sabato 31 agosto 2019

"La tavola, luogo di finzione o di comunione?" di Enzo Bianchi - XXII domenica T.O. – Anno C

La tavola, luogo di finzione o di comunione? 

Commento
 XXII domenica T.O.  – Anno C

Letture: Siracide 3,19-21.30.31; Salmo 67; Lettera agli Ebrei 12,18-19.22-24a; Luca 14,1.7-14


In quel tempo, Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: «Cedigli il posto!». Allora dovrai con vergogna occupare l'ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va' a metterti all'ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: «Amico, vieni più avanti!». Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l'aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch'essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

Sempre durante il viaggio verso Gerusalemme Gesù è avvertito che Erode vuole ucciderlo, quindi è invitato a fuggire. Ma egli non scappa, anzi manda a dirgli che ciò che deve fare lo fa con parrhesía, con franchezza, obbedendo alla volontà del Padre, fino a quando porterà a compimento la sua opera (cf. Lc 13,31-33). Per Gesù Erode è solo una “volpe”, un impuro che egli durante la passione non degnerà neppure di uno sguardo, rimanendo muto davanti a lui, senza rispondere alle sue domande (cf. Lc 23,8-9).

Gesù non fugge, ma compie il suo cammino incurante delle minacce di Erode, e in giorno di sabato, invitato a pranzo da uno dei capi dei farisei, accetta di entrare nella sua casa. Gesù era diventato un rabbi molto noto ed era dunque frequentemente invitato, spesso dopo la sua predicazione in sinagoga, alla tavola di qualche notabile (cf. Lc 7,36; 11,37). Questo capo della sinagoga e gli altri scribi e farisei che invitavano Gesù volevano forse onorarlo? Volevano discutere con lui a proposito dell’interpretazione della Legge? Volevano esaminarlo, metterlo alla prova (cf. Lc 10,25)? Luca annota che, nel caso presente, stavano a osservare il suo comportamento.

Ed ecco che davanti a Gesù c’è un uomo malato di idropisia (cf. Lc 14,2), dunque – secondo l’opinione religiosa del tempo – qualcuno colpito da Dio a causa di un grave peccato commesso, relativo alla sessualità. È sabato, il giorno del Signore, giorno della vita piena, del trionfo della vita sulla malattia e sulla morte: Gesù sente dunque in sé il bisogno di liberare quest’uomo da una malattia invalidante e infamante. Egli sa che sarà contestato, perché agli occhi dei dottori della Legge e dei farisei, quella da lui compiuta apparirà come un’operazione medica, vietata di sabato. Pone dunque una domanda ai suoi interlocutori, costringendoli a uscire allo scoperto: “È lecito o no curare di sabato?” (Lc 14,3). Ma costoro non rispondono, e allora Gesù prende per mano quel malato, lo guarisce e lo congeda (cf. Lc 14,4). Di fronte a questo gesto e alla successiva domanda, ecco calare ancora un silenzio imbarazzato (cf. Lc 14,5-6).

Solo Gesù, sempre attento e vigilante su ciò che gli accade intorno, prende di nuovo la parola. Vede che gli invitati a tavola cercano il primo posto, come sempre, il posto di chi viene onorato dal padrone, quello riservato a chi è ragguardevole, importante. Succede così ancora oggi, nei banchetti solenni: in attesa che il pasto abbia inizio, i presenti sbirciano dove sia il posto dell’invitante e con occhio vorace individuano la sedia più vicina a lui, lanciandosi su di essa come su di una preda. Per questo in certi pranzi o l’invitante indica i posti da prendere a tavola oppure essi sono segnalati da cartoncini posti accanto al piatto…

Vista questa situazione, Gesù dà un insegnamento che mette in guardia dal protagonismo e dall’esibizionismo di chi cerca i primi posti. Lo fa attraverso una parabola, che leggiamo ancora una volta, parafrasandola. Quando tu, lettore del vangelo, sei invitato a un banchetto, a una festa, non puntare a occupare il primo posto, cioè non crederti un ospite importante e più degno di altri di stare accanto a chi ha convocato la festa, perché in tal caso rischi di essere chiamato a lasciare il posto a un altro invitato più degno di te. È questione di modestia, di non avere un super-io che ti acceca e ti fa credere di valere più di altri. Sarebbe vergognoso che tu fossi costretto a retrocedere davanti a tutti, facendo così emergere la tua indegnità, la pretesa della tua importanza. Resta invece modesto, vicino agli ultimi posti, non sopravvalutarti, e allora forse accadrà che chi ti ha invitato venga a dirti: “Amico, vieni più avanti, più vicino a me!”. Così apparirà a tutti i commensali la tua reale importanza agli occhi del padrone di casa.

Certo, queste parole di Gesù rischiano di essere intese come un invito a una falsa umiltà, quella di chi si serve anche della scelta dell’ultimo posto a tavola, desiderando nel suo cuore di essere fatto avanzare e così di essere esaltato davanti a tutti. Ma l’intenzione di Gesù, attraverso questa parabola, è quella espressa nel suo detto conclusivo: “Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”. Sì, solo chi viene umiliato può essere realmente umile: guai invece a fingere umiltà in vista dell’esaltazione! Qui più che mai si tratta di impedire a noi stessi di adottare strategie o tattiche. È come se Gesù dicesse a ciascuno di noi: “Sta’ in fondo con modestia, senza atteggiamenti di piccolezza forzata, e soprattutto non desiderare ciò che non dipende da te”.

Semplicità, discrezione, disinteresse devono far parte dello stile di un uomo, di un cristiano, e solo così la festa potrà essere vissuta in modo autentico e non come una scena, un’occasione di apparire. Ciò che uno “è”, non va temuto; ciò che non è, anche se accade, è solo scena. Solo chi si umilia sarà esaltato, chi invece cerca di essere umile e appare tale senza essere umiliato, è semplicemente perverso, creatore di una scena che passa (cf. 1Cor 7,31). La festa si può vivere restando al proprio posto e non cercando di rubarlo agli altri. E ciò vale in qualsiasi comunità: stare al proprio posto senza ambire a posti più alti, senza cercare posti tenuti dagli altri, può essere faticoso ma è secondo “il pensiero di Gesù”, è evangelico e contribuisce alla vera costruzione della comunità. Ognuno dunque stia al proprio posto, valutando se stesso secondo la grazia e i doni ricevuti dal Signore (cf. Rm 12,3-6a), perché chi si sopravvaluta cadrà da più in alto, in modo disastroso per sé e per gli altri. Cristo resta l’esempio di questa umiltà, lui che, venuto tra di noi, ha preso l’ultimo posto, davvero l’ultimo, che nessuno potrà rapirgli!

