senza testimonianza e preghiera non si può fare predicazione apostolica, non si può fare annuncio. Farai una bella predica morale, farai tante cose buone, tutte buone. Ma il Padre non avrà la possibilità di attirare la gente a Gesù. E questo è il centro: questo è il centro del nostro apostolato, che il Padre possa attirare la gente a Gesù. La nostra testimonianza apre le porte alla gente e la nostra preghiera apre le porte al cuore del Padre perché attiri la gente. Testimonianza e preghiera. E questo non è soltanto per le missioni, è anche per il nostro lavoro come cristiani. Io do testimonianza di vita cristiana, davvero, con il mio stile di vita? Io prego perché il Padre attiri la gente verso Gesù?

Questa è la grande regola per il nostro apostolato, dappertutto, e in modo speciale per le missioni. Andare in missione non è fare proselitismo. Una volta ... una signora – buona, si vedeva che era di buona volontà – si è avvicinata con due ragazzi, un ragazzo e una ragazza, e mi ha detto: “Questo [ragazzo], Padre, era protestante e si è convertito: io l’ho convinto. E questa [ragazza] era ..." - non so, animista, non so cosa mi ha detto, “e l’ho convertita”. E la signora era buona: buona. Ma sbagliava. Io ho perso un po’ la pazienza e ho detto: “Ma senti, tu non hai convertito nessuno: è stato Dio a toccare il cuore della gente. E non dimenticarti: testimonianza, sì; proselitismo, no”.

Chiediamo al Signore la grazia di vivere il nostro lavoro con testimonianza e con preghiera, perché Lui, il Padre, possa attirare la gente verso Gesù.


Il Papa ha terminato la celebrazione con l'adorazione e la benedizione eucaristica, invitando a fare la Comunione spirituale. Di seguito la preghiera recitata dal Papa:

Gesù mio, credo che sei realmente presente nel Santissimo Sacramento dell’altare. Ti amo sopra ogni cosa e ti desidero nell’anima mia. Poiché ora non posso riceverti sacramentalmente, vieni almeno spiritualmente nel mio cuore. Come già venuto, io ti abbraccio e tutto mi unisco a Te. Non permettere che mi abbia mai a separare da Te.

Prima di lasciare la Cappella dedicata allo Spirito Santo, è stata intonata l’antifona mariana “Regina caeli”, cantata nel tempo pasquale:

Regína caeli laetáre, allelúia.
Quia quem merúisti portáre, allelúia.
Resurréxit, sicut dixit, allelúia.
Ora pro nobis Deum, allelúia. 

(Regina dei cieli, rallegrati, alleluia.
Cristo, che hai portato nel grembo, alleluia,
è risorto, come aveva promesso, alleluia.
Prega il Signore per noi, alleluia).
(fonte: Vatican News 30/04/2020)

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"La nostalgia che abbiamo è solo di Vangelo" di p. Felice Scalia, gesuita

La nostalgia che abbiamo
 è solo di Vangelo 
di p. Felice Scalia*


Mentre scrivo queste note, sui giornali viene evidenziato il disappunto e la contrarietà con cui la CEI ha accolto l’ultimo provvedimento del Presidente del Consiglio, che esclude, anche nella Fase 2, la partecipazione dei fedeli alla celebrazione delle Messe. Da un versante totalmente diverso (ma non estraneo) si fa notare che la maggioranza del nostro popolo apprezza l’operato del Governo in questa situazione del tutto nuova che ha messo a nudo i risultati di politiche sociali ed economiche molto discutibili. Tali polemiche possono essere il preludio per la riproposizione della contrapposizione stato-chiesa preconcordataria? Vogliamo definire la nostra gente come “popolo patriottico” (come è stato definito ironicamente da qualche cattolico doc) e la chiesa come antigovernativa? Peggio: come chiesa possiamo permetterci di dare l’impressione di appoggiare quelle frange dell’opposizione che hanno strumentalizzato la religione per le loro campagna elettorali? A tutte queste legittime domande, rispondo che no, che non vuole questo la CEI e, credo, neppure il Governo. Anche se tante cose potrebbero essere prudenzialmente evitate. Come l’irruzione armata di Carabinieri a Cremona per una messa celebrata con un gruppetto esiguo di persone in lutto. Ma anche l’ammonimento della Curia di quella città al prete che aveva osato tanto per eccesso di compassione, e che si era rifiutato di interrompere il rito, dichiarando, comunque sia, di essere disposto a pagare la multa prevista. Si obbedisce alla legge anche pagando per averla disobbedita. Mi rendo conto che viviamo in tempo in cui discernere con chiarezza il bene dal male non è facile, ed a volte ci si deve contentare del meno male o del bene possibile. Con ciò voglio dire che l’ultima cosa di cui ha bisogno l’Italia (e solo l’Italia?) è una guerra tra candele e fucili. CEI, Governo e Comitato scientifico troveranno un accordo per ostacolare la diffusione del contagio e nello stesso tempo per permettere ai credenti “di non vivere di solo pane”. 

Ma ciò che oggi ci angustia è un altro problema ben più complesso e su cui questi mesi hanno costretto tutti a riflettere. Posso enuclearlo in una domanda: se in tempi di smarrimento si accentua in tanti il bisogno di pregare, siamo sicuri, noi tutti, come chiesa, che le preghiere suggerite siano “cristiane”? 

È un dato di fatto che in questi mesi abbiamo pregato di più. Questo atteggiamento di preghiera è stato trasversale, tra clero e laici, tra dotti e semplici, tra popolo di Dio ed élite, anche se in modalità probabilmente specifiche. Ha assunto toni forse appena ieri impensabili: si è incoraggiata la preghiera domestica ed è venuta spontanea una preghiera ecumenica, interreligiosa, “cattolica” nel senso più bello. Nessuno ha detto, Signore salva prima gli italiani, o i cattolici… Almeno lo spero.

Per fare pregare bisogna dare atto che i presbiteri hanno inventato di tutto. Celebrazioni teletrasmesse, adunanze di preghiera in video-chiamata, tridui o novene in onore dei Santi taumaturgici e Patroni della città, approntamento di sussidi specifici, blog parrocchiali … Ci sono state solitarie apparizioni di Parroci per le vie del paese portando un Crocifisso, o il Santissimo. C’è stata l’ostensione della Sindone. C’è stato il pellegrinaggio solitario del Papa a S. Maria Maggiore ed a San Carlo al Corso. C’è stata l’impressionante chiamata alla preghiera del 27 marzo in quella Piazza San Pietro vuota. 

Anche il Popolo di Dio è stato creativo. La gente ha invitato al Rosario amici del balcone di fronte, o dirimpettai delle terrazze. Ha organizzato tra amici, ad un determinato orario, discussioni religiose in WhatsApp, si è data appuntamento, alle 7 del mattino per “andare a Messa ogni giorno, da papa Francesco”. Sono stati e sono ancora in tanti, circa 15 milioni, questi assidui frequentatori di Santa Marta. 

