mercoledì 12 febbraio 2020

Vittorio Bachelet dopo quarant'anni dal suo assassinio ha ancora molto da insegnare! Il ricordo del figlio Giovanni, del Presidente della Repubblica, del Presidente dell'Azione Cattolica, la cerimonia di commemorazione alla Sapienza.

Vittorio Bachelet dopo quarant'anni dal suo assassinio ha ancora molto da insegnare! 
Il ricordo del figlio Giovanni, del Presidente della Repubblica, del Presidente dell'Azione Cattolica, 
la cerimonia di commemorazione alla Sapienza.



I 40 ANNI DALL'OMICIDIO DI VITTORIO BACHELET 
NELLE IMMAGINI DI RAI STORIA
12 febbraio 2020 -  12 febbraio 1980

Le Brigate Rosse uccidono Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. L’agguato avviene al termine di una lezione all’Università La Sapienza di Roma, mentre Bachelet conversa con la sua assistente, Rosy Bindi. Durante il rito funebre, in diretta televisiva, il figlio Giovanni prega per gli uccisori del padre e, a nome della famiglia, annuncia il perdono. Quattro anni dopo, un fratello di Vittorio, il padre gesuita Adolfo, riceve una lettera firmata da 18 brigatisti rossi, in cui si intuisce che la frase di perdono di Giovanni, era riuscita a raggiungere le loro coscienze.

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Giovanni Bachelet ricorda il padre Vittorio ucciso dalle Brigate rosse il 12 febbraio 1980. I loro discorsi, il clima di quegli anni, gli insegnamenti che valgono ancora oggi. E dice: «Sono grato all'Italia che ricorda. Antidoto a quell'odio che può portare a rifare gli errori del passato»


«Non fu dispiaciuto che io e mia sorella non seguissimo le sue orme. Gli unici criteri per scegliere cosa fare da grandi erano che facessimo una cosa che ci piacesse e per la quale avevamo talento. Perché se ti piace cantare, ma sei stonato è inutile intraprendere quella strada…». Giovanni Bachelet, a 40 anni dall’assassinio di suo padre, ne ricorda gli insegnamenti. Ora che è padre anche lui, anzi nonno, racconta, con gli occhi umidi, quell’ultimo saluto all’aeroporto di Fiumicino dove Vittorio lo aveva accompagnato a prendere l’aereo per gli Stati Uniti. Era l’agosto del 1979. A febbraio dell’anno successivo le Brigate rosse gli spararono sulle scale dell’università la Sapienza dove insegnava diritto amministrativo alla facoltà di Scienze politiche.

Cosa vi siete detti?

«Avevo 24 anni e stavo partendo per il mio lavoro negli Stati Uniti. Lì, a Fiumicino, mi fece uno dei pochi discorsi seri sulla mia vita. Mi ha detto: “Mo’ hai fatto la chitarra, gli scout, il circolo Ferrari con Paolo Giuntella, la parrocchia. Adesso però per qualche anno fai solo la fisica perché sennò nessuno più crederà che sei una persona seria”. Voleva dirmi che, almeno per un periodo della propria vita, uno deve diventare bravo nella sua professione altrimenti le altre cose che fa sembrano più un ripiego, un modo di consolarsi del proprio scarso livello professionale. Mi ha ricordato che è tanto bello fare le cose speciali, però se uno non fa bene la propria professione diventa poco credibile anche come cristiano, come politico, come scout, come sindacalista. Lui pensava che, se qualunque cosa fai sembra che tu la faccia perché non sei capace di fare il tuo mestiere, questo diventa non solo poco efficace, ma una contro testimonianza. Cioè non puoi fare il prete, lo sposo, il catechista, lo scout perché non sei capace di fare il mestiere che fannon tutti gli altri. Questo per mio padre era un grande pericolo perché pensava che uno che ha l’ambizione di cambiare il mondo - e magari di seminare un po’ di semi cristiani - deve essere prima di tutto uno che è un uomo normale, che fa bene le cose che fanno tutti a cominciare dal proprio lavoro».