Poi Luca aggiunge un’altra esortazione di Gesù, non più sugli invitati, ma su chi invita a un pasto, a un banchetto: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché non si sentano costretti a ricambiare l’invito”. Triste constatazione questa di Gesù, capace di far emergere il ragionamento di molti che, senza consapevolezza, dicono: “Siccome ci hanno invitati da loro, adesso tocca a noi”, secondo una logica dello scambio utilitaristico che nega ogni gratuità. Diciamo la verità: anche oggi, anzi oggi più che in passato, avviene proprio così, e non siamo più capaci di gratuità, invitare gli altri a casa nostra, perché l’idolo della reciprocità e dell’interesse ci domina. Purtroppo invitiamo qualcuno calcolando quante volte siamo stati a nostra volta invitati da lui, e solo per ragioni che ci assicurano un interesse e un tornaconto.

Gesù invece ci avverte: il pranzo o la cena di festa sono tali solo quando sono offerti gratuitamente, senza attendersi un contraccambio. Per questo, soprattutto nella comunità cristiana, occorre apprestare la tavola invitando quelli che nessuno invita perché non possono ricambiare, anche quando invitarli non procura onore o decoro. Poveri, storpi, zoppi, ciechi, stranieri, bisognosi (tutte categorie di persone che al tempo di Gesù erano escluse dal tempio, ritenute indegne e colpite da ignominia) devono poter accedere alla nostra tavola; se ne sono esclusi, la nostra non è una tavola secondo il Vangelo, che chiede la condivisione del cibo, l’accoglienza di chi è povero e ultimo, scartato dalla società. La beatitudine che Gesù riserva colui che vita e ospita è destinata alle persone capaci di gratuità: a quelli che, non ricevendo ricompensa ora dagli invitati, la riceveranno da Dio stesso!

E non si dimentichi che i pranzi aperti ai poveri, ai mendicanti d’amore, ai peccatori, sono quelli a cui partecipava Gesù e che egli ha imbandito nella sua vita. Anche l’eucaristia che celebriamo, se è aperta solo a quelli che si sentono degni e giusti, mentre esclude i poveri e i peccatori perdonati, non è l’eucaristia di Cristo, ma una “nostra” eucaristia: un banchetto religioso ma mondano, non secondo la logica del Vangelo! Sì, il banchetto eucaristico è imbandito dal Signore, il quale chiama tutti, anche quelli che si reputano indegni, perché non è il peccato che si oppone alla salvezza ma il ritenersi “degni”, muniti di una giustizia personale: questo impedisce la comunione con Dio e con i fratelli e le sorelle.


L’umanità del B. Tito Brandsma nel lager nazista a cura di p. Alberto Neglia, carmelitano (VIDEO INTEGRALE)

L’umanità del B. Tito Brandsma 
nel lager nazista 
a cura di p. Alberto Neglia, 
Carmelitano 
(VIDEO INTEGRALE)




Relazione tenuta il 7 agosto 2019
nell'ambito della 
Settimana di Spiritualità
RESTIAMO UMANI
promossa dalla
Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto



Tito Brandsma è un frate carmelitano olandese, nato nel 1881, entra fra i Carmelitani nel 1898 ...

Dai suoi scritti e dalle testimonianza di chi lo ha conosciuto si evince che tutti i suoi impegni, nei quali ha manifestato sempre una profonda umanità, trovano la fonte nella sua esperienza vitale con il Dio Vivente.
In un discorso nel 1932 ricordava con chiarezza: "Dio deve manifestarsi nella nostra vita esprimersi nelle nostre parole e nei nostri gesti, irraggiare da tutto il nostro essere e da tutto il nostro agire "

"Servire i fratelli ci è richiesto proprio dalla nostra unione con Dio"
Per p. Tito, quindi, il mistico è l'uomo più umano, è colui che si immerge più profondamente nella storia e si impegna ad aprirla a un orizzonte di salvezza per tutti.
 Abitato da questo amore che gli conferisce una profonda libertà interiore, p. Tito va incontro alla situazione storica del suo tempo col desiderio di affermare "il valore della persona umana nell'ordine naturale e soprannaturale"

DI FRONTE ALLA BRUTALITA' DEL NAZISMO

Egli vive in Olanda, ma dalla vicina Germania gli giungono presto voci e prove della brutalità concreta del nazionalsocialismo ... e la sua posizione diviene più critica dopo la brutale invasione dell'Olanda  da parte delle truppe tedesche ... sebbene conosca bene l'arroganza dell'invasore, l'impatto disumanizzante dell'ideologia nazista e la volontà omicida del dittatore e dei suoi collaboratori - non intende esserne impaurito  o assumere atteggiamenti servili, piuttosto  con parresia continua a prendere posizione in difesa degli ebrei, della libertà del popolo olandese e dell'autonomia della Chiesa di fronte alla prepotenza dell'oppressore. 
... l'azione che determina l'arresto e la condanna di p. Tito  è senz'altro il suo impegno in difesa della libertà di stampa. P. Tito da molti anni ormai, scrive settimanalmente articoli per giornali e periodici, intervenendo sui problemi più scottanti del tempo.
Questa azione coraggiosa e nonviolenta, viene seguita con irritazione dai gerarchi nazisti ...


GUARDA IL VIDEO
Relazione integrale


Guarda anche:
- QUANDO TI GUARDO, GESÙ  - Preghiera del B. Tito Brandsma

Quella lotta spirituale contro il male di Enzo Bianchi

Quella lotta spirituale contro il male 
di Enzo Bianchi



pubblicato su "Jesus" 
- Bisaccia del mendicante - 
Agosto 2019






È molto difficile “parlare” di Dio ma forse è ancora più difficile dire qualcosa sul demonio. Quasi mai si sente un discorso sul demonio che sia convincente e soltanto obbediente al messaggio del Vangelo. O c’è troppo interesse, un interesse quasi morboso, per il demonio, e di conseguenza se ne parla in modo da destare paura e angoscia, oppure si banalizza la questione della sua presenza come se si volesse semplicemente rimandare il problema, relegandolo tra le immagini religiose o mitiche. Eppure nei vangeli è più volte affermata la realtà del male personificato, l’efficacia di un soggetto malefico al quale si oppone Dio, e dunque si è opposto Gesù, combattendolo con forza durante tutta la sua vita.

Tutte le religioni si sono sempre interrogate sull’origine del male nel cosmo e soprattutto dell’umanità, vittima e artefice del male, e le risposte fornite sono state molteplici diverse. Anche nelle sante Scritture vi sono tracce di questi tentativi di risposta, peraltro diversi e contrastanti tra loro, e tuttavia mai si definisce il male, mai lo si concepisce come un dio rivale e oppositore al Dio Creatore e Salvatore. Si è cercato di trovare la causa dell’esperienza dolorosa del male, fino a personificarne la sorgente: non nella creazione, non nella materia, non nell’umanità sta l’origine del male, ma nella trascendenza di una forza che si è opposta al Dio che è amore, al Dio che è verità, al Dio che è vita e che ancora si manifesta nella storia del nostro mondo. Lo ripeto: la Bibbia non dice che il demonio è stato creato da Dio, ma ne constata la presenza fin dall’in-principio della creazione (cf. Gen 3). Il diavolo è lì e spinge l’uomo verso il male come un istinto, una pulsione, una passione prepotente. Così la sua origine resta oscura, enigmatica mentre ne viene descritta la forza, l’efficacia, la capacità di causare il male.