Siamo dunque diventati un popolo orante? Abbiamo superato l’idea che l’unica preghiera è quella che si esaurisce in chiesa? Abbiamo imparato a pregare? Preghiamo come Gesù ci ha insegnato? Ne dubito.

Dico con schiettezza che certe formulazioni di preghiera esasperavano tanto l’intervento divino, da fare quasi sottintendere che Lui ci doveva togliere dalla prova perché da Lui, come castigo, come penitenza per i nostri peccati, era arrivato il virus omicida. Facilmente si poteva disegnare nella mente di persone pie l’immagine di un Dio giustiziere, irato per le nostre disubbidienze, vendicativo. 

Se questo succede – mi dicevo e mi dico – la preghiera non ci conduce lontano dal Padre di cui ha parlato Gesù? Non ci mette nel rischio di abbandonare la stessa fede? Conosciamo l’esito di preghiere non esaudite. “Sono stanco di guardare in alto, non c’è nessun Dio, e se c’è fa i fatti suoi” – può concludere qualcuno. 

Ciò che mi interessa sottolineare è la necessità di una cristianizzazione della preghiera. Gesù avvertiva i suoi amici che è molto in uso una preghiera che meritava il suo “Ma voi, non così!”, quella che pensa di moltiplicare parole per convincere Dio a cambiare opinione, a smettere di castigarci, “a svegliarsi”. 

Ognuno prega come può ed ha appreso. Come si cerca Dio “a tentoni” così si prega anche “a tentoni” secondo il grado di disperazione, di bisogno, e, soprattutto, secondo il proprio ambiente religioso. Ma nella cura pastorale non dovrebbe esistere un accompagnamento a saper meglio pregare, come esiste quello a saper meglio credere ed a saper meglio vivere “coram Domino”? Non mi pare che si sia badato molto a questo dovere del cristiano in questi giorni. Purché la gente preghi, preghi come vuole; il Padre capirà …

Quanto appena detto sfocia in un altro antico problema che proprio tra qualche giorno potrà aprire un nuovo fronte: religiosità popolare contro religiosità dotta.

La CEI ha stabilito che il primo maggio affiderà l’Italia al Cuore Immacolato di Maria e proprio (spero vivamente senza collegamento con quanto riferito sopra) nella diocesi di Cremona. Un comunicato ANSA recita: Raccogliendo la proposta e la sollecitazione di tanti fedeli, la Conferenza Episcopale Italiana affida l’intero Paese alla protezione della Madre di Dio come segno di salvezza e di speranza. Lo farà venerdì 1/o Maggio, alle 21.00, con un momento di preghiera, nella basilica di Santa Maria del Fonte presso Caravaggio (diocesi di Cremona, provincia di Bergamo). “La scelta della data e del luogo è estremamente simbolica – spiega la Cei -. Maggio è, infatti, il mese tradizionalmente dedicato alla Madonna, tempo scandito dalla preghiera del Rosario, dai pellegrinaggi ai santuari, dal bisogno di rivolgersi con preghiere speciali all’intercessione della Vergine. Iniziare questo mese con l’Atto di Affidamento a Maria, nella situazione attuale, acquista un significato molto particolare per tutta l’Italia”. 

Papa Francesco, forse messo di fronte al “fatto compiuto”, con la “Lettera a tutti i fedeli per il mese di maggio” (25.04,2020) ha dato una interpretazione del programmato evento, fortemente ancorata al dato biblico, alla mariologia conciliare e, insieme, alla religiosità popolare da lui sempre rispettata. 

Sa bene il papa quanto sia devozionale e ambigua una “consacrazione al Cuore Immacolato di Maria” di persone già consacrate dal battesimo e dunque chiamate a vivere “nel mondo” (in modo “altro” “separato”, “santo”) ma non “secondo il mondo”.
Sa quanto sia stato aberrante agitare un Rosario come arma potente contro i musulmani, attribuendo poi sacrilegamente a Maria il massacro di Lepanto. Sa che uso fanno del Rosario (e perfino del Vangelo) certi nostalgici credenti (preti e laici) e certi atei-devoti, di un cristianesimo stile “più cristianità e meno Cristo”. Sa quanto sia pericoloso non solo scambiare 500 lettere – forse sollecitate ad hoc – per una richiesta dell’Italia intera, ma soprattutto insinuare l’idea che una intercessione della Vergine ci voglia, dato che la Trinità non intende volgere lo sguardo sulle nostre disgrazie planetarie.

Il papa sa tutto questo e molto altro, ed allora nella sua dichiarazione in merito all’evento fa ciò che raccomanda a tutti di fare: “evangelizza la pietà popolare”. A quanti reciteranno preghiere nell’intero mese di maggio raccomanda, nelle ripetitività delle Ave Maria e nella contemplazione dei misteri di Gesù, di giungere a considerare quanto sia decisivo guardare Maria come modello di vita cristiana. È necessario – sembra dire il Papa – in una situazione come la nostra, ricordarci che abbiamo una “Madre nostra”, una “Donna” in carne ed ossa, che dopo avere visto lo strapotere dei potenti, la superbia insediata sui troni, l’umiliazione dei costretti alla fame, la sofferenza degli oppressi, non si è limitata a pregare e ad essere una bella persona, ma è entrata nella mischia ed ha offerto tutta se stessa per generare Dio nel mondo. E non per generarlo soltanto, ma anche per difenderlo, custodirlo, proteggerlo, anche quando erano assediati, Madre e Figlio, quel venerdì tragico, da nemici impietosi, sul Golgota.

Mi si permetta un’ultima osservazione. Bene fa la CEI a vigilare sul regime pattizio tra stato e chiesa perché non ci siano prevaricazioni. Ma forse i nostri giorni reclamano qualcosa di diverso dopo la denunzia di una possibile violazione della libertà di culto. Il silenzio mediatico ed una trattativa diplomatica alla pari? E perché no? La salvaguardia della salute è preziosa per tutti. Quel tipo di silenzio sarebbe stato auspicabile, oggi in stato “di guerra sanitaria”, mentre le proclamazioni pubbliche è possibile che siano (e lo sono state) strumentalizzate a scopo di propaganda politica. C’è un tempo per parlare coram populo ed un tempo per trattare nel silenzio. Avremmo preferito esternazioni pubbliche dei nostri vescovi quando invece ci fu il silenzio. Ad esempio nei giorni della famigerata Legge Bossi-Fini sui migranti, pietra basilare dell’attuale e dimenticata tragedia. Che oggi la CEI debba parlare all’uomo ed al popolo di Dio è fuori dubbio. Ma per dire cosa?