Poi vi siete sentiti per telefono?

matrimonio di Miesi de Januario e Vittorio Bachelet, 27 giugno 1951
«Poco perché costava un sacco di soldi. Oggi tutti dicono che il mondo è peggio di allora, ma una delle cose migliori del presente è che per telefonare in America non devi essere molto ricco. Allora era costosissimo e si faceva una volta ogni due settimane. Poi ci si scriveva per lettera. Da quando è morto papà, però, io ho telefonato tutti i giorni a mamma e continuo a farlo. Pur essendo costoso pensavo, essendo tornato negli Stati Uniti, che stando lontano quella era l’unica cosa che potevo fare. Quando papà era ancora vivo le telefonate erano brevi, come dicevo, per i costi. Però ricordo che una volta alla domanda “Come stai?” mi ha risposto: “Bene quando ti sento”. E questo è bello, un bel ricordo».

Cosa resta all’Italia dell’insegnamento di tuo padre?

«Intanto rimango molto grato e meravigliato che l’Italia ricordi a 40 anni di distanza. Mi sembra un grande dono. E poi spero – e mi sembra che questo succeda - che quelli che ricordano ricordino quello che era davvero cioè una persona normale che si è trovata a fare un servizio per il Paese in un momento un po’ difficile, come molti altri. Purtroppo in quegli anni qualunque fosse la funzione pubblica che uno aveva rischiava molto più di oggi. Ricordiamocelo quando si rimpiangono gli anni in cui la politica era tanto importante per tutti, però era talmente importante che poi ci si ammazzava per la politica. Erano anni difficili, ma il fatto che ce lo ricordiamo vuol dire che la democrazia c’è ancora e, nonostante tutti gli scossoni che abbiamo avuto, il sistema che veniva messo in discussione violentemente negli anni Settanta, con tutti i suoi difetti, ci ha finora consentito di andare avanti in una relativa pace e in una relativa giustizia. Tutte cose relative come le realizzazioni umane, ma sempre meglio che la violenza, che la sopraffazione quotidiana».

Qual è la speranza?

«Quella di andare ancora più avanti e magari di ritrovare di nuovo un tempo in cui si sogna un mondo migliore oltre che accontentarsi di quello attuale. Finché c’è la pace, la democrazia e la libertà tutto è possibile, quando si passa all’odio e alla violenza tutto diventa impossibile. Quindi penso che il fatto che anche oggi si ricordi forse ci aiuta anche a neutralizzare dei semi di odio, di razzismo, di discriminazione, di violenza che pure ogni tanto riemergono. È un ricordo del quale sono grato a chi lo promuove (e sono tanti sia in ambito civile che religioso) e penso sia un aiuto a non fare errori che abbiamo già fatto. Si ricorda l’olocausto, 75 anni fa, si ricorda la morte di mio padre e di tanti altri una quarantina di anni fa e forse questo ci aiuta a non farci scappare la frizione di fronte a facili scorciatoie in cui si da la colpa a un gruppo di persone delle nostre incapacità e dei nostri problemi».

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Tuo padre aveva timori per la sua vita?

«In quegli anni se uno assumeva una responsabilità pubblica di molti diversi tipi, dal giornalista all’imprenditore, al magistrato, senza andare a quelli che anche oggi rischiano tutti i giorni come le forze dell’ordine, sapevano di essere in pericolo. Io penso che lui genericamente lo sapesse. Ricordo molto distintamente il primo processo alle Br a Torino quando non si riusciva a formare la giuria popolare perché tutti mandavano certificati medici. In tv intervistarono uno che aveva accettato e gli chiesero se avesse paura. Mio padre apprezzò la risposta che diede: “Ho paura, ma me la tengo”. Penso che questo si applicasse anche a lui. Non c’era nessuna ragione specifica, almeno che noi sapessimo, di pericolo, ma c’era una ragione generica sufficiente. In questo contesto anche il fatto che lui non abbia voluto la scorta, che, dopo la morte di Moro, hanno proposto a parecchi, rientra nelle sue idee. Da una parte pensava che a Moro non era servita, dall’altro non voleva dare ragione a chi voleva far credere che eravamo in un Paese totalitario dove si stava militarizzando il territorio, con i giudici, i politici, gli imprenditori che sono nemici del popolo e devono girare con gente armata attorno. Lui diceva: “ Se non voglio fare il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura mi dimetto, se voglio farlo perché devo girare con intorno gente armata?”. Forse un discorso ingenuo, ma non ci sono rimpianti».


