sabato 29 febbraio 2020

Le tre sfide - Commento al Vangelo - I domenica di Quaresima (A) a cura di P. Ermes Ronchi

Le tre sfide 
 Sogna, ma non ridurre mai i tuoi sogni a cose e denaro. 
Credo che Dio è con me, ogni giorno, mia forza e mio canto. 
Gesù non cerca uomini da dominare, vuole figli liberi e amanti.


I commenti di p. Ermes al Vangelo della domenica sono due:
  • il primo per gli amici dei social
  • il secondo pubblicato su Avvenire
In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo». Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vàttene, satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto». Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano. (Matteo 4,1-11)


per i social

Gesù deve scegliere che tipo di Messia diventare, è la scelta decisiva di tutta la sua vita. La prima sfida riguarda il corpo e le cose: sazia la fame, di’ che queste pietre diventino pane. Pietre o pane, piccola alternativa, che Gesù spalanca. E dice: vuoi diventare più uomo, vivere meglio? Non inaridire la vita a ricerca di beni, di roba. Sogna, ma non ridurre mai i tuoi sogni a cose e denaro. “Non di solo pane vivrà l’uomo”. C’è dentro di noi un di più, una eccedenza, una breccia, per dove entrano mondi, creature, affetti, un pezzetto di Dio.

L’uomo vive di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. E accende in me una fame di cielo che noi tentiamo di colmare con larghe sorsate di terra. Invece il pane è buono ma più buona è la parola di Dio; il pane è vita ma più vita viene dalla bocca di Dio.

Dalla bocca di Dio, dalla sua parola è venuta la luce, il cosmo con sua bellezza e le creature. Dalla bocca di Dio è venuto il soffio che ci fa vivi, sei venuto tu. Se l’uomo vive di ciò che viene da Dio, io vivo di te: fratello, amico, amore, di te. Parola pronunciata dalla bocca di Dio per me.

La seconda sfida tocca la relazione con Dio. Buttati giù, provoca un miracolo! fallo attraverso ciò che sembra il massimo della fede in Dio e invece ne è la caricatura, la ricerca di un Dio magico a proprio servizio. Buttati, così potremo vedere uno stuolo di angeli in volo… Mostra un miracolo, la gente ama i miracoli, e ti verranno dietro. Il diavolo è seduttivo, si presenta come un amico che vuole aiutare Gesù a fare meglio il lavoro di messia.

Gesù risponde: non metterai alla prova Dio. Ed è la mia fede: io credo che Dio è con me, ogni giorno, mia forza e mio canto. Ma io non avanzerò nella vita a forza di miracoli, bensì per il miracolo di un amore che non si arrende, di una speranza che non ammaina le sue bandiere.

La terza posta in gioco è il potere sugli altri: prostrati davanti a me e avrai il mondo ai tuoi piedi. Il diavolo fa un mercato, al contrario di Dio, che non fa mai mercato dei suoi doni. E quanti lo hanno ascoltato! Hanno fatto mercato di se stessi, in cambio di carriera, una poltrona, denaro facile.

Il Satana dice: vuoi cambiare il mondo con l’amore? Sei un illuso! Assicura agli uomini pane, miracoli e un leader, e li avrai in mano. Ma Gesù non cerca uomini da dominare, vuole figli liberi e amanti. Per Gesù ogni potere è idolatria.

Il diavolo allora si allontana e angeli si avvicinano e lo servono. Avvicinarsi e servire, le azioni da cui si riconoscono gli angeli. Se in questa quaresima ognuno si avvicina ad una persona che ha bisogno, ascoltando, accarezzando, servendo, allora vedremmo la nostra terra assomigliare ad un nido di angeli.



per Avvenire

È bella la Quaresima. Non si impone come la stagione penitenziale, ma si propone come quella dei ricominciamenti… 

leggi su Avvenire


CORONA VIRUS - Card. Scola: "Non esiste il castigo divino Milano ce la farà" - Intervista di Paolo Rodari

CORONA VIRUS
Card. Scola: "Non esiste il castigo divino
 Milano ce la farà"


Intervista di Paolo Rodari 
al card. Angelo Scola, 
arcivescovo emerito di Milano
(testo parziale)



«Nel 1576 Milano venne investita dalla peste. La chiamarono la peste di san Carlo. Perché un uomo, san Carlo appunto, la visse in modo differente, senza paura, arrivando a dare la vita per gli altri e in questo modo facendo sì che tutti addirittura definissero la stessa peste usando il suo nome. Se questi giorni di paura, legittima, ci facessero ritornare a un modo di vivere le relazioni così, come fece san Carlo, non sarebbero giornate andate sprecate. Proprio in quei giorni trovo un' indicazione su come stare dentro queste prove».

Ha scelto di abitare a Imberido di Oggiono, Angelo Scola, dopo aver lasciato la guida dell' arcidiocesi di Milano a Mario Delpini. Ha deciso di fare ritorno ai manzoniani luoghi della sua infanzia, vicino a «quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno», distante appena dieci chilometri da Malgrate, il paese dove nacque 78 anni fa da suo padre Carlo, camionista, e da sua madre Regina, guantaia e casalinga.


Quando era bambino visse situazioni analoghe a quella di oggi?
«Per certi versi sì. Ricordo le piccole bare bianche dei funerali dei bambini, fra questi alcuni miei cugini, che se ne andavano per polmonite e tubercolosi. Io stesso a vent'anni fui colpito dalla tubercolosi. C' erano anche allora paura e smarrimento. Anche se le famiglie facevano tanti bambini e dunque, seppure nel dolore unico e insieme terribile, le morti erano mitigate dalla presenza dei tanti che restavano. Inoltre, c' era un riferimento netto e chiaro alla fede nella risurrezione per cui tutto era vissuto alla fine con speranza».

....

La Chiesa ha preso provvedimenti, ad esempio in Lombardia, sospendendo le messe. Condivide?
«Pienamente. Sono contento del comunicato dei vescovi lombardi che accompagnano il popolo di Dio in questa fase. Ci è chiesto di fare come durante la quaresima ambrosiana nella quale il venerdì si rinuncia all' eucaristia. E così si comprende meglio, nella mancanza, il valore del ricevere il Signore».

Si parla molto dell' effetto economico che questi giorni avranno sul Paese. Cosa pensa?
«L' aspetto economico è importante, ma occorrerebbe affrontare il tema della rigenerazione della comunità civile. Questi giorni devono secondo me far comprendere la necessità che in una società plurale o l' Io vive come relazione o non vive. Dal diffondersi del coronavirus può nascere un diverso senso di unità, e una riflessione per una politica che favorisca la condivisione dentro questa pluralità. Questa narrazione reciproca ancora non c' è mentre sarebbe necessaria».

È cristianesimo la visione per la quale dietro il coronavirus vi sarebbero dei castighi divini?
«È una visione scorretta. Dio vuole il nostro bene, ci ama e ci è vicino. Il rapporto con lui è da persona a persona, è un rapporto di libertà.
Certo, conosce e prevede gli avvenimenti ma non li determina.
Quando gli chiedono se le diciotto persone morte sotto il crollo della torre di Siloe abbiano particolari colpe Gesù smonta la questione: "No, io vi dico, non erano più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme". Per i cristiani Dio comunica attraverso le circostanze e i rapporti. Anche da questa circostanza potrà emergere un bene per noi. Fra i tanti insegnamenti la necessità di imparare a stare nella paura portandola a un livello razionale».