Credo che tutto dipenda dall’analisi che fa sulla presente situazione. Se la pandemia è un castigo di Dio (come i serpenti che uccidevano ebrei nel deserto) allora placare Dio elevando, in qualsiasi modo, anche in modalità discutibili, lo sguardo verso di Lui, è il rimedio. E ben vengano tutte le solitarie processioni a cui abbiamo assistito, e tutte le “consacrazioni”. Ma se ci siamo cacciati su strade tenebrose di morte perché abbiamo adorato il denaro, la forza, e come cardine del mondo abbiamo posto il principio del diritto dei forti a sfruttare i deboli; se insomma la catastrofe l’abbiamo procurata noi stessi con la nostra presunzione di sfruttare capricciosamente e ciecamente le leggi della vita, allora la preghiera deve essere “cristiana”, seriamente tale, e ci deve portare su una unica pista: realizzare sulla terra quella volontà benevola di Dio che è respiro vitale e gioia eterna in Cielo.

Non credo che queste osservazioni dimentichino il popolo di Dio, o che siano elucubrazioni intellettualistiche, di aristocratici nella fede. 

Papa Francesco insiste a ragione sulla religiosità popolare. Ogni religiosità se è autentica è dono fatto a tutto il popolo. La fonte unica della vita non ha figli e figliastri. Dio ci vede come diversi nei doni e nei ruoli, ma non nella dignità e nel destino. Nelle cose che contano siamo “uno”. Anzi – è il grido di Gesù nella sua preghiera sacerdotale (Gv 17, 23-25) – siamo chiamati a “diventare uno”. Dunque non può esistere che una sola fede per tutti, una sola chiamata all’Amore per tutti, anche se gruppi sociali e persone esprimeranno la loro fede e la loro speranza in una grande varietà di modi. Varietà che non crea gerarchie ma scambio fraterno di doni. 

Dobbiamo tutti renderci conto che la religione non può fare a meno di simboli, e che il simbolo si riferisce realmente o idealmente ad una materialità volendo però avviare tutti all’incontro con l’Ineffabile e l’Inconoscibile. Ma che succede se dimentichiamo che il simbolo è il “dito” proteso verso “l’alto” e noi trascuriamo “l’alto” e ci fermiamo ad ammirare il “dito”? Ugualmente che succede se superbamente facciamo a meno del simbolo, dunque delle nostre sensibilità, del linguaggio delle cose, della bellezza che si riverbera sulla terra, e crediamo di avere raggiunto direttamente Dio e la Verità? 

Temo che nel primo caso abbiamo realizzato un cristianesimo senza il Dio vivo e vero, senza l’afflato vivificante dello Spirito; nel secondo un teismo gnostico senza Cristo. E certamente questi esiti non sono la meta che il Verbo di Dio fatto carne ci voleva indicare come salvezza universale. 

In questo campo, proprio per quanto abbiamo detto, proprio nel rispetto del cammino personale di ciascuno verso se stesso e verso Dio, chi fosse più avanti, lo sarebbe per dare una mano a chi è indietro o si è stancato, chi ha intuito una nuova meta non può tenere per sé la scoperta, ma deve indicarla a chi ancora arranca per raggiungere una piccola altura. In altri termini, quella che noi impropriamente chiamiamo “religiosità popolare” non può considerarsi una meta stabile di alcuni fratelli, da affiancare alla “religiosità elitaria”, altra meta stabile per gli “illuminati”. I due modi andare verso Dio e verso se stessi, devono essere “evangelizzati”, perché solo nel Vangelo si ha la vetta, lo splendore indicibile di una vita divina comunicata ad ogni figlio di donna. Le due religiosità non sono opposte né gerarchizzate, sono chiamate tutte e due a scambi di doni ed all’aiuto reciproco per arrivare dove Dio ci attende. La religiosità popolare va amata e rispettata, mai strumentalizzata e superbamente supportata , tanto per riempire di gente le chiese. 

Ma forse, dopo tanto parlare di preghiera, abbiamo ancora una volta, ogni giorno, da ripetere una antica preghiera apostolica: “Signore, insegnaci a pregare!"

(Fonte: Cuore Pensante) 

*Padre Felice Scalia è gesuita dal 1947. Laureato in filosofia, teologia e scienze dell’educazione, ha insegnato alla facoltà teologica dell’Italia Meridionale e poi all’Istituto Superiore di Scienze Umane e Religiose di Messina. 
Collabora con Horeb, Presbyteri,  Rivista del clero, Vita consacrata, Spirito e Vita e Vita Pastorale.
Ha pubblicato:
Il Cristo degli uomini liberi, edizioni La Meridiana, Molfetta 2010
Teologia scomoda. Il caso Sobrino, edizioni La Meridiana, Molfetta 2008
Alternativi e poveri. La vita consacrata nel postmoderno, Paoline Editoriale Libri, 2006
Eucaristia. Tenerezza e sogno di Dio, Paoline Editoriale Libri, 2002
(con Giuseppe Agostino e Giorgio Campanini),

 Le relazioni nella Chiesa. Per una comunità «a più voci», Ancora, 1998


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mercoledì 29 aprile 2020

"Lettera aperta a Mons. D'Ercole" don Tonio Dell'Olio

"Lettera aperta a Mons. D'Ercole" 
don Tonio Dell'Olio

Don Tonino Bello, vescovo

Mons. D'Ercole, dopo aver letto la sua intervista e seguito la sua esternazione in video (guarda il video) circa le decisioni del governo di non consentire ancora le celebrazioni liturgiche con la partecipazione di popolo, non le nascondo che sono stato tentato a più riprese di scriverle una lettera per dirle quanti chilometri dista la sua visione di chiesa dalla mia. Poi mi sono imbattuto in una riflessione di don Tonino Bello, un vescovo profeta della nonviolenza evangelica e dei poveri.
 Non le sfuggirà di certo la sua testimonianza di fede e di vita dal momento che, ho visto, lei talvolta indossa una copia della sua originale croce pettorale. Mi sono deciso pertanto a dare la parola a lui:

"Una Chiesa povera, semplice, mite. Che sperimenta il travaglio umanissimo della perplessità. 
Che condivide con i comuni mortali la più lancinante delle loro sofferenze: quella della insicurezza. 
Una Chiesa sicura solo del suo Signore, e, per il resto, debole. 
Ma non per tattica, bensì per programma, per scelta, per convinzione. 
Non una Chiesa arrogante, che ricompatta la gente, che vuole rivincite, che attende il turno per le sue rivalse temporali, che fa ostentazioni muscolari col cipiglio dei culturisti. Ma una Chiesa disarmata, che si fa "compagna" del mondo. Che mangia il pane amaro del mondo. Che nella piazza del mondo non chiede spazi propri per potersi collocare. Non chiede aree per la sua visibilità compatta e minacciosa, così come avviene per i tifosi di calcio quando vanno in trasferta, a cui la città ospitante riserva un ampio settore dello stadio. 
Una Chiesa che, pur cosciente di essere il sale della terra,non pretende una grande saliera per le sue concentrazioni o per l’esibizione delle sue raffinatezze. Ma una Chiesa che condivide la storia del mondo. Che sa convivere con la complessità. Che lava i piedi al mondo senza chiedergli nulla in contraccambio, neppure il prezzo di credere in Dio, o il pedaggio di andare alla messa la domenica, o la quota, da pagare senza sconti e senza rateazioni, di una vita morale meno indegna e più in linea con il vangelo"
 (don Tonino Bello, Natale i poveri esistono ancora, in Rocca, 15.12.1985, pag. 45-47).