Del demonio (termine che significa “forza”) facciamo esperienza perché è all’opera in noi e fuori di noi (non bisogna crederci, in quanto già lo sperimentiamo!), e dalla sua azione dipendono anche i nomi con cui le Scritture lo evocano: è il diavolo (diábolos), cioè il divisore, l’origine di inimicizie e divisioni tra gli esseri umani e anche all’interno della comunità cristiana; è Satana, l’accusatore e l’avversario, che cerca di distruggere soprattutto quanti camminano con Dio; è il tentatore e seduttore, perché cerca di far cadere nella prova i credenti, corrompendo e pervertendo i loro cuori; è “il principe, il dominatore di questo mondo” (Gv 12,31; 16,11), perché esercita un dominio negli assetti della società umana, essendogli stati consegnati i regni di questo mondo e la loro ricchezza, da lui distribuita a chi lo serve e lo adora (cf. Lc 4,6); ed è anche chiamato nei vangeli con il termine aramaico Beelzebul, signore della corruzione o delle dimore.

Sì, il demonio è una forza che ha tanti nomi perché tante sono le esperienze che si fanno della sua azione nella vita degli esseri umani e dei credenti: nomi che di fatto smascherano la sua azione e mettono in guardia in vista della durissima lotta spirituale – “più dura delle guerre che si fanno gli uomini”, scriveva Arthur Rimbaud –, la quale ha sempre il suo paradigma nella lotta contro le tentazioni subite da Gesù nel deserto all’inizio del suo ministero (cf. Mc 1.12-13; Mt 4,1-11; Lc 4,1-13).

Oggi forse più che in passato occorrerebbe che i cristiani fossero avvertiti che la sequela di Cristo comporta questo aspro combattimento: prima in vista della conversione e poi per respingere sempre di nuovo le seduzioni di Satana (cf. Gen 4,7: “Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo!”), rinnovando ogni giorno il movimento di ritorno al Dio vivente. Solo combattendo le forze del male operanti nel mondo e in se stessi si può, nella fraternità di Gesù, “primogenito di molti fratelli” (Rm 8,29), apprestare le condizioni per accogliere la venuta gloriosa del Signore. Egli, vinto il male per sempre, getterà il diavolo in un lago di fuoco (cf. Ap 20,10) e darà origine alla nuova creazione, introducendo quelli che hanno saputo combattere il demonio nella Gerusalemme del cielo, dove “non ci sarà più morte, né pianto, né angoscia, né alcun male” (Ap 21,4)


venerdì 30 agosto 2019

Domanda di Antonio Spadaro s.j.

Domanda
di Antonio Spadaro s.j.

La bussola indica il Nord. Se non lo fa non significa che il Nord è sparito, ma che la bussola è rotta. La bussola è diventata una metafora per dire l’essere umano e la sua capacità di orientarsi nel mondo alla luce di valori e significati certi. Un uomo disorientato è scombussolato perché ha «perso la bussola». Poi l’uomo, specialmente con la Seconda Guerra Mondiale, ha cominciato a usare il radar alla ricerca di un oggetto. E anche il radar è diventato una metafora dell’essere umano che non dà nulla per scontato, neanche che la sua vita abbia un senso. Ed ha cominciato a cercalo. Da qui anche l’attesa di Godot e tante pagine della grande letteratura del Novecento.

E oggi? L’immagine più esplicativa è forse quella dell’uomo che si sente «perso» se il suo cellulare non «prende». Perché, se non c’è connessione, non ci arrivano più i messaggi e le notifiche. Così viviamo bombardati dalle notifiche dei messaggi. È l’ora di pranzo e sei fuori città? Una app ti invierà un messaggio consigliandoti dove mangiare prima che tu abbia fame. Vuoi leggere un libro? Una app ti consiglierà il libro giusto prima che ti venga in mente di cercare una buona lettura. Google, Amazon, Tripadvisor,… tutti tendono a rispondere alle nostre domande prima che noi le poniamo. E poi chi fa più caso alla sintassi della domanda su Google? Il punto interrogativo è ormai fuori uso. Viviamo nel regime delle risposte automatiche. Chi poi è alla ricerca di un consenso, sia esso pubblicitario o elettorale, tende a lanciare messaggi facendoli sempre passare come risposte alle «domande della gente».

Per restare umani è allora fondamentale imparare a riconoscere le domande vere e importanti sulla nostra esistenza e sul nostro vivere insieme. Dobbiamo riattivarle, strappandole agli algoritmi e ai populismi. È un lavoro spirituale, complesso, che richiede una grande sensibilità, una grande umanità.


«“Io obbedisco a Dio prima che agli uomini”: è la grande risposta cristiana.» Papa Francesco Udienza 28/08/2019 (foto, testo e video)

UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 28 agosto 2019




Circa 10mila fedeli presenti hanno accolto Papa Francesco in piazza San Pietro per l’udienza generale di oggi. Il Pontefice a bordo della papamobile, accompagnato da un gruppo di giovani ministranti, ha effettuato il consueto giro della piazza, che torna a ospitare la catechesi di Francesco, dopo le udienze estive nell’Aula Paolo VI. Presenti fedeli provenienti da diverse nazioni che sventolano le bandiere dei loro Paesi: Croazia, Slovenia, Repubblica Ceca, Austria, Germania, Usa, Brasile, Argentina e Ucraina, da cui arrivano i partecipanti al pellegrinaggio della Chiesa greco cattolica ucraina. Tanti gli italiani, tra cui i cresimandi e i cresimati delle diocesi di Chiavari e Lucca, accompagnati dai rispettivi vescovi. Circa un migliaio i ragazzi provenienti da Verona nell’ambito del pellegrinaggio “Roma in 24ore”, che sono arrivati stamani nella Capitale dopo una notte di viaggio.
















Catechesi sugli Atti degli Apostoli: 7. «Quando Pietro passava…» (At 5,15). Pietro, principale testimone del Risorto

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La comunità ecclesiale descritta nel libro degli Atti degli Apostoli vive di tanta ricchezza che il Signore mette a sua disposizione – il Signore è generoso! –, sperimenta la crescita numerica e un gran fermento, malgrado gli attacchi esterni. Per mostrarci questa vitalità, Luca, nel Libro degli Atti degli Apostoli, indica anche dei luoghi significativi, per esempio il portico di Salomone (cfr At 5,12), punto di ritrovo per i credenti. Il portico (stoà) è una galleria aperta che funge da riparo, ma anche da luogo d’incontro e di testimonianza. Luca, infatti, insiste sui segni e sui prodigi che accompagnano la parola degli Apostoli e sulla speciale cura dei malati cui essi si dedicano.