(Fonte: Pubblicato su "La Repubblica" il 27.02.2020 - testo parziale)


Guarda anche i nostri post già pubblicati:





Andare oltre la paura di Vito Mancuso

In questi giorni così difficili all’ombra cupa del coronavirus
Andare oltre la paura 
di Vito Mancuso,
teologo




La paura è l’emozione negativa che sorge d’istinto dentro di noi a seguito delle informazioni di pericolo captate dalla mente. Essa genera in chi la prova tre possibili reazioni: 1) la difesa e la conseguente aggressività; 2) la fuga; 3) l’immobilizzarsi come pietrificati. Questo è quello che pensiamo noi della paura, ma per gli antichi essa era molto di più: era un dio o era mandata da Dio, e per questo occorreva averne rispetto, riverenza, «timore e tremore» ammoniva Paolo di Tarso. Si legge nell’Iliade: «Ares massacratore marcia alla guerra, e lo segue suo figlio, Phobos intrepido e forte, che incute paura persino al guerriero più impavido» (XIII, 298-300). Phobos, da cui fobìa, è la personificazione della nostra paura, del nostro terrore. In un’iscrizione votiva di Selinunte del V secolo a.C. egli è posto subito dopo Zeus e prima di tutti gli altri dèi, mentre nella bellicosa Sparta vi era persino un tempio per il dio della paura …

Se poi consideriamo l’altra sorgente della cultura occidentale e apriamo la Bibbia ebraica, quasi in ogni pagina ci imbattiamo in un’atmosfera segnata dalla paura, termine che ricorre spesso nella Bibbia e che unito ai sinonimi come timore, terrore, spavento, angoscia, ansia, sbigottimento, preoccupazione, inquietudine, orrore, arriva a rappresentare una costante incombente. Non solo: nella Bibbia la paura è tanto maggiore, quanto più prossima è la presenza di Dio.
Così per esempio il libro della Genesi fa dire a Giacobbe: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo», annotando che poi Giacobbe «ebbe paura e disse: Quanto è terribile questo luogo!» (Genesi 28,16-17). La paura è un ingrediente indispensabile di ogni teofania, non a caso le prime parole rivolte agli umani sono il più delle volte “non temere”, come disse l’arcangelo Gabriele a Maria, parole che hanno senso solo se prima c’è appunto, istintiva, la paura.
Ma cosa vuol dire che la paura è un dio, come afferma il politeismo greco, o che è strettamente associata alla presenza divina, come afferma il monoteismo ebraico? Vuol dire che essa è più potente di noi umani, e che però al contempo ci attrae. Se fosse solo più potente senza esercitare attrazione sarebbe un mostro, un titano, un demonio, non un dio. Invece no, essa ci spaventa e insieme ci attrae, secondo la dialettica del divino individuata un secolo fa da Rudolf Otto: mysterium tremendum e mysterium fascinans, cioè qualcosa di più grande di fronte a cui tremiamo e di cui al contempo subiamo il fascino. Quando si parla di “divino”, ben prima di tutte le discussioni teoriche sull’esistenza o non esistenza di Dio, è esattamente questa esperienza contraddittoria che si porta al pensiero. Perché una cosa è sicura: Dio può anche non esistere, ma che esista il divino (l’immenso mistero dell’essere di cui siamo fatti che ci fa vivere e morire) è fuori discussione. Lo manifesta la paura (Phobos), così come l’amore (Afrodite), la guerra (Ares), la natura selvaggia (Artemide), il potere (Zeus), l’arte (Apollo), la medicina (Asclepio) e tutte le più vive esperienze vitali. Noi dalla paura siamo spaventati, ma al contempo ne siamo affascinati: non si spiegherebbero altrimenti le produzioni culturali e di intrattenimento che fanno leva su questa emozione, a partire dai thriller e dall’horror, e prima ancora dalle antiche favole che tanto spavento volevano suscitare nei bambini con la strega, la regina cattiva, il lupo, l’orco e tanta violenza. Forse anche questi giorni così difficili all’ombra cupa del coronavirus contengono una lama di fascino ambiguo, per cui abbiamo sì tutti paura ma al contempo proviamo una specie si tensione emotiva, per non dire eccitazione.
Siamo al cospetto della carica rivelativa contenuta in quelle esperienze di confine che Jaspers denominava “situazioni limite”. Ma se la paura è un dio, come ci si comporta al cospetto di un dio? Il dio, anzitutto, lo si teme. E in questo timore, che non è terrore ma senso delle dimensioni, si acquisisce sapienza. Sta scritto infatti: “Principio della sapienza è il timore del Signore” (Proverbi 9,10). Sull’architrave del tempio di Delfi era incisa la massima che tanto impressionò Socrate: “Conosci te stesso”. Sembra che in origine si trattasse di un ammonimento a ogni fedele perché non avesse mai a dimenticare la sua condizione mortale: conosci te stesso, cioè la tua fragilità, il tuo essere destinato a finire. A partire da Socrate la massima venne però intesa come un’esortazione ad approfondire la nostra natura, questo mistero di un pezzo si materia che si scopre radicalmente diverso da ogni altro pezzo di materia e da ogni altro vivente in quanto abitato da vita interiore, emozioni, sentimenti, sapere, ideali. Così l’ammonimento delfico Conosci te stesso prese a trasformarsi in una domanda: Io, chi sono? In quanto essere umano, cosa sono? La risposta che diede Socrate e con lui l’Occidente fu: tu sei la tua anima. Il termine “anima” dice la nostra interiorità, quella stessa dimensione che ci fa provare paura, ma anche passione, fremito, amore. 
Si potrebbe anche dire che noi siamo il nostro cuore. Ed è proprio dal termine latino per cuore, cor, che viene “coraggio”, l’antidoto della paura.
Coraggio significa azione del cuore. Esso non è il contrario della paura, perché la suppone; esso è il superamento della paura, perché la vince. Senza paura non si può avere coraggio, si ha temerarietà, ovvero sconsideratezza e ignoranza perché si ignorano le preziose informazioni che provengono dall’emozione della paura. È solo avendo paura che si può generare l’azione del cuore detta coraggio.
Il contatto con il pericolo ci può far comprendere chi siamo: siamo una mente impaurita, è vero, ma possiamo essere anche una mente che discerne tale paura e legge le sue informazioni, e giungere a essere un cuore che supera la paura mediante il coraggio, cioè l’azione disciplinata e intelligente che non ignora i pericoli della realtà ma proprio per questo li sa riconoscere e sconfiggere.

(Fonte: sito ufficiale - pubblicato su "La Repubblica" 26 febbraio 2020)

venerdì 28 febbraio 2020

Chiesa e Coronavirus - La benedizione di Mons Delpini: "... l’apprensione e il panico, si diffondono e contagiano il nostro vivere con maggior rapidità e con più gravi danni del contagio del virus... Il Signore è alleato degli uomini di scienza..." - I Vescovi lombardi: “Non possiamo vivere senza celebrare il giorno del Signore” - I Vescovi Nosiglia e Moraglia: «SUPERMERCATI APERTI, MESSE SOSPESE, CHE SENSO HA?»

Chiesa e Coronavirus
La benedizione di Mons Delpini: 
"... l’apprensione e  il panico, si diffondono e contagiano il nostro vivere con maggior rapidità e con più gravi danni del contagio del virus... Il Signore è alleato degli uomini di scienza..."
I Vescovi lombardi: 
“Non possiamo vivere senza celebrare il giorno del Signore”
I Vescovi Nosiglia e Moraglia: 
«SUPERMERCATI APERTI, MESSE SOSPESE, CHE SENSO HA?»