(Fonte: Mosaico dei giorni del 29.04.2020) 




Così Papa Francesco il 28 aprile a Casa Santa Marta per la S. Messa nel martedì della III settimana di Pasqua. Nell’introduzione pensa al comportamento del popolo di Dio di fronte alla fine della quarantena:


In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni.

GUARDA IL VIDEO







La nostra ignavia è peccato - Lettera-denuncia dei Comboniani per la “strage di Pasquetta” - Ora le vittime lasciate morire hanno un nome.


La nostra ignavia è peccato


Come missionari sentiamo l’obbligo di esternare la nostra ‘santa collera’ per la “strage di Pasquetta”, un’agghiacciante storia di naufragio di profughi in fuga dalla Libia.

Solo ora, grazie ad Alarm Phone, il numero di emergenza per i migranti in difficoltà nel Mediterraneo, ne conosciamo i dettagli.

Un gommone con 63 rifugiati è partito nella notte tra il 9 e il 10 aprile (Venerdì Santo!) da Garabulli, a 50 km da Tripoli, ed è andato poi in avaria in acque SAR maltesi. Alarm Phone ha subito dato l’allarme avvisando Malta, Libia, Portogallo, Italia, Germania e Frontex.

Tutti hanno scelto di non intervenire, utilizzando la scusa del Covid-19, ma di fatto stavano pianificando il rientro forzato del gommone in Libia. Così i 65 profughi sono rimasti per 72 ore nel gommone senza ricevere soccorsi.

Il 14 aprile li ha raggiunti un mercantile che però non ha potuto soccorrerli. Così tre profughi disperati si sono tuffati in mare per raggiungere la nave e sono affogati. Altri quattro per disperazione si sono buttati in acqua e sono stati risucchiati dal mare. Poi finalmente è apparso un peschereccio che ha trovato sul gommone 5 morti per disidratazione e fame e 53 superstiti terrorizzati che hanno richiesto come condizione di salvataggio di non essere riportati in Libia. Ma il peschereccio invece li ha riportati proprio in Libia!

E’ criminale riportare i rifugiati in Libia perché quel paese – lo dice l’ONU – non è un “porto sicuro”. Il rappresentante dell’OIM (Organizzazione internazionale per le Migrazioni) in Libia ha pure confermato che i 53 superstiti sono stati portati a Tripoli dove sono stati smistati nei vari lager.

Tutte le nazioni, tra cui l’Italia, avvisate di quanto avveniva in mare, hanno commesso un crimine contro l’umanità e devono essere portate in un tribunale internazionale per mancato soccorso, per cui sono morte 12 persone, e per aver consegnato i rifugiati alla Libia, in piena guerra civile.

Infatti il generale Haftar, a capo dell’Esercito di Liberazione Nazionale, sta bombardando Tripoli per impossessarsi della capitale e sbarazzarsi del presidente al Serraj, riconosciuto dalla comunità internazionale. Ci sono stati feroci scontri a sud di Tripoli in questi giorni. A farne le spese sono sempre i più deboli, specie i 700.000 immigrati sul suolo libico di cui 20.000 internati in paurosi lager spesso senz’acqua e senza cibo, torturati in maniera orrenda per spillare da loro soldi, usati spesso come scudi umani nella paurosa guerra civile in atto.

Questi, per le leggi internazionali non sono più migranti, ma rifugiati che hanno il diritto di essere accolti. Per questo è stato criminale il mancato soccorso! Oggi, in quel Mediterraneo, dove hanno trovato sepoltura oltre 20.000 migranti dal 2014 (1.300 solo lo scorso anno) che non abbiamo accolto, naufraga l’Europa “patria dei diritti umani”.

Temiamo che la politica della Ue verso chi bussa alle nostre porte, sarà sempre più impietosa. Di fatto la presidente, Ursula Von der Leyen, a nome della Commissione, sta mettendo a punto un nuovo piano sui migranti e asilo che includerebbe i seguenti punti: nessun obbligo per gli Stati di accogliere i richiedenti asilo, agenti di Frontex armati alle frontiere, stretta sui rimpatri che saranno a carico del bilancio europeo.

Ma la Ue sta cedendo alla pressione dei paesi razzisti di Visegrad? E’ inaccettabile nonché disumano questo piano davanti a una tragedia immensa che si sta consumando nel Mediterraneo.

Mai come in questo momento storico abbiamo il dovere morale, e per legge internazionale, di accogliere questi che non sono migranti ma rifugiati.

Pertanto appoggiamo la richiesta fatta da un gruppo di parlamentari di costituire una Commissione Internazionale di inchiesta su quanto è accaduto quel 13 aprile.

E ci appelliamo:
al Presidente del Parlamento Ue, David Sassoli, perché prema sulla Commissione Europea per una politica più umana verso i rifugiati.
al Parlamento italiano perché abbia il coraggio di abrogare i Decreti Sicurezza di Salvini e perché chieda al governo di riferire davanti ai parlamentari sulla “strage di Pasquetta” e sulla riconsegna dei profughi in Libia.
al Governo italiano perché ritiri subito il decreto interministeriale del 7 aprile scorso che di fatto chiude i porti italiani fino al 31 luglio e assegni subito alle navi salva-migranti un porto sicuro.
alla Conferenza Episcopale Italiana, perché alzi la voce in protesta davanti alla “strage di Pasquetta” e a questo stillicidio di migranti che ha riempito i fondali del Mediterraneo. Un intervento forte dei vescovi aiuterebbe tanto in questo momento storico.

Papa Francesco è sempre stato così chiaro e forte su questo argomento. Ricevendo i profughi giunti in Vaticano da Lesbo ha detto: «Come possiamo non ascoltare il grido disperato di tanti fratelli e sorelle che preferiscono affrontare un mare in tempesta, piuttosto che morire lentamente nei campi di detenzione libici, luoghi di tortura e schiavitù ignobile?». E ha aggiunto: «Come possiamo passare oltre, facendoci così responsabili della loro morte? La nostra ignavia è peccato!». Quel giorno ha lasciato a tutti un segno: la Croce con il salvagente.

È la sfida che Papa Francesco ha lanciato alla chiesa, soprattutto ai suoi pastori.