Nel capitolo 5 degli Atti la Chiesa nascente si mostra come un “ospedale da campo” che accoglie le persone più deboli, cioè i malati. La loro sofferenza attira gli Apostoli, i quali non possiedono «né argento né oro» (At 3,6) – così dice Pietro allo storpio – ma sono forti del nome di Gesù. Ai loro occhi, come agli occhi dei cristiani di ogni tempo, i malati sono destinatari privilegiati del lieto annuncio del Regno, sono fratelli in cui Cristo è presente in modo particolare, per lasciarsi cercare e trovare da tutti noi (cfr Mt25,36.40). I malati sono dei privilegiati per la Chiesa, per il cuore sacerdotale, per tutti i fedeli. Non sono da scartare, al contrario Sono da curare, da accudire: Sono oggetto della preoccupazione cristiana.

Tra gli apostoli emerge Pietro, che ha preminenza nel gruppo apostolico a motivo del primato (cfr Mt 16,18) e della missione ricevuti dal Risorto (cfr Gv 21,15-17). È lui che dà il via alla predicazione del kerygma nel giorno di Pentecoste (cfr At 2,14-41) e che al concilio di Gerusalemme svolgerà una funzione direttiva (cfr At 15 e Gal 2,1-10).

Pietro si accosta alle barelle e passa tra i malati, così come aveva fatto Gesù, prendendo su di sé le infermità e le malattie (cfr Mt8,17; Is 53,4). E Pietro, il pescatore di Galilea, passa, ma lascia che sia un Altro a manifestarsi: che sia il Cristo vivo e operante! Il testimone, infatti, è colui che manifesta Cristo, sia con le parole sia con la presenza corporea, che gli permette di relazionarsi e di essere prolungamento del Verbo fatto carne nella storia.

Pietro è colui che compie le opere del Maestro (cfr Gv 14,12): guardando a lui con fede, si vede Cristo stesso. Ricolmo dello Spirito del suo Signore, Pietro passa e, senza che egli faccia nulla, la sua ombra diventa “carezza”, risanatrice, comunicazione di salute, effusione della tenerezza del Risorto che si china sui malati e restituisce vita, salvezza, dignità. In tal modo, Dio manifesta la sua prossimità e fa delle piaghe dei suoi figli «il luogo teologico della sua tenerezza» (Meditazione mattutina, S. Marta, 14.12.2017). Nelle piaghe degli ammalati, nelle malattie che sono impedimenti per andare avanti nella vita, c’è sempre la presenza di Gesù, la piaga di Gesù. C’è Gesù che chiama ognuno di noi ad accudirli, a sostenerli, a guarirli.

L’azione risanatrice di Pietro suscita l’odio e l’invidia, dei sadducei, che imprigionano gli apostoli e, sconvolti per la loro misteriosa liberazione, proibiscono loro di insegnare. Questa gente vedeva i miracoli che facevano gli apostoli non per magia, ma in nome di Gesù; ma non volevano accettarlo e li mettono in prigione, li bastonano. Sono stati poi liberati miracolosamente, ma il cuore dei sadducei era tanto duro che non volevano credere a ciò che vedevano. Pietro allora risponde offrendo una chiave della vita cristiana: «Obbedire a Dio invece che agli uomini» (At 5,29), perché loro – i sadducei – dicono: “Voi non dovete andare avanti con queste cose, non dovete guarire” – “Io obbedisco a Dio prima che agli uomini”: è la grande risposta cristiana. Questo significa ascoltare Dio senza riserve, senza rinvii, senza calcoli; aderire a Lui per diventare capaci di alleanza con Lui e con chi incontriamo sul nostro cammino.

Chiediamo anche noi allo Spirito Santo la forza di non spaventarci davanti a chi ci comanda di tacere, ci calunnia e addirittura attenta alla nostra vita. Chiediamogli di rafforzarci interiormente per essere certi della presenza amorevole e consolatrice del Signore al nostro fianco.

Guarda il video della catechesi

Saluti:
...

Un pensiero particolare rivolgo ai giovani, agli anziani, agli ammalati e agli sposi novelli.

Oggi celebriamo la memoria di Sant’Agostino, Vescovo e Dottore della Chiesa. Invito tutti a lasciarvi ispirare dalla sua santità e dalla sua dottrina. Insieme a lui, riscoprite la via dell’interiorità che conduce a Dio e al prossimo più bisognoso.


Guarda il video integrale



Appello al Governo: che la “svolta” sia soprattutto cambiamento di linguaggio per fermare l’odio


Appello al Governo: 
che la “svolta” sia soprattutto 
cambiamento di linguaggio per fermare l’odio

Pubblicato da: associazionecartadiroma il 29 agosto 2019


Appello al nuovo governo, 
per un impegno verso un nuovo linguaggio politico


Questo è un appello al governo che si sta formando in queste ore. Un appello agli uomini e alle donne della politica che affermano di voler segnare una svolta nella gestione di questo paese.

Noi siamo convinti che la svolta nell’azione politica non può essere separata da una svolta anche del linguaggio istituzionale, soprattutto sul tema delle migrazioni che è tema centrale .

Nell’ultimo anno abbiamo ascoltato e subito una comunicazione istituzionale incattivita e violenta, centrata sulla necessità di incutere paura utilizzando argomenti lontanissimi dalla realtà dei fatti. Abbiamo sentito parlare di invasione di fronte ad un calo di oltre l’80 per cento di arrivi, di aumento dei reati di fronte ai dati del Viminale che danno in calo tutti i reati, di epidemie di malattie terribili che non si sono mai verificate, di crociere di fronte ai disperati viaggi su imbarcazioni di cartone, di pacchia di fronte a persone sopravvissute a fame e guerra che spesso diventano schiave nei campi.

Abbiamo assistito e subito, increduli e frastornati, al ripetersi continuo dell’individuazione di nemici cui addebitare tutte le nostre difficoltà, i nostri problemi cui, in realtà, solo la politica può e deve dare una risposta e trovare una soluzione.

La svolta deve essere anche e soprattutto nel linguaggio perché i cittadini italiani sono quelli che in Europa hanno la percezione più distorta dell’immigrazione.

Questo è un appello alle istituzioni per l’uso di parole adeguate, che siano coerenti con la realtà, che rispondano al concetto elementare di verità dei fatti.

Che i naufraghi si chiamino naufraghi, che i soccorritori si chiamino soccorritori, che la solidarietà si chiami solidarietà, che i razzisti si chiamino razzisti e non facinorosi.

Che non si utilizzi più la parola clandestini per definire chiunque arriva dal mare.

Che l’odio non sia più un messaggio legittimo da diffondere attraverso il linguaggio politico, e, soprattutto, attraverso il linguaggio istituzionale.