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Un pensiero di benedizione

di Mario Delpini
Arcivescovo di Milano


Invoco la benedizione di Dio su questa nostra terra e su tutte le terre del pianeta.
In questo momento l’apprensione per sé e per i propri cari, forse persino il panico, si diffondono e contagiano il nostro vivere con maggior rapidità e con più gravi danni del contagio del virus.

Invoco la benedizione di Dio per tutti:
la benedizione di Dio non è una assicurazione sulla vita, non è una parola magica che mette al riparo dai problemi e dai pericoli.
La benedizione di Dio è una dichiarazione di alleanza: Dio è alleato del bene, è alleato di chi fa il bene.
Invoco la benedizione di Dio sugli uomini di scienza e sui ricercatori.
La gente comune non sa molto di quello che succede, dei pericoli e dei rimedi di fronte al contagio.
Il Signore è alleato degli uomini di scienza che cercano il rimedio per sconfiggere il virus e il contagio.
In momenti come questi si deve confermare un giusto apprezzamento per i ricercatori e per gli uomini e le donne che si dedicano alla ricerca dei rimedi e alla cura dei malati.
Si può essere indotti a decretare il fallimento della scienza e a suggerire il ricorso ad arti magiche e a fantasiosi talismani. La scienza non ha fallito: è limitata.
Siano benedetti coloro che continuano a cercare con il desiderio di trovare rimedi, piuttosto che di ricavarne profitti. Certo si può anche imparare la lezione che sarebbe più saggio dedicarsi alla cura dei poveri e delle condizioni di vita dei poveri, piuttosto che a curare solo le malattie dei ricchi e di coloro che possono pagare.
Che siano benedetti gli scienziati, i ricercatori e coloro che si dedicano alla cura dei malati e alla prevenzione delle malattie.

Invoco la benedizione di Dio per tutti coloro che hanno responsabilità nelle istituzioni.
La benedizione di Dio ispiri la prudenza senza allarmismi, il senso del limite senza rassegnazione. Il consiglio dei sanitari e delle persone di buon senso suggerirà provvedimenti saggi.
Ogni indicazione che sarà data per la prevenzione e per comportamenti prudenti sarà accolta con rigore dalle istituzioni ecclesiastiche.

Invoco la benedizione di Dio su coloro che sono malati o isolati.
Vi benedico in nome di Dio perché Dio è alleato del desiderio del bene, della salute, della vita buona di tutti. Chi è costretto a sospendere le attività ordinarie troverà occasione per giorni meno frenetici: potrà vivere il tempo a disposizione anche per pregare, pensare, cercare forme di prossimità con i fratelli e le sorelle.

Mi permetto di invocare la benedizione del Signore
e di invitare tutti i credenti a pregare con me:

Benedici, Signore, la nostra terra, le nostre famiglie, le nostre attività.
Infondi nei nostri animi e nei nostri ambienti
la fiducia e l’impegno per il bene di tutti,
l’attenzione a chi è solo, povero, malato.
Benedici, Signore,
e infondi fortezza e saggezza
in tutti coloro che si dedicano al servizio del bene comune
e a tutti noi:
le sconfitte non siamo motivo di umiliazione o di rassegnazione,
le emozioni e le paure non siano motivo di confusione,
per reazioni istintive e spaventate.
La vocazione alla santità ci aiuti anche in questo momento
a vincere la mediocrità, a reagire alla banalità, a vivere la carità
a dimorare nella pace. Amen

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"Chiederò per te il bene"

Riportiamo il testo che i vescovi della Lombardia hanno deciso di mandare a tutte le Chiese da essi presiedute.

“Non possiamo vivere senza celebrare il giorno del Signore”. Questo grido dei 49 cristiani che sono stati martirizzati ad Abitinia nel 304 ritorna in questa nostra domenica in cui noi Vescovi, sacerdoti e fedeli delle chiese lombarde non possiamo celebrare comunitariamente l’eucarestia domenicale.

Vivere il giorno del Signore in assenza della celebrazione eucaristica è un vuoto e una privazione che noi tutti sentiamo con sofferenza. Oggi, però, non è la persecuzione che proibisce l’eucarestia, ma la sollecitudine per la salute di tutti gli abitanti della Regione quella che invita tutti noi ad astenerci dalle assemblee eucaristiche.

Il digiuno eucaristico in questa prima domenica di Quaresima è invito a rivolgerci con fiducia al Signore e dirgli: “Nella mia angoscia ho gridato al Signore ed egli mi ha risposto” (Salmo 119). E’ apertura confidente al suo amore che, sempre, vigila su chi cerca la sua volontà e vive il tempo della prova dicendo: “Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l'aiuto?” e con fede proclama: “Il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto cielo e terra” (Salmo 120).

Ecco, quindi, che alla preghiera personale che ogni singolo fedele in questa prima domenica di Quaresima rivolge al Signore - magari anche recandosi nelle nostre chiese fra il sabato pomeriggio e la domenica – si aggiunge l’invito a seguire la messa celebrata dal Vescovo diocesano e trasmessa dalla televisione o dalla radio o dal sito web della Diocesi. E’ un modo vero e intenso nel quale tutti i credenti che abitano questa terra di Lombardia supplicano: “Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: «Su di te sia pace!». Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene” (Salmo 121).

+ Mario E. Delpini – Arcivescovo di Milano
+ Francesco Beschi – Vescovo di Bergamo
+ Marco Busca – Vescovo di Mantova
+ Oscar Cantoni – Vescovo di Como
+ Maurizio Gervasoni – Vescovo di Vigevano
+ Daniele Gianotti – Vescovo di Crema
+ Maurizio Malvestiti – Vescovo di Lodi
+ Antonio Napolioni – Vescovo di Cremona
+ Corrado Sanguineti – Vescovo di Pavia
+ Pierantonio Tremolada – Vescovo di Brescia

Con il messaggio «Chiederò per te il bene», i Vescovi lombardi invitano i fedeli a seguire la Santa Messa di domenica 1 marzo, prima di Quaresima, dalle proprie case, attraverso le dirette televisive e in streaming, che sono state predisposte nelle singole diocesi a seguito dell’ordinanza della Regione Lombardia per l’emergenza epidemiologica da Coronavirus.


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NOSIGLIA E MORAGLIA: 
«SUPERMERCATI APERTI, MESSE SOSPESE, 
CHE SENSO HA?»

27/02/2020 L'arcivescovo di Torino e il patriarca di Venezia sollevano una questione sentita da molti in questi giorni. Non si rischia forse di svalutare la dimensione religiosa?

Torino Monsignor Cesare Nosiglia e Chiara Appendino 
nella chiesa di Nostra Signora della Salute deserta
26 febbraio 2020, Mercoledì delle Ceneri. 
Venezia, 26 febbraio 2020. Un fermo immagine
della Messa celebrata dal patriarca Francesco Moraglia
in una Basilica di San Marco deserta.












