lunedì 23 dicembre 2019

Nei miei panni – Novena di Natale a cura di Antonio Savone (VIII giorno)

Novena di Natale
a cura di Antonio Savone
VIII giorno
Nei miei panni 


Se questa notte ci è stato narrato un evento, oggi la liturgia ci aiuta a cogliere il senso di esso nella nostra vita. E lo fa attraverso una delle pagine del vangelo più altamente evocativa.

“E il verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Forse neppure ci rendiamo più conto di cosa voglia esprimere una tale affermazione: Dio, il Tre volte santo, Colui che i cieli non possono contenere, Colui che l’uomo non può vedere e restare in vita, Colui che con la sua potenza ha dispiegato l’alternarsi dei tempi e delle stagioni, Colui il cui alito di vita ha dato origine all’universo, entra nella storia assumendo dell’uomo la sua condizione di fragilità, di limite, di vulnerabilità. L’Onnipotente nell’Infinitamente piccolo: da non credere!

Vi è mai capitato di condividere con qualcuno la vostra personale situazione e, ad un tratto, per fargli capire meglio che stavate attraversando, di proporgli: “Prova a metterti nei miei panni?”. Bene: è proprio ciò che accade nel mistero del Natale. Dio nei panni dell’uomo: “Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato” (GS 22).

Ma per comprendere appieno il senso del Natale, dopo aver sostato dinanzi al presepe, è necessario scostarsi un po’ per comprendere che la nascita nella notte non è solo l’occasione per uno sterile sentimentalismo. Noi, infatti, non celebriamo il Natale per far finta – fosse solo per un attimo – che tutto sia roseo e che la dimensione della fatica sia svanita dal nostro orizzonte. Quel Bambino, infatti, non è rimasto tale: il Vangelo non tarda a riportare che “cresceva in sapienza, età e grazia, davanti a Dio e agli uomini”.

Caro salutis cardo: ecco cosa crede la nostra fede. Crede che perché una realtà possa essere riscattata, giungere a pienezza, non c’è altra strada che la concretezza fisica. Per questo Dio ha sempre visitato il suo popolo mediante segni tangibili e, da ultimo, mediante il segno per eccellenza, l’umanità del Figlio suo.

“Il Verbo si è fatto carne…”, cioè si è sottomesso a una ben precisa dinamica familiare che, sebbene fosse composta da Maria e Giuseppe, ha conosciuto anch’essa lo smarrimento e l’incomprensione.

“Il Verbo si è fatto carne…”, cioè ha fatto suo il silenzio e il nascondimento di un comunissimo villaggio di Galilea assaporando gli umori e i dissapori di una comunità.

“Il Verbo si è fatto carne…”, cioè ha dovuto rivendicare la superiorità del Padre suo nei confronti dei dottori della Legge e persino nei confronti dei suoi genitori.

“Il Verbo si è fatto carne…”, un giorno ha dovuto lasciare il suo habitat e avventurarsi in un percorso che, se all’inizio conoscerà l’entusiasmo del riconoscimento e dell’accoglienza, ben presto non gli risparmierà la riprovazione e il fallimento.

“Il Verbo si è fatto carne…”, cioè ha dovuto misurarsi con l’alternativa seducente e illusoria di colui che continuamente tenterà di dissociarlo dal Padre suo.

“Il Verbo si è fatto carne…”, cioè ha avuto bisogno di amici, di uomini e donne con cui confidarsi e presso la cui casa rifugiarsi.

“Il Verbo si è fatto carne…”, cioè si è fatto mani per alleviare le sofferenze di quanti incrociava sul suo cammino.

“Il Verbo si è fatto carne…”, cioè si è fatto attenzione e cura verso chi portava sulla sua pelle il marcio della disperazione e della sofferenza.

“Il Verbo si è fatto carne…”, cioè ha conosciuto sulla sua pelle persino l’incomprensione delle folle e pure quella di coloro che aveva chiamato con sé.

“Il Verbo si è fatto carne…”, cioè ha sperimentato come gli uomini fanno in fretta ad entusiasmarsi e altrettanto in fretta a dimenticare ciò che avevano promesso in un impeto di entusiasmo.

“Il Verbo si è fatto carne…”, cioè ha persino invocato il conforto di una compagnia nella notte in cui tutto gli stava precipitando addosso.

“Il Verbo si è fatto carne…”: ha conosciuto l’amaro calice del rinnegamento di chi egli stesso aveva annoverato tra i suoi amici più stretti.

“Il Verbo si è fatto carne…”, quella sua vicenda che ha inizio in uno sperduto villaggio di Galilea, termina fuori dalle mura della città come l’ultimo dei malfattori.

“Il Verbo si è fatto carne…”. E adesso?

Mia è la sua figliolanza divina.
Mia la sua bellezza.
Mia la sua gloria.
Mio il Padre suo.
Mia la Madre sua.
Miei i suoi meriti.
Mia la sua passione.
(fonte: A casa di Cornelio)