«Il nostro compito oggi – diceva ai suoi colleghi pastori luterani della Danimarca Kaj Munk, ucciso nel 1944, come un cane, dai nazisti – è la temerarietà. Perché ciò di cui come chiese manchiamo, non è certamente la psicologia e la letteratura. Quello che a noi manca è una santa collera».

Commissione Giustizia & Pace dei Missionari Comboniani
20/04/2020


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Erano dodici. Morti come muoiono i dimenticati. Trascinati nell’abisso di un continente che volta le spalle. Sette sono affogati in mare. Cinque mentre venivano riportati in Libia. Erano dodici, ma non sono più un numero. Anche i morti hanno diritto a un nome. Ora possiamo darglielo, per sei di loro anche un volto: Omar, Mogos, Hzqiel, Hdru, Huruy, Teklay, Nohom, Kidus, Debesay e i tre Filmon. Erano tutti cristiani. Tranne uno, «il nostro fratello Omar», diranno i superstiti.
Hanno esalato l’ultimo respiro nella notte dopo la Pasquetta. 



«La concretezza è quello che mi fa sentire peccatore sul serio e non “peccatore nell’aria”... la concretezza ti porta all’umiltà... Chiediamo al Signore la grazia della semplicità» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)

S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
29 aprile 2020
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 

Il Papa prega per l’Europa, perché sia unita e fraterna

Nella Messa a Santa Marta, Francesco, ricordando la festa odierna di Santa Caterina da Siena, Patrona d’Europa, prega per l'unità dell'Europa e dell’Unione Europea, perché tutti insieme possiamo andare avanti come fratelli. Nell’omelia, invita a chiedere al Signore la grazia della semplicità e dell'umiltà per confessare i propri peccati concreti e così trovare il perdono di Dio


Francesco ha presieduto la Messa a Casa Santa Marta nel giorno in cui la Chiesa celebra la festa di Santa Caterina da Siena, vergine, dottore della Chiesa, patrona d’Italia e d’Europa. Nell’introduzione ha rivolto il suo pensiero all’Europa, come ha fatto altre volte in questi giorni caratterizzati dalla pandemia del Covid-19:

Oggi è Santa Caterina da Siena, Dottore della Chiesa, Patrona d’Europa. Preghiamo per l’Europa, per l’unità dell’Europa, per l’unità dell’Unione Europea: perché tutti insieme possiamo andare avanti come fratelli.


Guarda il video



Nell’omelia, il Papa ha commentato la prima Lettera di san Giovanni (1 Gv 1,5-2,2) in cui l’apostolo afferma che Dio è luce e se diciamo di essere in comunione con lui siamo anche in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù ci purifica da ogni peccato. E ammonisce: chi dice di essere senza peccato, inganna se stesso, ma se confessa il suo peccato, Dio lo perdona e lo purifica da ogni iniquità. L’apostolo - osserva Francesco - chiama alla concretezza, alla verità: dice che non possiamo camminare nella luce ed essere nelle tenebre. Peggio è camminare nel grigio, perché ti fa credere che cammini nella luce e questo ti tranquillizza. Il grigio è molto traditore. Il contrario è la concretezza di riconoscere i propri peccati. La verità è concreta, le bugie sono eteree: per questo bisogna confessare i peccati non in modo astratto, ma in modo concreto. Come dice il Vangelo odierno (Mt 11,25-30) in cui Gesù rende lode al Padre perché ha nascosto il Vangelo ai sapienti e ai dotti e lo ha rivelato ai piccoli. I piccoli - sottolinea il Papa - confessano i peccati in modo semplice, dicono cose concrete perché hanno la semplicità che Dio dona loro. Anche noi dobbiamo essere semplici e concreti e confessare con umiltà e vergogna i nostri peccati concreti. La concretezza ci porta all'umiltà. E il Signore ci perdona: bisogna dare il nome ai peccati. Se siamo astratti nel confessarli, siamo generici, finiamo nelle tenebre. E' importante - afferma il Papa - avere la libertà di dire al Signore le cose come sono, avere la saggezza della concretezza, perché il diavolo vuole che noi viviamo nel grigio, né bianco né nero. Al Signore non piacciono i tiepidi. È semplice la vita spirituale, ma noi la complichiamo con le sfumature. Chiediamo al Signore - conclude Francesco - la grazia della semplicità, la trasparenza, la grazia della libertà di dire le cose come stanno e di conoscere bene chi siamo davanti a Dio. 

Di seguito il testo dell'omelia:


Nella prima Lettera di San Giovanni apostolo ci sono tanti contrasti: fra luce e tenebre, tra bugia e verità, tra peccato e innocenza (cfr 1Gv 1,5-7). Ma sempre l’apostolo richiama alla concretezza, alla verità, e ci dice che non possiamo essere in comunione con Gesù e camminare nelle tenebre, perché Lui è luce. O una cosa o l’altra: il grigio è peggio ancora, perché il grigio ti fa credere che tu cammini nella luce, perché non sei nelle tenebre e questo ti tranquillizza. È molto traditore, il grigio. O una cosa o l’altra.

L’apostolo continua: «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è con noi» (1Gv 1,8), perché tutti abbiamo peccato, tutti siamo peccatori. E qui c’è una cosa che ci può ingannare: dicendo “tutti siamo peccatori”, come chi dice “buongiorno”, “buona giornata”, una cosa abituale, anche una cosa sociale, non abbiamo una vera coscienza del peccato. No: io sono peccatore per questo, questo, questo. La concretezza. La concretezza della verità: la verità è sempre concreta; le bugie sono eteree, sono come l’aria, tu non puoi prenderla. La verità è concreta. E tu non puoi andare a confessare i tuoi peccati in modo astratto: “Sì, io … sì, una volta ho perso la pazienza, un’altra …”, e cose astratte. “Sono peccatore”. La concretezza: “Io ho fatto questo. Io ho pensato questo. Io ho detto questo”. La concretezza è quello che mi fa sentire peccatore sul serio e non “peccatore nell’aria”.

Gesù dice nel Vangelo: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). La concretezza dei piccoli. È bello ascoltare i piccoli quando vengono a confessarsi: non dicono cose strane, “sull’aria”; dicono cose concrete, e alle volte troppo concrete perché hanno quella semplicità che dà Dio ai piccoli. Ricordo sempre un bambino che una volta è venuto a dirmi che era triste perché aveva litigato con la zia … Ma poi è andato avanti. Io ho detto: “Ma cosa hai fatto?” – “Eh, io ero a casa, volevo andare a giocare a calcio – un bambino, eh? – ma la zia, mamma non c’era, dice: «No, tu non esci: tu prima devi fare i compiti». Parola va, parola viene, e alla fine l’ho mandata a quel paese”. Era un bambino di grande cultura geografica … Mi ha detto anche il nome del paese al quale aveva mandato la zia! Sono così: semplici, concreti.