Le immagini hanno un impatto cento volte maggiore del più emozionante degli editoriali. Spazio alle foto, allora. Il primo prelato è ritratto in preghiera accanto al sindaco Chiara Appendino, in un Borgo chiamato Vittoria per celebrare la sconfitta dei francesci nel 1706 (sì, propria quella per cui si immolò Pietro Micca), soli, la guida spirituale e la guida civile, nella chiesa nata per ringraziare la Vergine Maria d'aver interceduto presso Dio e fatto terminare la devastante epidemia di colera del 1835. Il secondo uomo di Chiesa, invece, è immortalato prima mentre celebra un solitario rito delle Ceneri in una deserta Basilica di San Marco, e poi fuori mentre benedice Venezia e i veneziani con l'Ostensorio in una delle più rinomate piazza del mondo.

Chiesa e coronavirus. 
Cesare Nosiglia, 75 anni, è arcivescovo di Torino. Francesco Moraglia, 66 anni, è patriarca di Venezia. In tempi diversi, ma con le stesse modalità (due interviste) e con gli stessi accenti (accorati, ma costruttivi), hanno entrambi sollevato una questione sentita da molti in questi giorni (basta sintonizzarsi sulle frequenze di Radio Maria o di Radio Mater, ovvero leggere mail e messaggi inviati al nostro giornale): ferma restando la difesa della salute pubblica, la cancellazione delle celebrazioni eucaristiche non sottende forse la svalutazione della dimensione religiosa, della natura spirituale delle persone da considerarsi anch'essa in qualche modo bene di prima necessità?

Nosiglia ha risposto alle domande rivoltegli dai giornalisti del settimnanale diocesano di Torino La voce e il tempo. «Abbiamo accolto come diocesi del Piemonte le disposizioni richieste dalla Regione, perché rispettiamo le delibere dell’autorità civile e per garantire al massimo la salute dei cittadini, così come hanno fatto le Conferenze episcopali della Liguria, della Lombardia e del Triveneto», ha esordio monsignor Cesare Nosiglia. «La Messa feriale, come sappiamo, è generalmente frequentata da un numero modesto di fedeli. Va pertanto detto onestamente che tale proibizione è una scelta che penalizza solo una componente della città, lasciando aperti altri spazi pubblici frequentati da numeri ben maggiori di cittadini. Mi riferisco ai mercati e supermercati, o al metrò e agli autobus e tram e così via… Sembra che i servizi alla popolazione possono essere garantiti perché essenziali, mentre quelli di ordine religioso vengano considerati superflui e dunque non esenti da provvedimenti restrittivi come si è fatto».

Quando gli è stato domandato se un fedele può chiedere di fare la Comunione anche senza la Messa, ma solo preparandosi con la preghiera, l'arcivescovo di Torino ha risposto: «Certamente, perché non si tratta di una funzione che coinvolge grandi numeri, ma esprime un desiderio personale di cibarsi dell’ostia consacrata; è permesso dalla Chiesa, in passato questa pratica era abbastanza usuale». E ha aggiunto: «La preghiera sostiene il credente che trova in essa conforto e speranza. E il fatto di pregare Dio perché ci aiuti ad affrontare questa situazione e dia forza a coloro che ne portano le conseguenze produce certamente un frutto di bene grandissimo di cui può usufruire tutta la società».

«Che cosa dice dunque ai fedeli e alle istituzioni?», hanno chiesto infine i giornalisti del settimanale diocesano di Torino. «Ai fedeli» ha replicato monsingor Nosiglia, «dico di accettare la scelta fatta come un modo certo imprevisto, ma significativo di quella penitenza quaresimale propria del tempo liturgico che iniziamo in questa settimana. Per chi è abituato a frequentare ogni giorno la sua parrocchia e fare la comunione è certamente un sacrificio non piccolo: ma può portare buon frutto se viene offerto al Signore. Alle istituzioni dico di non sottovalutare la realtà religiosa confinandola nelle scelte personali e private e così dimenticando che essa invece ha una valenza pubblica, etica e sociale che aiuta molto non solo chi ne accoglie il valore, ma l’intera comunità cittadina. Questo senza togliere nulla ad altri servizi pure importanti»

IL PATRIARCA MORAGLIA: «CHIEDERÒ CHE DA LUNEDÌ PROSSIMO CI SIANO DELLE POSSIBILITÀ DI PREGHIERA COMUNE»

Monsignor Francesco Moraglia, patriarca di Venezia, invece, è stato intervistato dal Corriere della Sera. «Qualcuno ha fatto emergere la contraddizione tra le Messe sospese e palestre e mercati aperti. Pensa si possa superare questo divieto?», gli è stato chiesto.

«È un tema che ho già affrontato con il governatore Zaia, sempre collaborativo e capace di comprendere il nostro disagio. Dipenderà molto dai numeri dei contagiati ma è necessario che si trovino dei momenti in cui la comunità ecclesiale a livello di parrocchie e di unità pastorale possa pregare assieme. Non penso che le Messe feriali ad esempio, visto la frequentazione non eccessiva, possano rappresentare un problema. Troviamo delle regole di partecipazione comune: il numero di persone, delle messe, i presidi igienici alle porte delle chiese. È di difficile comprensione vedere mercati, palestre, piscine, anch’essi luogo di incontro e di aggregazione, aperte e le Messe sospese. Per questo a nome della Conferenza episcopale del Triveneto chiederò che da lunedì prossimo ci siano delle possibilità di preghiera comune»


Vedi anche il post precedente:




All'udienza di mercoledì scorso Papa Francesco realizza un altro sogno di Paolo

All'udienza di mercoledì scorso (26/2/2020) 
Papa Francesco realizza un altro sogno di Paolo


La malattia, terra feconda per far germogliare la fede

A Vatican News, la storia di Paolo Palumbo, giovane sardo di 22 anni affetto da Sla. Dopo l’esibizione sul palco di Sanremo, ieri all’udienza generale l’incontro emozionante e commovente con Papa Francesco



 Non è una storia di tristezza, né di rassegnazione. È una storia che, pur nella sua drammaticità, ha ali per volare nonostante i muscoli bloccati, ha aria a volontà nonostante il respiratore e occhi vispi che guardano al cielo, che sognano, che si fanno speranza. La storia di Paolo Palumbo, ventiduenne malato di Sclerosi laterale amiotrofica, insegna molto sulla capacità di non arrendersi, sulla testardaggine tipica dei sardi, sui sogni che i giovani coltivano senza troppi pensieri. L’alleato di Paolo non è solo la sua famiglia ma anche il Rosario: lo ha cantato al Festival di Sanremo alcune settimane fa, presentando un suo brano. Nel rap: “Io sono Paolo”, interpretato attraverso l’utilizzo di un comunicatore vocale guidato con gli occhi, diceva: “credo e recito il Rosario ed è proprio lui a tenere lontano il mio sicario”.

Il volo di un drone

Ieri in Piazza San Pietro l’incontro con Papa Francesco, al termine dell’udienza generale. Un altro desiderio realizzato per Paolo dopo quello di diventare chef, di guidare un drone, di cantare a Sanremo. Era stato proprio il volo del drone a creare un ponte tra il giovane e il Pontefice. Francesco aveva visto su internet l’impresa del ventiduenne che, grazie ad una speciale applicazione, aveva fatto volare il drone con il solo movimento degli occhi. Così gli aveva inviato un biglietto scritto a mano nel quale confessava di essere rimasto molto colpito dalla sua forza di volontà e dalla sua tenacia. “Prego per te – le parole del Papa - fallo per me. Che il Signore ti benedica e la Madonna ti custodisca. Fraternamente, Francesco”.