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Una lezione esemplare
di Matteo Truffelli
Presidente di Azione Cattolica

Tutta la vita di Vittorio Bachelet ci offre la testimonianza esemplare di un credente capace di abitare in maniera significativa il proprio tempo: nella dimensione familiare così come in quella ecclesiale, in quella politica come in quella culturale. Spazi in cui Bachelet seppe mettere in gioco la propria fede a servizio della costruzione di una società più fraterna, più giusta, più umana. Traducendo in scelte precise e in uno stile di vita mite e generoso una fede profonda, asciutta, vissuta non come insieme inscalfibile di certezze e di risposte per ogni situazione ma come fiducia, affidamento e consegna di se stesso. Nella certezza che la storia è storia di salvezza.

«Per costruire ci vuole la speranza», disse nel 1973, al momento di lasciare la presidenza generale dell’Azione Cattolica Italiana. «In fondo io penso — continuava — che noi dovremmo riflettere molto le grandi parole che diceva [Papa] Giovanni all’inizio del Concilio: “Ci sono quelli che vedono sempre che tutto va male, e invece noi pensiamo che ci siano tante cose valide, positive”. Noi dobbiamo tenerlo fermo come atteggiamento di speranza, che ci consente di vincere anche queste ombre, di vincere anche questi rischi, di vincere il male con il bene. E questo vale anche nella vita della società. (...) anche qui, se ci saranno situazioni difficili (e ci saranno probabilmente anche qui delle situazioni difficili), dobbiamo sempre tenere presente una fiducia fondamentale, che non è quella nelle nostre forze o in formulette, ma è quella nell’aiuto finale di Dio e nella capacità che avremo, se fideremo in Lui, di volgere le cose al bene».

È da questo atteggiamento di fondo che possiamo ricavare il cuore della lezione di Bachelet per i credenti di oggi, e in modo particolare per i credenti laici, chiamati a spendere i propri talenti sul terreno non facile dell’impegno sociale e politico. È nota, in questo senso, l’immagine utilizzata da Paolo VI, Papa che tanto stimava Vittorio e che Vittorio tanto amava: «i nostri laici», diceva, «fanno da ponte. E ciò non già per assicurare alla Chiesa un’ingerenza (...), ma per non lasciare il nostro mondo terreno privo del messaggio della salvezza cristiana». Un’immagine di cui proprio Bachelet colse tutta la forza, quando ricordava che «per essere “ponte” bisogna essere saldamente cristiani e vigorosamente uomini del nostro tempo; non per subirne quanto vi è di corruzione, ma per viverne con linearità, con fortezza, ma con animo aperto la ricchezza di esperienza. Bisogna essere in entrambe le comunità vivi, attivi e responsabili. Giacché come ogni ponte, il laico è sottoposto alla tensione della grande arcata».

È questa la dinamica peculiare che sperimentano i credenti che si pongono a servizio del proprio tempo: la condizione di una continua “tensione”, un continuo inarcamento tra contesti, esperienze, spinte spesso tra loro contrapposte, frammentate e divergenti. Nella consapevolezza che il bene per il quale si è chiamati a spendere senza risparmio tutti i propri talenti, le proprie energie e la propria coscienza formata sarà sempre un bene parziale, inadeguato, relativo.

