venerdì 6 dicembre 2019

DA SAN NICOLA A SANTA LUCIA. QUANDO LE LETTERINE DI NATALE NON ANDAVANO AL POLO NORD


DA SAN NICOLA A SANTA LUCIA. 
QUANDO LE LETTERINE DI NATALE NON ANDAVANO AL POLO NORD

Da San Nicola a Santa Lucia, passando per i Morti e Gesù Bambino. Viaggio nella tradizione italiana dei doni ai bambini, prima e nonostante la globalizzazione di Babbo Natale.


La pubblicità, con la sua invasione di barbe bianche e costumi rossi, sta premendo per la globalizzazione della tradizione natalizia, ma in Italia ci sono ancora bambini che si sono alzati a scartare regali il 6 dicembre, giorno di San Nicola: non solo baresi, come si potrebbe pensare (laggiù il patrono San Nicola contende la distribuzione a Gesù Bambino e non dappertutto la spunta), ma veneti, trentini, giuliani, bambini che, nati sulla riva sinistra del Piave, subendo l’influenza nordica, espongono scarpe, nella notte tra il 5 e il 6 dicembre pronte a raccogliere i doni lasciati dal loro personalissimo munifico san Niccolò, non ancora Santa Claus, e attivo su un territorio che contende la competenza a Santa Lucia e a Babbo Natale. 

L’uso di far trovare doni ai bambini durante le feste, con un calendario che si dipana diverso secondo i luoghi, ha radici lontane: lo si fa in parte risalire al racconto evangelico e, in particolare, all’episodio dei Magi che portarono doni a Gesù Bambino, in parte a tradizioni precristiane, che starebbero alla base degli intrecci di tante leggende popolari che nei racconti folclorici si sono intrecciate a formare mitologie cui anche gli sgamatissimi bambini del 2016 amano credere, e se non proprio credere seguire, cullandosi nella favola.

Ha sicure radici precristiane la Befana, ancorata nella notte dei tempi alle divinità pagane che propiziavano il raccolto, i cui fantocci venivano bruciati a fine anno in segno di fine e nuovo inizio del ciclo di madre natura, tradizione di cui è rimasta traccia recente nelle campagne del Nord Est in cui ancora si brucia la vècia o la strìa, che a dispetto delle apparenze nulla ha a che fare, a quel che dicono gli storici, con il triste destino delle streghe presunte sui roghi nei secoli bui, ma ha valenza propiziatoria per il buon esito del lavoro della campagna nell’anno a venire. 

Il nome attuale della vecchina che viaggia sul manico di scopa (in origine un ramo), a dispensare regali ai bambini laziali (e non solo) ha certo radici nella festa cristiana dell’epifanìa, di qui il suo nome storpiato dall’etimologia popolare, sulla cui data del calendario liturgico la vecchietta che vien di notte si è innestata, non senza qualche soccorso leggendario per conciliarla, senza troppi traumi, con l’origine precristiana. Si è diffusa infatti, nel basso medioevo, una leggenda secondo cui i Magi in cerca di Gesù bambino si sarebbero smarriti lungo la strada. Fermatisi a chiedere a una vecchia avrebbero avuto da lei informazioni ma non la disponibilità ad accompagnarli. Pentitasi del diniego la vecchietta avrebbe poi provveduto a preparare un cesto di dolci intenzionata a raggiungerli. Troppo tardi. Non avendo più trovato né loro né Gesù Bambino avrebbe cominciato a distribuire i dolci a tutti i bambini lungo la sua strada nella speranza che uno di loro fosse quello giusto. A quel che se sa tra il 5 e 6 gennaio sarà di nuovo in volo nella speranza di farsi perdonare. 

Le sono fedelissimi da antica tradizione i bambini romani, che non mancano mai la calza sul camino o alla finestra e neppure la colazione per l’anziana, sanguigna signora che si dice preferisca pane e mezzo bicchiere di rosso al più scialbo latte e biscotti gradito al Babbo Natale sedotto dalla pubblicità, mentre la scopa a differenza delle renne non ha bisogno neppure di un bicchiere d’acqua.

Se verso Sud a contendere territorio alla Befana, attesa anche a Napoli, o se si preferisce a soccorrerla nella sua fatica di accontentare i pargoli, concorrono Gesù Bambino e San Nicola, verso la Puglia, in Sicilia la precedono i Morti nella notte tra l’uno e il 2 novembre.

Mentre verso il centro s’è fatto strada, erodendole terreno in tempo di guerra, anche Babbo Natale: Francesco Guccini, nel suo racconto Qualcosa di divertente sul Natale, racconta così l’incontro avuto, quattrenne, con il vegliardo rossovestito per tramite degli alleati sull’Appennino tosco-emiliano: «I soldati americani avevano organizzato per la serata una specie di festa per i bambini del paese, con un Babbo Natale in persona che distribuiva leccornìe e dovizie. Ovvio che questo personaggio non solo non l’avevo mai visto dal vivo ma non ne avevo nemmeno mai sentito parlare, funzionando, dalle nostre parti, solo una più proletaria Befana, che arrivava la notte del 6 gennaio, e distribuiva un panforte, curiosamente dello stesso tipo che una mia zia vendeva in negozio, un massimo di tre mandarini, alcune arachidi e noci e riga, hai voglia a mettere calze di dimensioni le più generose».

Salendo a Nord la calza tende a scomparire: tradizione vuole che prima del Santa Claus globalizzato, a spartirsi l’ampio territorio lasciato libero dal marginale San Niccolò fossero Babbo Natale, a est, Santa Lucia a cavallo tra Cremona, Lodi, Brescia, Bergamo, Mantova, Parma, Piacenza, Reggio Emilia, con punte a Verona e nell’udinese, e a Ovest, verso il Piemonte, Gesù Bambino.

Se per il bambinello bastava aspettare, non svegli, avendo avuto cura di comportarsi bene, Santa Lucia, figlia come la Befana di una tradizione rurale in cui al solstizio chi aveva avuto raccolti migliori donava ai meno fortunati, chiedeva un rituale dell’attesa destinato a sopravvivere, magico, nella memoria, persino più fascinoso del dono che ne sarebbe sortito. Il campanello che, suonato da un nonno nascosto in giardino o in balcone, indicava l’ora di filare a nanna senza indugi, pena l’essere sorpresi svegli e depennati dalla lista; la farina gialla e l’acqua che l’asinello di Santa Lucia avrebbe mangiato per rifocillarsi e che si sarebbe trovato sparpagliato con gran disordine al mattino in segno di gradimento. Lì accanto si sarebbe trovato il dono atteso e un piatto di dolci: tra cui, da quando l’industria dolciaria e l’economia di famiglia l’hanno permesso, monete di cioccolata e carboni di zucchero, a metà tra lo scherzo e il memento dei neri carboni veri che si sarebbero potuti meritare in caso di eccessiva monelleria.

Allora come ora si sa che le leggende restano perché è bello crederle, che il compito più arduo nel farle vivere l’hanno i genitori con figli nati a cavallo dei territori di diversa competenza, dove servono acrobazie maggiori per conciliare babbi, befane, santi e bambini senza rompere l’incantesimo, mentre i pargoli di solito, furbetti, in questi casi, colgono l’occasione per cumulare i doni, approfittando della linea di confine tra i leggendari donatori.

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