L’albero diventato sempre più robusto

Vi trasmetto l’amore che lui ha trasmesso a me”: ha scritto ieri Paolo sui social, raccontando ai suoi followers l’incontro in San Pietro. Toccanti le parole che ha voluto dire al Papa, vengono dal cuore, sono piene di speranza e dell’amore di Dio:

“Negli anni, il seme della fede è germogliato in me diventando l'albero robusto che è ora. La malattia non è stata in grado di fermare le mie preghiere, al contrario le ha alimentate, facendomi comprendere che il disegno di Dio va al di là della nostra immediata comprensione. Io sto iniziando a capirlo, e ciò che sto scoprendo mi dà infinita gioia”

La malattia non ferma le preghiere, queste diventano più forti nell’offerta del proprio silenzio, nell’offerta dei limiti, nell’abbandono che apre alla gioia più vera.

Paolo Palumbo: la vita è veramente bella

A Vatican News, Paolo Palumbo ha voluto affidare un messaggio di fede:

Come dice il finale della mia canzone: credo e recito il Rosario ed è proprio lui a tenere lontano il mio sicario. La fede e la preghiera completano e rendono nulli tutti i drammi. Vorrei dire a tutti gli ascoltatori e a chiunque che la vita è veramente bella e preziosa, che giorno dopo giorno dobbiamo usare il tempo a nostra disposizione per diffondere amore e speranza.


Il fratello: Paolo è la ricchezza della nostra casa

“Ho una madre, un padre che adoro e un fratello che mi presta gambe e braccia e non mi lascia mai da solo”. Nel rap di Sanremo, Paolo Palumbo racconta così la sua famiglia. Suo fratello Rosario, 25 anni, confessa di non sapere cosa, ieri all’udienza generale, Papa Francesco abbia detto a Paolo perché lui tiene queste parole custodite come un dono:


R. – E’ stata un’esperienza incredibile. Siamo arrivati lì molto presto, eravamo tanto emozionati e quando il Papa si è avvicinato non riuscivo a crederci e nemmeno Paolo.

Paolo ha parlato al Papa del seme della fede che è germogliato nella malattia...

R. – Lui è sempre stato un ragazzo di fede. La fede nella nostra famiglia c'è sempre stata. Paolo, da quando sta male, crede, prega sempre di più e si è avvicinato moltissimo a Dio. Negli anni, il suo sogno è sempre stato quello di incontrare il Papa. Non ci possiamo ancora credere.

Che cosa ha rappresentato la malattia nella vostra famiglia? Anche per voi è stato un modo per far crescere la vostra fede?

R. – Sì la malattia ci ha uniti molto anche se siamo sempre stati una famiglia unita. Quando eravamo adolescenti, ognuno di noi stava prendendo giustamente la propria strada. Poi è arrivata la diagnosi come un fulmine a ciel sereno abbiamo dovuto un po' cambiare le direzioni delle nostre vite. Ma non in peggio, è stato un miglioramento perché l’amore ci ha uniti e la fede che già c'era è aumentata. Abbiamo visto la fede in Paolo diventare la sua forza. Insomma queste sono cose che ci hanno segnato profondamente.

Ricevi messaggi da parte di familiari di persone che come Paolo soffrono di Sla?

R. – Noi ogni giorno riceviamo tanti messaggi, i commenti su Facebook, su Instagram, tanti messaggi privati da parte di familiari di malati o anche di malati stessi che ci scrivono e che dicono che Paolo gli dà forza per continuare, per alzarsi ogni giorno. La cosa più importante è che loro danno poi la forza a Paolo. Lui come tantissime altre persone dimostrano che una malattia non deve fermare la vita, che la vita è il più grande dono che abbiamo e che dobbiamo cercare di fare del nostro meglio.

Che cosa ha detto Papa Francesco a Paolo e anche a voi come famiglia?

R. – Il Papa si è avvicinato a Paolo e gli ha detto parole che solo Paolo ha sentito e sta tenendo per lui perché sono un dono grande. A noi ha salutato e ci ha chiesto come è stato il nostro viaggio perché sa che veniamo da un po' lontano rispetto a Roma

Il contatto tra Paolo e Papa Francesco è avvenuto grazie al volo di un drone. Il Papa gli ha scritto un messaggio, è così?

R. – Esattamente. Quando a fine della scorsa estate, Paolo ha avuto il grande onore di essere il primo malato di Sla a pilotare un drone con gli occhi, a distanza ha visto il mondo dall’alto sempre stando in camera. E’ stato bellissimo perché ha fatto volare Paolo e poi Paolo è volato ancora di più quando ha ricevuto questa lettera proprio dal Vaticano, dal Papa. Già quello era un momento assolutamente unico e che si è completato proprio ieri.

Vedi anche il post precedente:


La Quaresima non è tempo di mortificazioni, ma di vivificazioni di P. Alberto Maggi

La Quaresima
non è tempo di mortificazioni,
ma di vivificazioni
di P. Alberto Maggi

Con il mercoledì delle ceneri è iniziata la Quaresima. Per comprendere il significato di questo periodo occorre esaminare la diversa liturgia pre e post-conciliare.
Prima della riforma liturgica, l’imposizione delle ceneri era accompagnata dalle lugubri parole “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”, secondo la maledizione del Signore all’uomo peccatore contenuta nel Libro della Genesi (Gen 3,19). E con questo funereo monito, nel quale è completamente assente la novità dell’annuncio evangelico, iniziava un periodo caratterizzato da penitenze e digiuni, da rinunzie e sacrifici, e dalle mortificazioni, più orientato verso il Venerdì santo che alla Pasqua di Risurrezione. Oggi l’imposizione delle ceneri è accompagnata dall’invito di Gesù “Convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Le prime parole pronunciate dal Cristo secondo il Vangelo di Marco, sono un invito al cambiamento, in un continuo processo di rinnovamento che deve essere il motore della vita del credente. E credere al vangelo significa orientare la propria esistenza al bene dell’altro.

L’uomo non è polvere, e non tornerà polvere, ma è figlio di Dio, e per questo ha una vita di una qualità tale che è chiamata eterna, non tanto per la durata, indefinita, ma per la qualità, indistruttibile, capace di superare la morte, come Gesù ha assicurato: “Se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte”; “Chiunque vive e crede in me, non morirà mai” (Gv 8,51; 11,25).

In queste due diverse impostazioni teologiche sta il significato della Quaresima. Mai Gesù ha invitato a fare penitenza, a mortificarsi, vocaboli assenti nel suo insegnamento, e tanto meno a fare sacrifici. Anzi, ha detto esattamente il contrario: “Misericordia io voglio e non sacrifici” (Mt 9,13; 12,7). Ciò che Dio chiede non è un culto verso lui (sacrificio), ma l’amore verso gli altri (misericordia). I sacrifici e le penitenze centrano l’uomo su se stesso, sulla propria perfezione spirituale, e nulla può essere più pericoloso e letale di questo ingannevole atteggiamento, che illude la persona di avvicinarsi a Dio quando in realtà serve solo ad allontanarla dagli uomini. Paolo di Tarso, che in quanto fanatico fariseo era un convinto assertore di tutte queste devote pratiche, una volta conosciuto Gesù, arriverà a scrivere nella Lettera ai Colossesi che tali atteggiamenti “in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne” (Col 2,23), e per questo non esita a definirli “spazzatura” (Fil 3,8).