È proprio prendendo le mosse da questo snodo decisivo che Bachelet indicava nell’acquisizione di un profondo senso del significato della storia la condizione indispensabile per poter agire dentro il mondo da credenti. Egli era convinto, infatti, che mettere la propria fede a servizio del bene possibile comportasse sì la necessità di educarsi «a una lineare aderenza agli essenziali immutabili principi», ma che occorresse «in pari tempo» formarsi e formare ciascuno «al senso storico, alla capacità cioè di cogliere il modo nel quale quei principi possono e debbono trovare applicazione». «Se non si distinguono con chiarezza i valori perenni e immutabili del bene comune dai suoi mutevoli contenuti storici», ammoniva infatti Bachelet con lucidità, «si rischia che dall’inevitabile mutare dei secondi finiscano per apparire travolti anche i primi».

Un modo di concepire il rapporto tra fede e storia per nulla scontato, all’epoca come oggi. Ma è proprio qui che si colloca la radice più profonda della lezione che Bachelet ci ha lasciato e che suona tanto più preziosa per i tempi in cui viviamo. Il nostro tempo, infatti, sembra se possibile ancor più sfidante per la fede di quello in cui visse Vittorio. Le grandi trasformazioni dentro cui siamo immersi interpellano i credenti, con cambiamenti che aprono possibilità inedite ed entusiasmanti, ma dischiudono anche rischi finora forse solo immaginati dalla letteratura e dai grandi miti antichi. Trasformazioni enormi sotto il profilo culturale, economico, geopolitico, ambientale, interrogano la nostra fede, esponendoci alla tentazione di fare di essa una barriera dietro cui trincerarci per difenderci dalle vicende del nostro tempo e, in particolare, dal confronto che esso ci impone con chi può apparire come una minaccia, perché portatore di valori, tradizioni, visioni dell’uomo differenti dalle nostre. Finendo, così, per perdere di vista il nucleo stesso della nostra fede, che ci impone di vedere in chi è diverso da noi il volto del fratello, e non del nemico.

Già molto tempo fa Bachelet vedeva bene questo pericolo. «Oggi è di moda l’integralesimo», scriveva appena ventunenne: «Umanesimo integrale, cristianesimo integrale (...). E fin qui non possiamo che esser d’accordo. Il guaio comincia quando dalle parole si passa ai fatti. (...) Succede allora, per esempio, che invece di essere il cristianesimo a regolare in pieno ogni atteggiamento della nostra vita, siamo noi che trasportiamo i nostri piccoli modi di vedere nella concezione stessa del cristianesimo, e mentre siamo in buona fede convinti di attuare un cristianesimo integrale, non facciamo in realtà che deformare spesso paurosamente la stessa concezione cristiana. (...) portati dal corso stesso delle cose a concepire il cristianesimo, la Chiesa cattolica, come un gigantesco fronte di combattimento che — come tutti i fronti — divide gli uomini in due schiere: quelli che stanno al di qua e quelli che stanno al di là, gli amici e i nemici. Ora bisogna intendersi: (...) Se nemico è colui che non ama, allora è vero senz’altro che i cattolici hanno molti tenaci nemici: ma se nemico è colui che non si ama, allora è più vero ancora che i cattolici non hanno nemici. (...) Questo può essere più difficile oggi, in una società spezzettata o atomica, in cui ogni piccola frazione sente il dovere di chiudersi nella sua piccola fortezza puntando sulle altre le proprie batterie. (...) Ad ogni modo è certo che, qualunque possa essere la difficoltà, alla legge non si può derogare. (...) Se i cristiani sapessero sempre amare così, essi avrebbero certamente meno nemici. Perché è difficile resistere alla forza dell’amore».

Solo apparentemente la tragica morte di Bachelet segna una sconfitta di questo modo di porsi, da credente, dentro il proprio tempo. La storia ci testimonia infatti che la sconfitta autentica attendeva coloro che pensarono di poter cambiare il proprio tempo usando la violenza contro la mitezza, la forza contro la ragione, l’ideologia contro la democrazia. Il seme gettato dentro la società dalla testimonianza esemplare di Vittorio continua invece dopo quaranta anni a portare frutto.