Anche noi dobbiamo essere semplici, concreti: la concretezza ti porta all’umiltà, perché l’umiltà è concreta. “Siamo tutti peccatori” è una cosa astratta. No: “Io sono peccatore per questo, questo e questo”, e questo mi porta alla vergogna di guardare a Gesù: “Perdonami”. Il vero atteggiamento del peccatore. «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1Gv 1,8). È un modo di dire che siamo senza peccato è questo atteggiamento astratto: “Sì, siamo peccatori, sì, ho perso la pazienza una volta …”, ma “tutto nell’aria. Non mi accorgo della realtà dei miei peccati. “Ma, lei sa, tutti, tutti facciamo queste cose, mi spiace, mi spiace … mi dà dolore, non voglio farlo più, non voglio dirlo più, non voglio pensarlo più”. È importante che dentro di noi diamo nomi ai peccati nostri. La concretezza. Perché se ci “manteniamo nell’aria”, finiremo nelle tenebre. Diventiamo come i piccoli, che dicono quello che sentono, quello che pensano: ancora non hanno imparato l’arte di dire le cose un po’ incartate perché si capiscano ma non si dicano. Questa è un’arte dei grandi, che tante volte non ci fa bene.

Ieri ho ricevuto una lettera di un ragazzo da Caravaggio. Si chiama Andrea. E mi raccontava cose sue: le lettere dei ragazzi, dei bambini sono bellissime, per la concretezza. E mi diceva che aveva sentito la Messa per televisione e che doveva “rimproverarmi” una cosa: che io dico “la pace sia con voi”, “e tu non puoi dire questo perché con la pandemia noi non possiamo toccarci”. Non vede che voi [qui in chiesa] fate un inchino con la testa e non vi toccate. Ma ha la libertà di dire le cose come sono.

Anche noi, con il Signore, dobbiamo avere la libertà di dire le cose come sono: “Signore, io sono nel peccato: aiutami”. Come Pietro dopo la prima pesca miracolosa: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore» (Lc 5,8). Avere questa saggezza della concretezza. Perché il diavolo vuole che noi viviamo nel tepore, tiepidi, nel grigio: né buoni né cattivi, né bianco né nero: grigio. Una vita che non piace al Signore. Al Signore non piacciono i tiepidi. Concretezza. Per non essere bugiardi. «Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci» (1Gv 1,9). Ci perdona quando noi siamo concreti. È tanto semplice la vita spirituale, tanto semplice; ma noi la facciamo complicata con queste sfumature, e alla fine non arriviamo mai …

Chiediamo al Signore la grazia della semplicità e che Lui ci dia questa grazia che dà ai semplici, ai bambini, ai ragazzi che dicono quello che sentono, che non nascondono quello che sentono. Anche se è una cosa sbagliata, ma lo dicono. Anche con Lui, dire le cose: la trasparenza. E non vivere una vita che non è una cosa né l’altra. La grazia della libertà per dire queste cose e anche la grazia di conoscere bene chi siamo noi davanti a Dio.


Il Papa ha terminato la celebrazione con l'adorazione e la benedizione eucaristica, invitando a fare la Comunione spirituale. Di seguito la preghiera recitata dal Papa:

Gesù mio, credo che sei realmente presente nel Santissimo Sacramento dell’altare. Ti amo sopra ogni cosa e ti desidero nell’anima mia. Poiché ora non posso riceverti sacramentalmente, vieni almeno spiritualmente nel mio cuore. Come già venuto, io ti abbraccio e tutto mi unisco a Te. Non permettere che mi abbia mai a separare da Te.

Prima di lasciare la Cappella dedicata allo Spirito Santo, è stata intonata l’antifona mariana “Regina caeli”, cantata nel tempo pasquale:

Regína caeli laetáre, allelúia.
Quia quem merúisti portáre, allelúia.
Resurréxit, sicut dixit, allelúia.
Ora pro nobis Deum, allelúia. 

(Regina dei cieli, rallegrati, alleluia.
Cristo, che hai portato nel grembo, alleluia,
è risorto, come aveva promesso, alleluia.
Prega il Signore per noi, alleluia).
(fonte: Vatican News 29/04/2020)

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"Il filo di Arianna per attraversare il cambiamento" di p. Giovanni Salonia

Il filo di Arianna 
per attraversare il cambiamento  

di p. Giovanni Salonia,
Direttore dell'Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairòs gtk



Siamo sospesi. Nessuno sa dirci come finirà tra noi e il virus. E a quale situazione andiamo incontro. Per la prima volta nella nostra storia siamo senza maestri. La competenza – ultima dea – fugge via dai nostri sepolcri. Tanti parlano da competenti. Ma sappiamo tutti, loro e noi, che si naviga a vista, che si va a tentoni. Nessuno sa come il nostro stile di vita dovrà cambiare. Nessuno sa quando torneremo a riunirci, quando torneremo ad abbracciarci, quando torneremo a viaggiare.

Questo lungo giorno produrrà una trasformazione profonda. Ci siamo accorti di qualcosa di sorprendente. Mentre noi stavamo a casa soffrendo il distanziamento, la nostra terra – incredibile a dirsi – è migliorata. Il clima è più salubre, l’air pollution è diminuita, le acque sono trasparenti, il cielo è più terso. Non solo: sono diminuiti i morti in mare e quelli sulle strade.
E allora, noi stiamo bene se sta male la terra? E viceversa? O è possibile che stiamo bene entrambi? A cosa dobbiamo rinunciare, cosa dobbiamo cambiare per una sana convivenza tra la casa e la città, la casa e il cosmo?

E chi gestirà questo cambiamento? Domanda difficile. Il cambiamento spinge come un fiume carsico. E va accompagnato. L’acqua è energia, ma senza sponde straripa, con sponde troppo rigide tracima. Siamo proprio a questo punto. Il progressivo calo di morti e di contagi riporta in auge una questione in ombra durante l’emergenza: come conciliare la protezione della libertà individuale e la sicurezza? Chi è pro libertà ha già scoperto complotti e mistificazioni (le holding che prevedono di arricchirsi con il vaccino, le derive autoritarie…), mentre chi è preoccupato per la sicurezza conta i morti e chiede controlli per tutti. Ci troveremo sempre meno d’accordo su come far fronte ad una situazione nuova. Nessuno sa con certezza l’entità del rischio che stiamo vivendo e quale futuro ci attende. Tutte le fragilità e le incompetenze del nostro sistema sanitario, del nostro welfare, stanno esplodendo. E così dovremo andare avanti. Stiamo cercando, forse senza saperlo, una nuova mappa. 