La Quaresima pertanto non è tempo di mortificazioni, ma di vivificazioni. Per questo l’azione di Gesù non è quella di abbattere l’albero che non porta frutto, ma di concimarlo per dargli nuovo vigore (Lc 13,8), perché lui non è venuto a spezzare la canna incrinata o a spegnere la fiamma smorta (Mt 12,20), ma a liberare nell’uomo le energie d’amore che sono sopite e fargli scoprire forme inedite, originali e creative di perdono, di generosità e di servizio, che innalzano la qualità del proprio amore per metterlo in sintonia con quello del Vivente, e così sperimentare la Pasqua non solo come pienezza della vita del Risorto ma anche della propria. Così, come i contadini sul finire dell’inverno distribuivano sul terreno le ceneri accumulate nel tempo freddo per dare nuovo vigore alla terra, la Parola del Signore è capace di infondere nuove energie agli uomini.



giovedì 27 febbraio 2020

"Usiamo il pensiero razionale per preservare il bene più prezioso: tessuto sociale e umanità. Altrimenti la «peste» avrà vinto davvero" Lettera agli studenti del prof. Domenico Squillace

"Usiamo il pensiero razionale per preservare il bene più prezioso: 
tessuto sociale e umanità. Altrimenti la «peste» avrà vinto davvero" 
Lettera agli studenti del prof. Domenico Squillace


25.02.2019 - Domenico Squillace, dirigente scolastico del liceo scientifico "Alessandro Volta" di Milano, scrive una lettera ai suoi studenti.





“La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia…..”

Le parole appena citate sono quelle che aprono il capitolo 31 dei Promessi sposi, capitolo che insieme al successivo è interamente dedicato all’epidemia di peste che si abbatté su Milano nel 1630. Si tratta di un testo illuminante e di straordinaria modernità che vi consiglio di leggere con attenzione, specie in questi giorni così confusi. Dentro quelle pagine c’è già tutto, la certezza della pericolosità degli stranieri, lo scontro violento tra le autorità, la ricerca spasmodica del cosiddetto paziente zero, il disprezzo per gli esperti, la caccia agli untori, le voci incontrollate, i rimedi più assurdi, la razzia dei beni di prima necessità, l’emergenza sanitaria…. In quelle pagine vi imbatterete fra l’altro in nomi che sicuramente conoscete frequentando le strade intorno al nostro Liceo che, non dimentichiamolo, sorge al centro di quello che era il lazzaretto di Milano: Ludovico Settala, Alessandro Tadino, Felice Casati per citarne alcuni. Insomma più che dal romanzo del Manzoni quelle parole sembrano sbucate fuori dalle pagine di un giornale di oggi.

Cari ragazzi, niente di nuovo sotto il sole, mi verrebbe da dire, eppure la scuola chiusa mi impone di parlare. La nostra è una di quelle istituzioni che con i suoi ritmi ed i suoi riti segna lo scorrere del tempo e l’ordinato svolgersi del vivere civile, non a caso la chiusura forzata delle scuole è qualcosa cui le autorità ricorrono in casi rari e veramente eccezionali. Non sta a me valutare l’opportunità del provvedimento, non sono un esperto né fingo di esserlo, rispetto e mi fido delle autorità e ne osservo scrupolosamente le indicazioni, quello che voglio però dirvi è di mantenere il sangue freddo, di non lasciarvi trascinare dal delirio collettivo, di continuare - con le dovute precauzioni - a fare una vita normale. Approfittate di queste giornate per fare delle passeggiate, per leggere un buon libro, non c’è alcun motivo - se state bene - di restare chiusi in casa. Non c’è alcun motivo per prendere d’assalto i supermercati e le farmacie, le mascherine lasciatele a chi è malato, servono solo a loro.
La velocità con cui una malattia può spostarsi da un capo all’altro del mondo è figlia del nostro tempo, non esistono muri che le possano fermare, secoli fa si spostavano ugualmente, solo un po’ più lentamente. Uno dei rischi più grandi in vicende del genere, ce lo insegnano Manzoni e forse ancor più Boccaccio, è l’avvelenamento della vita sociale, dei rapporti umani, l’imbarbarimento del vivere civile. L’istinto atavico quando ci si sente minacciati da un nemico invisibile è quello di vederlo ovunque, il pericolo è quello di guardare ad ogni nostro simile come ad una minaccia, come ad un potenziale aggressore. Rispetto alle epidemie del XIV e del XVII secolo noi abbiamo dalla nostra parte la medicina moderna, non è poco credetemi, i suoi progressi, le sue certezze, usiamo il pensiero razionale di cui è figlia per preservare il bene più prezioso che possediamo, il nostro tessuto sociale, la nostra umanità. Se non riusciremo a farlo la peste avrà vinto davvero.

Vi aspetto presto a scuola.
Domenico Squillace

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Papa Francesco: «Siamo polvere nell’universo. Ma siamo la polvere amata da Dio. ... Siamo la terra su cui Dio ha riversato il suo cielo, la polvere che contiene i suoi sogni. Siamo la speranza di Dio, il suo tesoro, la sua gloria. ... Coraggio, siamo nati per essere amati, siamo nati per essere figli di Dio. ... Lasciamoci amare per amare.» Omelia 26/02/2020 (foto, testo e video)

Mercoledì delle Ceneri

Statio e processione penitenziale

Chiesa di Sant’Anselmo




Nel pomeriggio del Mercoledì delle Ceneri, giorno di inizio della Quaresima – ha avuto luogo un’assemblea di preghiera nella forma delle «Stazioni» romane, presieduta dal Santo Padre Francesco.

Alle ore 16.30, nella chiesa di Sant’Anselmo all’Aventino, si è tenuto un momento di preghiera, cui ha fatto seguito la processione penitenziale verso la Basilica di Santa Sabina. Alla processione hanno preso parte i Cardinali, gli Arcivescovi, i Vescovi, i Monaci Benedettini di Sant’Anselmo, i Padri Domenicani di Santa Sabina ed alcuni fedeli.

Al termine della processione, nella Basilica di Santa Sabina, il Santo Padre Francesco ha presieduto la celebrazione dell’Eucarestia con il rito di benedizione e di imposizione delle ceneri.






SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica di Santa Sabina
Mercoledì, 26 febbraio 2020


Iniziamo la Quaresima ricevendo le ceneri: “Ricordati che sei polvere, e in polvere ritornerai” (cfr Gen 3,19). La polvere sul capo ci riporta a terra, ci ricorda che veniamo dalla terra e che in terra torneremo. Siamo cioè deboli, fragili, mortali. Nel corso dei secoli e dei millenni siamo di passaggio, davanti all’immensità delle galassie e dello spazio siamo minuscoli. Siamo polvere nell’universo. Ma siamo la polvere amata da Dio. Il Signore ha amato raccogliere la nostra polvere tra le mani e soffiarvi il suo alito di vita (cfr Gen 2,7). Così siamo polvere preziosa, destinata a vivere per sempre. Siamo la terra su cui Dio ha riversato il suo cielo, la polvere che contiene i suoi sogni. Siamo la speranza di Dio, il suo tesoro, la sua gloria.

La cenere ci ricorda così il percorso della nostra esistenza: dalla polvere alla vita. Siamo polvere, terra, argilla, ma se ci lasciamo plasmare dalle mani di Dio diventiamo una meraviglia. Eppure spesso, soprattutto nelle difficoltà e nella solitudine, vediamo solo la nostra polvere! Ma il Signore ci incoraggia: il poco che siamo ha un valore infinito ai suoi occhi. Coraggio, siamo nati per essere amati, siamo nati per essere figli di Dio.