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Vittorio Bachelet, giurista mite assassinato perché dialogava

Il ricordo di Sergio Mattarella davanti al Csm, nel quarantesimo anniversario dell’agguato brigatista


Vittorio Bachelet era vice-presidente del Csm, praticamente a capo della magistratura italiana, eppure girava senza scorta. Sapeva in cuor suo di essere nel mirino dei terroristi, ma sulle scale della facoltà di Scienze politiche alla Sapienza con lui c’erano soltanto un paio di studenti e la sua assistente, Rosy Bindi. Venne assassinato il 12 febbraio 1980 con otto colpi di pistola, l’ultimo alla nuca, esplosi da due brigatisti rossi. Quarant’anni dopo, in un’Italia completamente diversa, la figura di Bachelet è stata commemorata prima davanti al Consiglio Superiore della magistratura e poi nell’aula magna della “sua” università. Alcuni vecchi colleghi, come il professor Giuliano Amato, hanno ricordato il contributo che sul terreno accademico Bachelet diede al progresso del diritto pubblico, cercando di superare l’eredità del fascismo, specie sul tema del coordinamento tra organismi amministrativi autonomi.

Sergio Mattarella, invece, è intervenuto a Palazzo dei Marescialli per spiegare come mai questo giurista cattolico mite e profondamente democratico venne scelto come bersaglio. Cosa simboleggiava agli occhi dell’eversione armata? Nel ricordo del presidente, Bachelet venne ucciso proprio perché contestava le basi teoriche del terrorismo: «Dimostrava con la sua azione che è possibile realizzare una società più giusta senza mai ricorrere alla contrapposizione aspra e pregiudiziale. Era convinto che nell’impegno sociale, in quello politico, in quello istituzionale, proprio attraverso il dialogo fosse possibile ricomporre le divisioni, interpretando così il senso più alto della convivenza». In sintesi, venne assassinato «perché interpretava il senso più autentico della nostra Repubblica: un profondo senso della comunità e dello Stato». Acqua passata? Non tanto. Per Mattarella occorre mantenersi vigili: «Rimane sempre, in ogni sede, il rischio di altre contrapposizioni, di contrasti basati sulla pura difesa di posizioni di parte». Gli anni di piombo appartengono ormai ai libri scolastici, ma di corsi e ricorsi la storia purtroppo trabocca.

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Leggi il testo integrale dell''intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Palazzo dei Marescialli alla cerimonia in ricordo di Vittorio Bachelet, in occasione del 40° anniversario della scomparsa

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Oggi, mercoledì 12 febbraio alle 15.00, presso l’Aula magna del Palazzo del Rettorato, alla presenza del Presidente della Repubblica, si è tenuto il seminario “Vittorio Bachelet: l’impegno come responsabilità e come esempio 12 febbraio 1980 - 12 febbraio 2020” per ricordare la figura e l’opera di Vittorio Bachelet barbaramente ucciso dalle brigate rosse 40 anni fa. 
Docente di Diritto amministrativo nell'allora Facoltà di Scienze politiche della Sapienza, Bachelet fu per molti anni impegnato nel sociale e nelle istituzioni, prima come Presidente nazionale dell'Azione cattolica italiana nel periodo del Concilio Vaticano II e successivamente come Vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura.
Dopo i saluti del rettore della Sapienza Eugenio Gaudio, ha aperto i lavori una relazione generale del giudice della Corte costituzionale Giuliano Amato. Durante la tavola rotonda “Bachelet oggi”, sono intervenuti il presidente dell'Associazione Vittorio Bachelet Renato Balduzzi, il vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura David Ermini, il presidente nazionale dell'Azione cattolica italiana Matteo Truffelli e il docente del Dipartimento di Scienze politiche della Sapienza Fulco Lanchester.
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