Dobbiamo ripetercelo: il dopo-virus sarà diverso dal dopo-guerra (ci pensavano i capi), dal dopo-peste (si tornava alla vita di prima), dal dopo-quarantena (si approdava ad un porto conosciuto). Nessuno può dirci come sarà. “Il cerchio delle cose / Deve restringersi / Ed annullarsi / Affinché il cerchio della nudità / Si allarghi e si ingrandisca / In tutta la sua ampiezza”. È una voce che giunge da lontano, dal Medioevo, da una donna mistica e amante. Allora forse esiste un filo d’Arianna. Vale la pena cercarlo.

Siamo nudi. Siamo stati spogliati del cerchio delle cose. Come vivere la nostra nudità? È vero: i device ci hanno aiutato a ricoprirci e abbiamo tirato un sospiro di sollievo (come sarebbe stato triste senza). Ma dentro di noi sappiamo che se dovesse continuare così staremmo molto male. E sentiamo che siamo stati feriti proprio là dove abitiamo: l’essere gli uni accanto agli altri. Prima di essere ‘con’ l’altro noi siamo ‘tra’ gli altri. A soffrire in questo periodo sono stati soprattutto i bambini, i nonni, gli innamorati. 

Primo capo del filo: anche se non sai dove vai, comincia ad abitare dove sei. Resta umano! 
In questi cinquanta giorni abbiamo assistito alla lotta tra il ‘restare umani’ e il ‘negare l’umano’. Di fronte alla paura della sopravvivenza o al delirio della razza pura torna sempre la rupe Tarpea: la perversa decisione su chi deve morire (anziani, diversabili, poveri, quelli del Sud o quelli del Nord…). Non dimentichiamo la lezione della storia: quando l’uomo si definisce proprietario della vita e della morte crea solo distruzione. Tutte le volte che è stato ucciso un giusto per salvare un popolo (‘mors tua vita mea’) si sono distrutte le fondamenta dell’umano. Il nostro futuro sarà ‘vita mea vita tua’.

Per questo, dall’altro capo del filo ci sono gli uomini e donne che hanno rischiato e dato la vita per salvare altre vite. La tragedia inedita del coronavirus ci ha donato il vero Cantico dei cantici: donare la vita per gli altri. Al filosofo che si chiedeva ‘quale dio ci salverà’ noi oggi possiamo rispondere: il dio del rischiare la vita per salvarne altre. È questa la bellezza che salverà il mondo. Dostoevskij lo sapeva.

C’è poi la materia del filo: l’umiltà. Umiltà significa riconoscere che per far fronte al ‘coronavirus day’ dobbiamo cercare nuovi modi di vedere e di capire. È patetico constatare come tanti si ostinino ad affrontare il nuovo con logiche antiche. Invece di dichiararci ignoranti affolliamo i talkshow, e ognuno urla la propria verità come un dio in vacanza sulla Terra. Gli esperti chiamano questa follia ‘effetto alone’. La tua competenza in arte, in filosofia, in teologia non legittima la tua arroganza. Chiunque tu sia, anche un virologo, apriti all’opinione diversa. Qualcuno diceva che ci salveremo se gli dei impareranno a dialogare. Quando impareremo che nessuno è dio?

Ripartiamo allora insieme dal dolore di tutti, che è la forza capace di tendere il filo. Il dolore purificato dal qui e ora, non caricato dal peso di ieri e dalle preoccupazioni di domani. Abitiamo il presente: “Iniziò a respirare flebilmente… Assaporò l’elisir di sentirsi smarrito… Egli non poteva dare un senso alle cose per lui essenziali (che non lo avevano mai fatto felice); le sentiva fuggire lontano da sé; eppure non si aggrappò ad esse come un disperato. Invece toccò il suo corpo, si guardò attorno, e sentì ‘qui io sono e adesso’ e non fu preda del panico” (P. Goodman).

27 aprile 2020

Vedi:  - "Il coronavirus: la fine della società liquida?" di p. Giovanni Salonia





martedì 28 aprile 2020

Non è un continente per vecchi di Giuseppe Savagnone

Non è un continente per vecchi
di Giuseppe Savagnone


Cronaca di una strage annunziata

Il coronavirus non ama gli anziani. È di ieri la constatazione fatta dal direttore regionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per l’Europa, Hans Kluge, secondo cui in Europa quasi la metà delle persone che sono morte con il Covid-19 erano residenti in “strutture di assistenza a lungo termine”, vale a dire residenze per anziani. Con una particolare preferenza per le Rsa (Residenze sanitarie assistenziali), destinate ai non autosufficienti.

Kluge ha parlato di «una tragedia umana inimmaginabile». Che sia una tragedia è sicuro. Che fosse inimmaginabile è meno certo. Fin dall’inizio di questa pandemia si sapeva che le persone anziane e disabili sarebbero state le più vulnerabili al virus. Su questo, almeno, i virologi non hanno litigato. Per giustificare o almeno capire quanto è accaduto – in Italia come in tanti altri Paesi – non si può dunque invocare la sorpresa.

Sono morti soli.

Quello che ha reso più lacerante il distacco, per loro come per i loro familiari, è stato il fatto di non poter nemmeno esser vicini in questo momento decisivo, in cui tante ferite, tante incomprensioni, tanti conflitti – tra genitori e figli, tra coniugi –, possono essere recuperati e sanati da un’ultima parola o anche semplicemente da una carezza, o da un sorriso. Nel dolore per la morte di un congiunto colpito da coronavirus c’è stato anche questo rimpianto struggente per un saluto di addio non dato, per un estremo atto d’amore rimasto inespresso. Molti lo porteranno come una ferita per tutta la vita.

Questo dramma, comune a tutte le vittime di questa pandemia e dai loro cari, nel caso degli anziani della case di riposo è stato spesso acuito da un contesto di mancata trasparenza, che ha reso in molti casi inaspettata la notizia non solo del decesso, ma addirittura della malattia del congiunto, o almeno della sua gravità: «Mi hanno detto: sua madre è una roccia. Dopo due giorni era gravissima».

Il caso Lombardia

Torniamo alla domanda: era davvero una tragedia «inimmaginabile»? Quello che si sapeva della estrema fragilità delle persone più anziane davanti alla minaccia del virus non era sufficiente per “immaginare” il pericolo incombente e prendere alcune necessarie precauzioni allo scopo di blindare e mettere in sicurezza delle residenze dove queste persone erano radunate?

Eppure queste precauzioni non sono state prese. In nessun Paese d’Europa. Meno che mai in Italia. Emblematico il caso delle Rsa della Regione Lombardia, il cui sistema sanitario è notoriamente il più efficiente a livello nazionale, e che di questa efficienza ha voluto dar prova costruendo a tempo di record un nuovo ospedale, alla Fiera. Un’impresa tecnicamente ammirevole, che ha consentito alla giunta regionale di ostentare orgogliosamente la propria distanza da un governo nazionale spesso assai poco incisivo e sbandierando questa intraprendenza come una prova del proprio diritto alla più ampia autonomia a cui aspira da tempo (il governatore Fontana ha parlato addirittura di Conte come del «vostro» presidente del Consiglio).