Associazione Carta di Roma (Valerio Cataldi, Pietro Suber, Paola Barretta, Piera Francesca Mastantuono, Sabika Shah Povia), A buon diritto, Acli, Amnesty Italia, Amref, Arci, , Asgi, Paolo Borrometi (Presidente Articolo 21), Stefano Corradino (Direttore Articolo 21), Centro Astalli, Cospe, Guido D’Ubaldo (Segretario ODG), Maurizio Di Schino (Segretario UCSI), Vittorio Di Trapani (Segretario Usigrai), Fcei (Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia), Lorenzo Frigerio (Libera Informazione), Giuseppe Giulietti (Presidente FNSI), Raffaele Lorusso (Segretario FNSI), Lunaria, Elisa Marincola (Portavoce Articolo 21), Medici Senza Frontiere Italia, SIMN (Scalabrini International Migration Network), Paola Spadari (Presidente OdG Lazio), UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), Carlo Verna (Presidente ODG).


“Il presidente della Fnsi Beppe Giulietti al termine dell’iniziativa di Venezia sul diritto d’autore consegnerà l’appello al presidente Sassoli chiedendo che il parlamento europeo promuova una iniziativa straordinaria di contrasto del linguaggio dell’odio e della violenza, un veleno che sta inquinando gli ordinamenti democratici e mette a rischio la medesima,a costruzione di una casa comune europea.”


«HO UCCISO PER AMORE» - QUELL'ASSASSINIO RACCONTATO SU FACEBOOK: COME I SOCIAL ANNULLANO IL PRINCIPIO DI REALTÀ di Alberto Pellai


QUELL'ASSASSINIO RACCONTATO SU FACEBOOK: COME I SOCIAL ANNULLANO IL PRINCIPIO DI REALTÀ

Lo psicoterapeuta Alberto Pellai commenta l'incredibile fatto di cronaca che ha visto un ragazzo accoltellare un amico per futili motivi e prima di costituirsi cercare di giustificare il gesto sui social: «Come genitori e come esperti di età evolutiva ci chiediamo com' è possibile che giovani adulti che dovrebbero essere pronti e allenati alla vita, si muovano per l’esistenza con lo stile e il copione del peggior film di serie B»


Poco più che ventenni e migliori amici. Così almeno ci dicono le cronache. Uno dei due non riesce a riconquistare la ragazza con cui vorrebbe mettersi di nuovo insieme. L’altro cerca di parlargli, di fargli capire che in amore nessuno ti può dire “sì”, solo perché tu lo pretendi. La discussione tra i due degenera. E fuori da un locale notturno, uno dei due tira fuori un pugnale e accoltella a morte l’altro. Uccide il suo migliore amico per un diverbio sull’amore. Un gesto ingiustificabile che purtroppo ha come epilogo un post su facebook. L’assassino si confida con i suoi spettatori virtuali, quelli che verranno a sapere dai media ciò che ha fatto, e annuncia: L’ho fatto per amore.

Sono tanti gli aspetti in questa vicenda di cronaca nera di fine estate che fanno accapponare la pelle. Il fatto che una discussione tra amici si possa trasformare in tragedia. Il fatto che un poco più che ventenne, il sabato sera esca di casa portando un coltello in tasca, da usare al bisogno. Il fatto che dopo aver ucciso un amico, si senta il bisogno di confidarsi ad una platea virtuale attraverso un social, per dare senso a ciò che si è fatto. Un gesto talmente efferato da non avere alcun senso. Ma lasciar scritto in un social le proprie motivazioni oggi sembra più importante e proritario che chiamare i soccorsi, disperarsi per la gravità del reato commesso, correre a costituirsi.

In questa brutta vicenda del novarese troviamo tutta la fragilità di una generazione che ha più famigliarità con la virtualità che con il principio di realtà. Troviamo la vulnerabilità di chi non sa tollerare alcun genere di frustrazione, al punto da pensare che – se una mi lascia e se il mio miglior amico mi dice di chiuderla lì, perché se una storia è finita …. è finita – posso rimettere i pezzi a posto eliminando l’ostacolo (ovvero l’amico che mi produce frustrazione con le sue frasi mirate a contenermi) e sancendo il mio diritto all’amore attraverso un editto sui social. 

Anche in questo caso non possiamo non chiederci - come genitori e come esperti di età evolutiva - com è possibile che giovani adulti che dovrebbero essere pronti e allenati alla vita, si muovano per l’esistenza con lo stile e il copione del peggior film di serie B? 
E soprattutto che cosa rappresenta la virtualità oggi per chi sta crescendo, se dopo aver ucciso un amico, l’assassino corre a rifugiarsi in un social, per dare spiegazioni, per definire il suo “movente”, forse anche per chiedere “comprensione” al mondo che lo dovrà giudicare e condannare per l’orrore compiuto? 

Io ho davvero l’impressione che nei più vulnerabili, la vita online diventi un sostituto più potente e attraente della vita reale. Penso che alcune fragilità, nel web, trovino un terreno di coltura che invece di risistemare gli aspetti di debolezza e incompetenza, li esalta fino a farli diventare tratti dominanti. I social sono pieni di haters che dicono frasi tremende a chicchessia. Nei videogiochi si spara e si uccide per motivi più che futili. Molti genitori vengono in consultazione da noi specialisti dell’età evolutiva sconcertati dal fatto che i loro figli – preadolescenti e giovani adolescenti -, per ore e ore della loro giornata, si piazzano davanti ad uno schermo, indossando una cuffia che li isola dal mondo reale, e stanno lì davanti a sparare, schiacciare tasti, imprecare contro nemici che non esistono, dicendo bestemmie e parolacce a tutto volume, come se vivessero in una bolla, i cui confini sono le cuffie che tengono sulle orecchie e lo schermo dove fanno succedere virtualmente il peggio possibile. Potrebbe essere che tolte quelle cuffie ed entrati nella realtà, questi stessi giovanissimi trattino i loro amici e le loro frustrazioni con le stesse modalità con cui agiscono dentro un videogioco?

So già che molti lettori di questo articolo condanneranno questo modo di interpretare i fatti. “L’online non c’entra nulla”, scriveranno. “i videogiochi non desensibilizzano a niente”. E come al solito, chi, come me, prova a far riflettere su questi temi, verrà tacciato di essere “antico”, “Vintage”, fuori dal tempo. E chi più ne ha, più ne metta.
Però fate attenzione all’epilogo di questa vicenda. Perché a meno di 24 ore dai fatti accaduti, la ragazza per cui si è consumato questo omicidio ha chiesto, tramite i suoi profili social, di essere lasciata in pace. Centinaia di persone la stavano aggredendo virtualmente, attribuendole la responsabilità di ciò che i due “amici” – o presunti tali – avevano vissuto per colpa del suo “rifiuto d’amore”. Ovvero, di fronte ad un omicidio efferato e sconvolgente, c’era già in azione un tribunale virtuale e mediatico, fatto di persone che avevano individuato il vero colpevole. Ditemi voi – adesso – se davvero la permanenza prolungata nel virtuale non sta distruggendo la nostra capacità di stare – e ragionare di conseguenza – nel principio di realtà, che rappresenta l’unico elemento cui aderire per salvarci dalla follia. E da tutto ciò che da essa deriva. Come i fatti del novarese, purtroppo, ci hanno mostrato per l’ennesima volta.

giovedì 29 agosto 2019

Senza acqua potabile 210 milioni di bambini


Senza acqua potabile
210 milioni di bambini

· I dati drammatici dell’Unicef relativi alle aree di conflitto o con gravi instabilità politiche ·

Ogni bambino ha diritto all’acqua e ai servizi igienico-sanitari. Eppure, ogni giorno, centinaia di milioni di bambini ne fanno a meno. A livello globale, in aree instabili e colpite da conflitti, 420 milioni di bambini non dispongono di servizi igienici di base e 210 milioni di bambini non hanno accesso ad acqua potabile sicura. A denunciarlo è il Rapporto «Acqua sotto il fuoco» che l’Unicef lancia nell’ambito della Settimana mondiale dell’acqua, dedicato appunto al legame tra emergenze, sviluppo e pace nelle aree instabili e colpite da conflitti.