Cari fratelli e sorelle, all’inizio della Quaresima rendiamoci conto di questo. Perché la Quaresima non è il tempo per riversare sulla gente inutili moralismi, ma per riconoscere che le nostre misere ceneri sono amate da Dio. È tempo di grazia, per accogliere lo sguardo d’amore di Dio su di noi e, così guardati, cambiare vita. Siamo al mondo per camminare dalla cenere alla vita. Allora, non polverizziamo la speranza, non inceneriamo il sogno che Dio ha su di noi. Non cediamo alla rassegnazione. E tu dici: “Come posso aver fiducia? Il mondo va male, la paura dilaga, c’è tanta cattiveria e la società si sta scristianizzando…”. Ma non credi che Dio può trasformare la nostra polvere in gloria?

La cenere che riceviamo sul capo scuote i pensieri che abbiamo in testa. Ci ricorda che noi, figli di Dio, non possiamo vivere per inseguire la polvere che svanisce. Una domanda può scenderci dalla testa al cuore: “Io, per che cosa vivo?”. Se vivo per le cose del mondo che passano, torno alla polvere, rinnego quello che Dio ha fatto in me. Se vivo solo per portare a casa un po’ di soldi e divertirmi, per cercare un po’ di prestigio, fare un po’ di carriera, vivo di polvere. Se giudico male la vita solo perché non sono tenuto in sufficiente considerazione o non ricevo dagli altri quello che credo di meritare, resto ancora a guardare la polvere.

Non siamo al mondo per questo. Valiamo molto di più, viviamo per molto di più: per realizzare il sogno di Dio, per amare. La cenere si posa sulle nostre teste perché nei cuori si accenda il fuoco dell’amore. Perché siamo cittadini del cielo e l’amore a Dio e al prossimo è il passaporto per il cielo, è il nostro passaporto. I beni terreni che possediamo non ci serviranno, sono polvere che svanisce, ma l’amore che doniamo – in famiglia, al lavoro, nella Chiesa, nel mondo – ci salverà, resterà per sempre.

La cenere che riceviamo ci ricorda un secondo percorso, quello contrario, quello che va dalla vita alla polvere. Ci guardiamo attorno e vediamo polveri di morte. Vite ridotte in cenere. Macerie, distruzione, guerra. Vite di piccoli innocenti non accolti, vite di poveri rifiutati, vite di anziani scartati. Continuiamo a distruggerci, a farci tornare in polvere. E quanta polvere c’è nelle nostre relazioni! Guardiamo in casa nostra, nelle famiglie: quanti litigi, quanta incapacità di disinnescare i conflitti, quanta fatica a chiedere scusa, a perdonare, a ricominciare, mentre con tanta facilità reclamiamo i nostri spazi e i nostri diritti! C’è tanta polvere che sporca l’amore e abbruttisce la vita. Anche nella Chiesa, la casa di Dio, abbiamo lasciato depositare tanta polvere, la polvere della mondanità.

E guardiamoci dentro, nel cuore: quante volte soffochiamo il fuoco di Dio con la cenere dell’ipocrisia! L’ipocrisia: è la sporcizia che Gesù chiede di rimuovere oggi nel Vangelo. Infatti, il Signore non dice solo di compiere opere di carità, di pregare e di digiunare, ma di fare tutto questo senza finzioni, senza doppiezze, senza ipocrisia (cfr Mt 6,2.5.16). Quante volte, invece, facciamo qualcosa solo per essere approvati, per il nostro ritorno di immagine, per il nostro ego! Quante volte ci proclamiamo cristiani e nel cuore cediamo senza problemi alle passioni che ci rendono schiavi! Quante volte predichiamo una cosa e ne facciamo un’altra! Quante volte ci mostriamo buoni fuori e coviamo rancori dentro! Quanta doppiezza abbiamo nel cuore... È polvere che sporca, cenere che soffoca il fuoco dell’amore.

Abbiamo bisogno di pulizia dalla polvere che si deposita sul cuore. Come fare? Ci aiuta il richiamo accorato di san Paolo nella seconda Lettura: «Lasciatevi riconciliare con Dio!». Paolo non lo chiede, lo supplica: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio». (2 Cor 5,20). Noi avremmo detto: “Riconciliatevi con Dio!”. Invece no, utilizza il passivo: lasciatevi riconciliare. Perché la santità non è attività nostra, è grazia! Perché da soli non siamo capaci di togliere la polvere che ci sporca il cuore. Perché solo Gesù, che conosce e ama il nostro cuore, può guarirlo. La Quaresima è tempo di guarigione.

Che cosa fare dunque? Nel cammino verso la Pasqua possiamo compiere due passaggi: il primo, dalla polvere alla vita, dalla nostra umanità fragile all’umanità di Gesù, che ci guarisce. Possiamo metterci davanti al Crocifisso, stare lì, guardare e ripetere: “Gesù, tu mi ami, trasformami… Gesù, tu mi ami, trasformami…”. E dopo aver accolto il suo amore, dopo aver pianto davanti a questo amore, il secondo passaggio, per non ricadere dalla vita alla polvere. Si va a ricevere il perdono di Dio, nella Confessione, perché lì il fuoco dell’amore di Dio consuma la cenere del nostro peccato. L’abbraccio del Padre nella Confessione ci rinnova dentro, ci pulisce il cuore. Lasciamoci riconciliare per vivere come figli amati, come peccatori perdonati, come malati risanati, come viandanti accompagnati. Lasciamoci amare per amare. Lasciamoci rialzare, per camminare verso la meta, la Pasqua. Avremo la gioia di scoprire che Dio ci risuscita dalle nostre ceneri.

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Il virus che ci fa guardare allo specchio di Giuseppe Savagnone

Il virus che ci fa guardare allo specchio
di Giuseppe Savagnone


Le patologie del corpo e quelle dell’anima

L’assurgere del coronavirus a protagonista quasi esclusivo della vita del nostro Paese non è solo un fenomeno che riguarda la sfera della salute fisica, ma sta mettendo in luce patologie che si annidano a un livello più profondo, quello dell’anima degli italiani, e che dovrebbero preoccuparci non meno dell’allarme sanitario.

Il virus come strumento di polemica partitica…

Una prima patologia è il clima di esasperata conflittualità politica che ha reso impossibile, perfino in questo momento di emergenza nazionale, una risposta solidale alla sfida del virus. Una parte dell’opposizione – quella che fa capo alla Lega – sembra concentrare in questi giorni la propria attenzione, più che sull’epidemia, sulle vere o presunte responsabilità del governo, trasformando lo stato di calamità nazionale in uno strumento per delegittimare il premier e giungere, come ha sempre sperato, a nuove elezioni.

Per averne un saggio, basta leggere i titoli di prima pagina di alcuni quotidiani, portavoce abituali di questa destra politica, dove, a differenza di quelli delle altre testate, volti a informare sulla gravità della situazione e sulle misure prese per fronteggiarla, si pensa ad attaccare l’esecutivo.

… invece che come sfida che crea solidarietà

Ora, sono personalmente convinto (come molti altri) che, nella gestione dell’emergenza, si siano fatti alcuni errori – per esempio quello di bloccare i voli diretti con la Cina, rendendo così impossibile monitorare i viaggiatori provenienti da là e che sono giunti egualmente in Italia attraverso altri scali. Ma forse in questo momento sarebbe stato il caso di accantonare i propri rancori di parte e puntare, per una volta, sulla solidarietà nazionale. Tanto più che un indebolimento o addirittura le dimissioni del governo, in questa delicatissima congiuntura, avrebbero come unico effetto quello di consegnare il Paese al caos.