In realtà, però, alla fine l’ospedale è rimasto vuoto, inutile monumento dell’amministrazione regionale a se stessa, e, mentre gli amministratori erano intenti a questa prova di forza, si sono dimenticati che gli anziani erano quelli più a rischio.

Un cerino nel pagliaio

Così, con una delibera dell’8 marzo – lo stesso giorno in cui il vituperato governo nazionale istituiva la “zona rossa” in tutta la Lombardia e in 14 province limitrofe, mostrando di aver finalmente compreso, anche se in ritardo, la gravità della minaccia – la giunta regionale invitava le case di riposo lombarde ad accogliere dei pazienti malati di coronavirus “a bassa intensità”. La motivazione era «la necessità di liberare rapidamente posti letto di terapia intensiva e sub intensiva e in regime di ricovero ordinario degli ospedali per acuti».

Commentando, più tardi, quella delibera, Luigi Degani, presidente di Uneba Lombardia, l’associazione di categoria che mette insieme circa 400 case di riposo di tutta la regione, ha osservato: «Chiederci di ospitare pazienti con i sintomi del Covid 19 è stato come accendere un cerino in un pagliaio: quella delibera della giunta regionale l’abbiamo riletta due volte, non volevamo credere che dalla Regione Lombardia potesse arrivarci una richiesta così folle». 

Pochi giorni dopo, infatti, diverse associazioni di categoria avevano scritto all’assessore Gallera una lettera in cui protestavano contro quella decisione: «Una scelta di questo genere» – si legge nella lettera – «sarebbe assolutamente contraria a qualsiasi forma di tutela sanitaria per una popolazione significativamente anziana (mediamente ultra ottantacinquenne) che, laddove si trovasse in una situazione di contagio, sarebbe esposta ad un rischio altissimo e ben più ampio di quello della media della popolazione italiana».

Per non allarmare i pazienti

Soltanto il 4 aprile un editoriale di Gad Lerner su «Repubblica» rivelava che la direzione del Pio Albergo Trivulzio, il polo geriatrico più importante d’Italia, con oltre milleduecento anziani ricoverati, per tutto il mese di marzo aveva occultato la diffusione del Covid-19 nei suoi reparti, lasciando che il virus contagiasse numerosi pazienti e operatori sanitari.

Nell’articolo si denunziava anche il fatto che il professor Luigi Bergamaschini, geriatra fra i più qualificati di Milano, fosse stato esonerato, il 3 marzo, per avere autorizzato l’uso delle mascherine chirurgiche al personale alle sue dipendenze. Contravvenendo all’esplicito divieto della direzione a medici e paramedici di indossarle, «per non allarmare i pazienti».

A partire da qui, una serie di inchieste della magistratura e del ministero della salute che hanno portato alla luce quello che il presidente del «Comitato giustizia e verità per le vittime del Trivulzio» ha definito un «agghiacciante quadro di malasanità». 

«Non abbiamo sbagliato niente»

Eppure ancora il 5 aprile l’assessore della regione al Territorio e alla Protezione civile, Pietro Foroni, si ostinava ad affermare orgogliosamente in una conferenza stampa: «C’è anche da riconoscere – e penso sia un dato oggettivo – che fino ad ora, come Regione Lombardia, le abbiamo azzeccate tutte».

Da parte sua, sempre a proposito delle Rsa, il governatore Fontana ha replicato con sufficienza all’ondata di critiche: «Credo proprio che non abbiamo assolutamente sbagliato niente», e ha scaricato la responsabilità delle sue scelte sui “tecnici”: «Sono stati i nostri tecnici» – ha dichiarato il presidente lombardo – «che ci hanno fatto la proposta e valutato condizioni delle singole case di riposo e noi ci siamo adeguati». Come se chi governa non fosse eletto dal popolo – lui, non i suoi consulenti (chi sono?) – per assumersi la responsabilità delle scelte…

Quello che è sicuro è che, a seguito di questa sciagurata decisione, sia al Pio Albergo Trivulzio che in diverse altre Rsa lombarde gli anziani ospiti sono stati decimati dal Covid-19, senza che per settimane si prendessero provvedimenti .

Un esempio di “cultura dello scarto”

Ma quello della Lombardia è soltanto un esempio. E non riguarda solo le case di riposo. Si diceva che la strage delle persone anziane si è consumata in tutti i Paesi europei (e non solo). Ovunque, anche se probabilmente in forme diverse, la motivazione è stata la stessa che emerge dalla delibera della Regione Lombardia: la necessità di liberare posti di terapia intensiva, risorse, personale, per salvare la vita di persone più giovani, anche a costo di sacrificare quella di persone più anziane. Un perfetto esempio di quello che papa Francesco ha definito una volta «cultura dello scarto».

Un’alternativa di fondo

A un livello politico più generale, la scelta davanti a cui questa pandemia ha posto i governi è stata, fin dall’inizio, quella fra una strategia volta a limitare il più possibile il numero dei morti con misure di confinamento costosissime sul piano economico, perché implicanti la chiusura dei negozi, degli uffici, delle fabbriche, e una che invece puntasse sulla “immunità di gregge”, accettando un alto tasso di mortalità come un prezzo da pagare per continuare a far funzionare l’economia. Tenendo conto, in questa seconda ipotesi, del fatto che a morire sarebbero state soprattutto le persone anziane, ormai “inutili” ai fini della crescita del Pil.

L’Italia al livello nazionale ha seguito subito la prima linea, attirandosi derisone e concorrenza sleale da parte di chi non chiudeva. Altri Paesi, come il Regno Unito di Boris Johnson e gli Stati Uniti di Donald Trump, avevano puntato sulla seconda, trovandosi poi però costretti a rinnegarla – o almeno mitigarla – davanti alle previsioni di un costo umano eccessivo.

Ma la tentazione è rimasta e aleggia, in Europa e in Italia, nelle continue sollecitazioni a “riaprire”, quali che siano i rischi per la popolazione (specialmente anziana). C’è, senza dubbio, l’esigenza di limitare i danni una catastrofe economica che colpirà comunque giovani e anziani. Ma è presente anche l’idea che “gli affari sono affari” e che qualche migliaio di morti, specie se improduttivi, è un prezzo tutto sommato sopportabile.

I morti si dimenticano

Il coronavirus è dunque venuto a evidenziare spietatamente logiche già presenti, anche se sottotraccia, nella cultura europea ed Occidentale. Né basta il moto di orrore suscitato nell’opinione pubblica da questa strage silenziosa per cambiare un orientamento radicato. I morti si dimenticano facilmente. Così come i giovani tendono a dimenticare che un giorno anche loro saranno anziani.