A livello globale, oltre ottocento milioni di bambini vivono in 58 aree appunto instabili e colpite da conflitti, compresi 220 milioni di bambini che vivono in quindi contesti estremamente instabili. Quelli che vivono in queste ultime aree, rileva il rapporto, hanno quattro volte maggiori probabilità di non avere servizi igienico-sanitari di base e otto volte più probabilità di non avere servizi di acqua potabile di base. Nei conflitti, l’acqua non sicura può essere mortale quanto i proiettili. In media, i bambini al di sotto dei 15 anni in aree di conflitto hanno quasi il triplo delle probabilità di morire per malattie legate all’acqua non sicura e ai servizi igienico-sanitari rispetto alla violenza diretta.

Per i bambini più piccoli, la situazione è peggiore: quelli al di sotto dei cinque anni hanno probabilità di morire per malattie legate all’acqua e ai servizi igienico-sanitari venti volte maggiori rispetto a quelle di morire per violenza diretta. Secondo i dati rilevati dall’Unicef, entro il 2030 l’80 per cento delle persone più povere del mondo vivrà in Stati instabili e colpiti da conflitti. Negli ultimi anni, più di 120 milioni di persone ogni anno hanno avuto bisogno di assistenza e protezione umanitaria urgente.

Le crisi in tutto il globo sono più numerose, colpiscono più persone e durano più a lungo di quanto accadesse dieci anni fa. Nel 2018, 70,8 milioni di persone sono state costrette a sfollare, per lo più a causa dei conflitti. Metà erano bambini. Se i conflitti durano molto, la durata media dei piani di risposta umanitaria messi in piedi dalle organizzazioni internazionali è aumentata da 5,2 anni nel 2014 a 9,3 anni nel 2018. L’accesso all’acqua potabile in questi contesti è spesso compromesso; le infrastrutture sono danneggiate a seguito degli scontri armati o in disuso, le condutture interrotte o inquinate e la raccolta dell’acqua è pericolosa: i bambini si ammalano, le scuole e gli ospedali non funzionano, le malattie e la malnutrizione si diffondono, spesso fatalmente.

Vedi anche dal sito dell'Unicef:



Omelia p. Alberto Neglia (VIDEO) - XXI domenica Tempo Ordinario (C) - 25/08/2019



Omelia p. Alberto Neglia

- XXI domenica Tempo Ordinario (C) -
25/08/2019


Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto


... Abbiamo detto più volte che Gesù è in cammino, è il cammino della fedeltà. Nulla può trattenere Gesù dal desiderio di riversare l'amore suo verso tutti gli uomini a qualsiasi costo ... ci ama fino alla follia ... vuole manifestare a tutti questa tenerezza, questa misericordia ...
Gesù indica la strada per salvarci, la salvezza è per tutti ... non ci sono privilegiati, Gesù vuole salvare tutti ... Gesù ci dice lasciatevi abbracciare, lasciatevi sedurre, prendere il cuore da me e incamminatevi insieme a me, che non significa fare tante devozioni o portare una croce o baciare una croce, ma significa imparare come si ama. Gesù è passato facendo del bene, amando, mettendo in piedi chi stava in difficoltà, recando speranza a chi era disperato ... La porta stretta che ci sta indicando è il mistero di Gesù ...

Nell'amore il Signore Gesù ci riconosce ... se non amiamo Gesù non ci riconosce, questa è la porta stretta che Lui ha percorso e che l'ha portato a donare la vita per amore e che Gesù indica ad ognuno di noi se vogliamo essere suoi discepoli e riconosciuti come fratelli suoi e figli suoi abbracciati da Lui ...

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SE QUESTO È UN UOMO, UN’ALTRA VOLTA ANCORA di Alberto Barbieri


SE QUESTO È UN UOMO, 
UN’ALTRA VOLTA ANCORA

di Alberto Barbieri
Medico, coordinatore generale di Medici per i Diritti Umani


Il male del nostro tempo

“E se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei quest’immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero”. L’uomo è seduto davanti a noi nel posto medico per l’assistenza psicologica, un piccolo modulo di plastica, il caldo è soffocante. Siamo nel deserto, a pochi chilometri da Agadez, nel campo allestito dall’UNHCR per i rifugiati in fuga dalla Libia. L’uomo, sudanese, ha trenta, forse quarant’anni; racconta di come è fuggito dal Darfur, dove il suo villaggio è stato distrutto e parte della sua famiglia sterminata. Il resto delle persone a lui care, un figlio e un fratello, le ha perse nei campi di sequestro libici dove è rimasto quasi un anno; poi la fuga ancora in Algeria perché l’accesso alle coste libiche e all’Europa era bloccato e il respingimento da quel paese, con una marcia forzata nel Sahara nigerino, fino ad Agadez. L’uomo ha perso tutto; le persone, le cose, la sua terra. Racconta la sua storia con un tono di voce regolare, monotono, in un silenzio assoluto in cui anche il respiro di noi medici sembra essersi fermato, sembra che la sua voce debba spezzarsi da un momento all’altro e trasformarsi, se non in pianto, in lacrime. Ma non avviene. Al termine, il suo sguardo appare perduto, i suoi occhi vuoti, il suo corpo scarno e ripiegato su se stesso. Da un angolo della mia memoria riemerge la descrizione di un uomo ad Auschwitz, in Se questo è un uomo di Primo Levi.

Per ogni generazione c’è un momento in cui ogni certezza si sgretola e ciò che è umano sembra svanire. Per la nostra, quel momento è arrivato nel quotidiano incontro con uomini, donne e bambini migranti sopravvissuti alle atrocità commesse nei campi di tortura in Libia e sulle rotte migratorie del XXI secolo. Si dirà che l’accostamento dei campi di sequestro e dei centri di detenzione libici in cui dal 2011 almeno un milione di persone sono state rinchiuse per settimane, mesi o anni, all’Olocausto per eccellenza, ai campi di sterminio hiltleriani, sia del tutto pretestuoso data l’incomparabilità storica e oggettiva delle due vicende. Forse, probabilmente. Lascerò giudicare a chi leggerà queste righe. Mi limiterò ad elencare solo alcune delle volte (purtroppo gli esempi sarebbero assai di più, date le innumerevoli testimonianze di atrocità ascoltate come medico e psicoterapeuta in questi anni) in cui le storie e le evidenze raccolte dagli operatori di Medici per i Diritti Umani direttamente dai sopravvissuti mi hanno richiamato attraverso un prepotente meccanismo di associazione, le parole di Primo Levi. Faccio questo, lo ammetto, per impellente necessità personale, non pretendendo che le associazioni della mia testa abbiano sempre un’indiscutibile forze oggettiva.