La soluzione è difendere le frontiere?

Una seconda patologia è l’ostinazione nell’attribuire la causa dei mali italiani alla mancata difesa delle frontiere. Alcuni giornali hanno legato l’accoglienza all’arrivo del contagio in Italia. Cosa che riprende la polemica del leader della Lega, Salvini, che in diversi interventi pubblici di questi giorni ha collegato il problema della diffusione del coronavirus a quello, da sempre centrale nella sua battaglia politica, della difesa delle frontiere dai migranti.

Citiamo alcuni di questi interventi: «Governo ha sottovalutato coronavirus, far sbarcare migranti ora è irresponsabile». «Forse ora qualcuno avrà capito che è necessario chiudere, controllare, blindare, bloccare, proteggere?». «Blindiamo e sigilliamo i confini».

Ma quali frontiere?

In realtà, proprio la diffusione del coronavirus sta evidenziando in modo irrefutabile l’impossibilità, nel mondo globalizzato, di “blindare e sigillare i confini”. Uno slogan fallace anche quando Salvini faceva il braccio di ferro con Carola Rakete, mentre centinaia di migranti, fuori dal raggio dei riflettori, sbarcavano sulle nostre spiagge dai barconi.

Adesso l’idea di chiudere le frontiere è resa ancora più assurda per il fatto che non si sa più quali siano queste frontiere. Quelle con l’Africa, ancora tenacemente evocate dal leader della Lega, non c’entrano nulla con l’epidemia in corso, che sicuramente non è venuta da là. E non ne abbiamo in comune con la Cina. L’unico blocco possibile, quello dei voli diretti, è stato probabilmente, come si diceva un errore, perché ha reso incontrollabile il flusso di coloro che venivano da quel Paese. E certo Salvini non pretende che «blindiamo» i nostri confini chiudendoci al mondo intero, perché una tale misura sarebbe, per l’Italia come per chiunque altro, un suicidio economico (si pensi al turismo, agli scambi commerciali…) .

Il virus è tra noi

Non c’è dunque nessuna frontiera da chiudere. Tanto più che il virus che ci aggredisce non ha nazionalità e non ha bisogno di chiedere nessun permesso di soggiorno, perché, quale che sia stata la sua originaria provenienza, sono degli italiani a esserne portatori, e non lo hanno preso in Cina, ma al bar sotto casa loro. La netta contrapposizione fra “noi di dentro” e “gli altri di fuori”, che è stata il leit motiv della campagna sull’opinione pubblica italiana in questi ultimi due anni, naufraga miseramente in una situazione in cui la minaccia può venire anche dal nostro vicino di casa.

Il virus come attentato alla sicurezza

Una terza patologia che il coronavirus sta rivelando è la fragilità di una popolazione italiana invecchiata, che da troppo tempo ha assunto come valore fondamentale la sicurezza e che teme sopra ogni altra cosa il rischio (quello della morte, ma anche quello della vita: vedi calo drammatico delle nascite). Da qui la diffidenza verso chi è “diverso”. Da qui il panico che si è impadronito del Paese davanti a questo virus “straniero”, sconosciuto, subito demonizzato come una nuova peste.

Il disaccordo tra gli scienziati

Non ho nulla contro il virologo Burioni, ma al posto suo avrei evitato, almeno per ovvi motivi psicologici, di paragonare la mortalità potenziale del Covid-19 a quella dell’influenza spagnola, che tra il 1918 e il 1920 fece milioni di vittime in tutto il mondo.

Non sono in grado di dare una valutazione sulla fondatezza di questa sua affermazione. Ma prendo atto che scienziati altrettanto autorevoli vedono la situazione in modo molto diverso. È il caso di Maria Rita Gismondo, virologa responsabile del laboratorio dell’ospedale Sacco di Milano: «A me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così. Guardate i numeri (…). Non è pandemia! Durante la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno! Per coronavirus 1!».

Anche un’altra illustre virologa italiana, Ilaria Capua, che negli Stati Uniti dirige il One Health Center of Excellence della University of Florida, intervistata da Lucia Annunziata, ha sostenuto che quella in atto è «una sindrome simil-influenzale» che potrebbe durare «fino a primavera inoltrata o prima dell’estate». E ha espresso la sua convinzione «che il virus farà il giro del mondo in tempi abbastanza rapidi, perché siamo tanti e il virus troverà tanti corpi, come batterie. Ma non vuol dire che ci saranno forme gravi, anzi molto probabilmente sarà sempre più debole».

Un giudizio che francamente non si presta a paralleli con la micidiale “spagnola”. E che di sicuro non autorizzerebbe le scene di panico collettivo a cui stiamo assistendo in questi giorni. Chi ha ragione? Le autorità fanno bene a prendere le misure più severe, tenendo conto delle peggiori eventualità, ma il loro invito alla calma andrebbe preso più sul serio.

Il virus ci costringe a vedere la nostra finitezza

Il punto è – e questa è forse la patologia più insidiosa, tra quelle messe in evidenza dal coronavirus – che l’individuo della società industrializzata e consumistica, inebriato e stordito dal suo frenetico attivismo, stenta ad accettare i limiti che derivano dalla sua strutturale finitezza. Anche se ci siamo ormai da tempo lasciati alle spalle le filosofie ottocentesche che esaltavano il Soggetto, mettendolo al posto di Dio, la maggior parte vive tenendo il più possibile lontano dal proprio sguardo l’ineluttabile realtà della sofferenza, della malattia e della morte. Come ha scritto Pascal, «gli uomini, non avendo potuto guarire la morte (…), hanno deciso di non pensarci per rendersi felici». E d’altronde, ci siamo costruiti un tipo di vita in cui non c’è il tempo di pensare ad altro che alle scadenze immediate.

Questa anestesia collettiva ora viene messa in crisi. Per quanto possa essere ridotto, di fatto, l’effetto letale del coronavirus, nell’immaginario collettivo un’epidemia richiama sempre, inevitabilmente, la precarietà della vita e la possibilità angosciosa della morte. È questa angoscia che si annida sordamente al fondo del panico diffuso.

Una finestra sulla vita

Eppure, proprio perché ci costringe a fermarci e a riflettere, l’epidemia in corso, con i suoi tantissimi aspetti negativi, può anche essere l’occasione di una guarigione dalla superficialità a cui la fretta spesso ci costringe. E questa presa di coscienza non è necessariamente motivo di disperazione. La finitezza e la vulnerabilità non sono di per sé una maledizione. Se accettate, esse possono costituire, come ha detto qualcuno, «una finestra sulla vita», un modo per viverla più intensamente.

Unirci a quelli che fanno la loro parte

Forse dobbiamo a un virus l’occasione di guardarci allo specchio e di prendere coscienza dei nostri demoni. Senza dimenticare che questo specchio ci rimanda anche il volto di tanti che si stanno sforzando, in questi giorni, di fare, con serietà e con coraggio, il possibile e qualche volta l’impossibile per contribuire al bene comune. Ma il modo migliore per onorarli non è di tessere il loro elogio, bensì di imitarli come possiamo, facendo umilmente ciascuno la propria parte.