Sonderkommandos (squadre speciali)

Così le SS chiamavano, in modo volutamente vago, i gruppi di prigionieri che venivano obbligati ad occuparsi dei forni crematori ad Auschwitz e negli altri lager nazisti. “Aver concepito ed organizzato le Squadre (sonderkommandos n.d.r) è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti. Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso di malvagità, eppure io penso che lo si debba fare, perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “Ho lavorato per la polizia libica ma non era proprio un lavoro. Loro mi usavano, io non mi potevo rifiutare. Quando ho provato a rifiutarmi mi hanno picchiato violentemente e hanno minacciato di uccidermi. Il mio compito era quello di recuperare i cadaveri dal mare, i cadaveri dei miei fratelli che morivano durante i naufragi. Li recuperavo e poi dovevo seppellirli. In questi due anni ho contato circa 3.000 corpi. Ho finito per farci l’abitudine. Alla fine non mi emozionavo più, non mi sconvolgevo più. Solo per le donne che erano visibilmente in gravidanza o per i cadaveri dei bambini non sono mai riuscito a farci l’abitudine. (L., 17 anni, dal Gambia, testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, ottobre 2017).

La vergogna e la colpa

“L’uscir di pena è stato un diletto solo per pochi fortunati, o solo per pochi istanti, o per animi molto semplici; quasi sempre ha coinciso con una fase di angoscia… A mio avviso, il senso di vergogna o di colpa che coincideva con la riacquistata libertà era fortemente composito: conteneva in sé elementi diversi, ed in proporzioni diverse per ogni singolo individuo… Si soffriva per la riacquistata consapevolezza di essere stati menomanti. Non per volontà né per ignavia né per colpa, avevamo tuttavia vissuto per mesi o anni ad un livello animalesco” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “Vicino alla città di Ajdabiya siamo stati rapiti da militanti del Daesh (l’autoproclamato Stato Islamico, n.d.r) e per 3 mesi ci hanno tenuto in ostaggio. All’inizio ci maltrattavano con i fucili, con i coltelli, urinavano su di noi, facevano tutto quello che volevano senza pietà. Dormivamo ammassati in un capannone senza mangiare e senza bere. Io sono cristiano, ma quando ho capito che l’unico modo per salvare la mia vita era convertirmi l’ho fatto…” (M.I., dall’Eritrea, 22 anni, testimonianza raccolta a Roma presso la clinica mobile di Medu, novembre 2015). “Da lì, sono stato portato alla prigione di Al-Khums, lontano da Tripoli. C’erano più di 300 persone in ciascuna stanza, non c’era spazio per stendersi e per dormire. Ci davano poca acqua e poco cibo. Ogni giorno alle 13 ci portavano un pezzo di pane e un bicchiere di acqua. Questo era tutto ciò che abbiamo ricevuto per tutti gli 8 mesi in cui sono stato detenuto lì dentro.” (A. D, 20 anni, dal Gambia, testimonianza raccolta presso il CAS di Canicarao, Ragusa, novembre 2014).

“Più realistica è l’autoaccusa, o l’accusa, di aver mancato sotto l’aspetto della solidarietà umana …quasi tutti si sentono colpevoli di omissione di soccorso… Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed, in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te ? … è una supposizione ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo… (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “Il casolare dove eravamo tenuti prigionieri era a pochi chilometri dal mare, ad Al Zawiya. Quella sera le guardie entrarono nello stanzone in cui eravamo ammassati per portare via i cadaveri di alcuni di noi; poi iniziarono a picchiare selvaggiamente alcuni nuovi arrivati che, secondo loro, non obbedivano agli ordini abbastanza velocemente. Io e il mio amico approfittammo del trambusto; la porta era rimasta semi aperta. Iniziammo a correre senza guardare indietro, con tutte le forze che avevamo ancora nelle gambe. Eravamo quasi al sicuro in un campo di ulivi quando una raffica di mitra colpì il mio amico. Cadde a terra. Io mi fermai per un attimo, poi ripresi a correre perché le guardie stavano arrivando. Piango ora come allora. Lo porterò con me fino a che vivrò.” (A., 20 anni, dalla Sierra Leone, testimonianza raccolta al centro Medu Psychè, settembre 2017).

“E c’è una vergogna più vasta, la vergogna del mondo… c’è chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsene toccato … nell’illusione che il non vedere sia un non sapere” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). La vergogna del mondo, certo. Dell’Italia, dell’Europa, della comunità internazionale. La nostra vergogna che è l’ostinazione a non voler vedere chi sta dall’altra parte del mare, per non sapere, per declinare ogni responsabilità. Oppure il voler credere, al di là di ogni evidenza, che sia tutto finto, sia tutta propaganda perché in realtà “qui da noi arrivano finti rifugiati, giovani palestrati con i cellulari di ultima generazione e le catene d’oro”. Chiunque abbia responsabilità di governo, qualunque cittadino degno di questo nome prima di formulare giudizi e intraprendere azioni dovrebbe riflettere su come i peggiori crimini del mondo contemporaneo siano sempre stati oggetto di incredulità e di ogni tipo di negazionismo; dovrebbe per lo meno porsi il dubbio prima di urlare il proprio verdetto.

Violenza inutile

“Violenza inutile, fine a se stessa, volta unicamente alla creazione di dolore; talora tesa ad uno scopo, ma sempre ridondante, sempre fuor di proporzione rispetto allo scopo medesimo” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “La Libia è stato un inferno. Io sono maledetta, sono proprio maledetta. A Sabha mi hanno preso e portato in prigione, volevano da me dei soldi. Sono stata in prigione sette mesi: dal settembre 2016 all’aprile 2017. Mi hanno fatto di tutto! Ogni giorno ci prendevano e ci portavano da degli uomini per soddisfare le loro voglie. Mi hanno preso da davanti, da dietro, erano così violenti che dopo avevo difficoltà anche a sedermi. Mi filmavano mentre mi violentavano. Mi urinavano addosso! Un giorno mi hanno costretta ad avere un rapporto con un cane e loro mi hanno filmato. Sono maledetta” (N. S., dalla Costa d’Avorio, 40 anni, testimonianza raccolta presso il CARA di Mineo, giugno 2017). “Le guardie si divertivano a vederci soffrire. Ci portavano il cibo una volta al giorno e mentre ce lo davano ci torturavano con le scosse elettriche. Durante 3 mesi sono stato picchiato ogni giorno. Le guardie venivano, mi facevano togliere la maglietta e mi picchiavano sulla schiena con un bastone, dicevano che senza vestiti faceva più male e loro si divertivano. A volte invece di picchiarmi mi bruciavano, scaldavano un ferro da stiro e me lo appoggiavano addosso”. (G.O., 19 anni, dalla Nigeria, testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, agosto 2017). “Vivevamo nel terrore anche perché sembrava che i carcerieri ci facessero del male per puro divertimento o per proprio piacere. A volte la notte arrivavano ubriachi e se qualcuno passava sparavano. A volte lasciavano morire le persone dissanguate.”. (O., 18 anni, dalla Nigeria, testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, 8 settembre 2017).

“Evacuare in pubblico era angoscioso o impossibile: un trauma a cui la nostra civiltà non ci prepara, una ferita profonda inferta alla dignità umana, un attentato osceno e pieno di presagio; ma anche il segnale di una malignità deliberata e gratuita” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “Il cibo veniva preparato negli stessi contenitori dove ci si lavava e si urinava. Le guardie del centro mescolavano gli escrementi che i bambini facevano nella spazzatura con gli alimenti ed eravamo costretti a mangiare quel cibo anche perché eravamo da giorni o settimane a digiuno.” (M., dalla Costa d’Avorio, 38 anni, testimonianza raccolta presso il CARA di Mineo, agosto 2017).

Kapò 

“(i Kapò, n.d.r.) erano liberi di commettere sui loro sottoposti le peggiori atrocità, a titolo di punizione per qualsiasi loro trasgressione, o anche senza motivo alcuno: fino a tutto il 1943, non era raro che un prigioniero fosse ucciso a botte da un Kapo, senza che questo avesse da temere alcuna sanzione” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “Preciso che io mi trovavo a Sabha nel ghetto dei nigeriani ed il capo del centro era il nigeriano Rambo. Ho poi saputo che c’erano ghetti per ogni nazionalità, ma tutti facevano parte del grande Ghetto di Alì. Ogni ghetto aveva un capo, spesso della stessa nazionalità dei prigionieri che dipendeva dai padroni libici. Subivamo ogni giorno violenze atroci. Rambo era una presenza fissa. Era presente all’appello e procedeva personalmente a torturare i ragazzi che non pagavano per essere liberati”(W., 20 anni, dalla Nigeria, testimonianza raccolta al centro Medu Psychè, dicembre 2017).

Gli scopi del sistema

“Il lavoro non retribuito, cioè schiavistico, era uno dei tre scopi del sistema concentrazionario (nazista, n.d.r.); gli altri due erano l’eliminazione degli avversari politici e lo sterminio delle cosiddette razze inferiori … il regime concentrazionario sovietico differiva da quello nazista per la mancanza del terzo termine e per il prevalere del primo” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). Estorsione di denaro e lavoro schiavistico, sono i principali scopi dei campi di sequestro e dei centri di detenzione libici. Come nei gulag, la morte è dunque “un sottoprodotto” mentre nei campi di sterminio hitleriani essa ero lo scopo ultimo. “Sono stato rinchiuso in una prigione per 2 anni. Non ci portavano niente da mangiare. Venivano per il cibo un giorno si e uno no e il cibo era solo un piccolissimo pezzo di pane. Durante questi due anni mi hanno picchiato tantissimo, tutti i giorni. E non mi facevano mai alzare, ero costretto a stare sempre seduto. Ho cominciato a non riuscire più a usare bene le gambe. Non riesco più a stendere le gambe, non riesco camminare e nemmeno a stare in piedi. Mentre ero in prigione non potevo muovermi, alla fine. Non sono riuscito nemmeno a salire sulla barca che mi portava in salvo. Un amico ha dovuto prendermi in braccio… Queste persone volevano da me un riscatto ma io non sapevo come pagare. Se sono libero oggi è perché mi hanno dato per spacciato, ero vicinissimo alla morte secondo loro. Per questo mi hanno liberato. Pensavano che da me non avrebbero potuto ottenere nient’altro.” (A., 20 anni, dalla Somalia, testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, novembre 2017).

Sebbene non ne sia un aspetto fondante, il movente dell’odio e del disprezzo razziale è comunque rintracciabile anche per molte delle atrocità commesse in Libia. “Il trattamento che viene riservato agli eritrei e ai somali non è lo stesso. Gli eritrei in generale vengono trattati un po’ meglio, i somali invece vengono massacrati. Il cibo e l’acqua non ci sono per nessuno. Però ai somali fanno subire più violenze e crudeltà. Queste cose vengono fatte da Walid e dai suoi uomini che sono moltissimi. Si divertono a vederci soffrire. Di solito vengono la mattina e passano tutta la mattinata a giocare con noi. Ci costringono a farci del male l’uno all’altro. Per esempio se si accorgono che due persone sono moglie e marito chiedono ad uno di picchiare l’altra nel modo più forte possibile. Oppure se una persona sta molto male le guardie vanno lì e dicono “Tu non sei né vivo né morto, ti devi decidere”. E allora lo picchiano violentemente. Così la persona deve scegliere se riuscire ad alzarsi e continuare a vivere o lasciarsi andare e morire.” (G., 18 anni, dall’Eritrea, testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, novembre 2017). “Sono stato quattro anni nelle mani di criminali e miliziani libici. Ho dovuto lavorare come schiavo. Ho subito violenze senza fine. Ma la cosa che ancora oggi più mi duole è che mi abbiano impedito di praticare la mia religione. Dicevano che un negro non può essere un vero musulmano.” (S., 31 anni, dalla Guinea, testimonianza raccolta al centro Medu Psychè, novembre 2017).

Umano e disumano

Non erano di “una sostanza umana perversa, diversa dalla nostra (i sadici, gli psicopatici c’erano anche fra loro, ma erano pochi): semplicemente “erano piuttosto bruti ottusi che demoni sottili. Erano stati educati alla violenza: la violenza correva nelle loro vene, era normale, ovvia.” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). Auschwitz ritornerà? Era una delle domande più frequenti che veniva rivolta a Primo Levi e agli altri superstiti dell’Olocausto. I lager libici mostrano qui forse l’aspetto più inquietante: anche senza la letifera ideologia nazista, pezzi di quel mostro possono ritornare in altre epoche e con altri uomini. Il lettore avrà notato che le testimonianze riportate in queste righe si arrestano al dicembre del 2017. I lager libici sono ancora lì, intatte macchine di dolore e di morte. Semplicemente i migranti che dalla Libia riescono a raggiungere l’Italia e l’Europa sono oggi enormemente meno. Come ha scritto Levi “le verità scomode hanno un difficile cammino”.

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Dal 2014 Medici per i Diritti Umani gestisce in Italia, Egitto e Niger programmi medico-psicologici di supporto a migranti e rifugiati sopravvissuti a tortura e violenza intenzionale. La web map Esodi raccoglie migliaia di testimonianze raccolte sulle rotte migratorie dall’Africa sub-sahariana all’Europa.
(fonte: MEDU 26/08/2019)