venerdì 30 agosto 2019

«HO UCCISO PER AMORE» - QUELL'ASSASSINIO RACCONTATO SU FACEBOOK: COME I SOCIAL ANNULLANO IL PRINCIPIO DI REALTÀ di Alberto Pellai


QUELL'ASSASSINIO RACCONTATO SU FACEBOOK: COME I SOCIAL ANNULLANO IL PRINCIPIO DI REALTÀ

Lo psicoterapeuta Alberto Pellai commenta l'incredibile fatto di cronaca che ha visto un ragazzo accoltellare un amico per futili motivi e prima di costituirsi cercare di giustificare il gesto sui social: «Come genitori e come esperti di età evolutiva ci chiediamo com' è possibile che giovani adulti che dovrebbero essere pronti e allenati alla vita, si muovano per l’esistenza con lo stile e il copione del peggior film di serie B»


Poco più che ventenni e migliori amici. Così almeno ci dicono le cronache. Uno dei due non riesce a riconquistare la ragazza con cui vorrebbe mettersi di nuovo insieme. L’altro cerca di parlargli, di fargli capire che in amore nessuno ti può dire “sì”, solo perché tu lo pretendi. La discussione tra i due degenera. E fuori da un locale notturno, uno dei due tira fuori un pugnale e accoltella a morte l’altro. Uccide il suo migliore amico per un diverbio sull’amore. Un gesto ingiustificabile che purtroppo ha come epilogo un post su facebook. L’assassino si confida con i suoi spettatori virtuali, quelli che verranno a sapere dai media ciò che ha fatto, e annuncia: L’ho fatto per amore.

Sono tanti gli aspetti in questa vicenda di cronaca nera di fine estate che fanno accapponare la pelle. Il fatto che una discussione tra amici si possa trasformare in tragedia. Il fatto che un poco più che ventenne, il sabato sera esca di casa portando un coltello in tasca, da usare al bisogno. Il fatto che dopo aver ucciso un amico, si senta il bisogno di confidarsi ad una platea virtuale attraverso un social, per dare senso a ciò che si è fatto. Un gesto talmente efferato da non avere alcun senso. Ma lasciar scritto in un social le proprie motivazioni oggi sembra più importante e proritario che chiamare i soccorsi, disperarsi per la gravità del reato commesso, correre a costituirsi.

In questa brutta vicenda del novarese troviamo tutta la fragilità di una generazione che ha più famigliarità con la virtualità che con il principio di realtà. Troviamo la vulnerabilità di chi non sa tollerare alcun genere di frustrazione, al punto da pensare che – se una mi lascia e se il mio miglior amico mi dice di chiuderla lì, perché se una storia è finita …. è finita – posso rimettere i pezzi a posto eliminando l’ostacolo (ovvero l’amico che mi produce frustrazione con le sue frasi mirate a contenermi) e sancendo il mio diritto all’amore attraverso un editto sui social. 

Anche in questo caso non possiamo non chiederci - come genitori e come esperti di età evolutiva - com è possibile che giovani adulti che dovrebbero essere pronti e allenati alla vita, si muovano per l’esistenza con lo stile e il copione del peggior film di serie B? 
E soprattutto che cosa rappresenta la virtualità oggi per chi sta crescendo, se dopo aver ucciso un amico, l’assassino corre a rifugiarsi in un social, per dare spiegazioni, per definire il suo “movente”, forse anche per chiedere “comprensione” al mondo che lo dovrà giudicare e condannare per l’orrore compiuto? 

Io ho davvero l’impressione che nei più vulnerabili, la vita online diventi un sostituto più potente e attraente della vita reale. Penso che alcune fragilità, nel web, trovino un terreno di coltura che invece di risistemare gli aspetti di debolezza e incompetenza, li esalta fino a farli diventare tratti dominanti. I social sono pieni di haters che dicono frasi tremende a chicchessia. Nei videogiochi si spara e si uccide per motivi più che futili. Molti genitori vengono in consultazione da noi specialisti dell’età evolutiva sconcertati dal fatto che i loro figli – preadolescenti e giovani adolescenti -, per ore e ore della loro giornata, si piazzano davanti ad uno schermo, indossando una cuffia che li isola dal mondo reale, e stanno lì davanti a sparare, schiacciare tasti, imprecare contro nemici che non esistono, dicendo bestemmie e parolacce a tutto volume, come se vivessero in una bolla, i cui confini sono le cuffie che tengono sulle orecchie e lo schermo dove fanno succedere virtualmente il peggio possibile. Potrebbe essere che tolte quelle cuffie ed entrati nella realtà, questi stessi giovanissimi trattino i loro amici e le loro frustrazioni con le stesse modalità con cui agiscono dentro un videogioco?

So già che molti lettori di questo articolo condanneranno questo modo di interpretare i fatti. “L’online non c’entra nulla”, scriveranno. “i videogiochi non desensibilizzano a niente”. E come al solito, chi, come me, prova a far riflettere su questi temi, verrà tacciato di essere “antico”, “Vintage”, fuori dal tempo. E chi più ne ha, più ne metta.
Però fate attenzione all’epilogo di questa vicenda. Perché a meno di 24 ore dai fatti accaduti, la ragazza per cui si è consumato questo omicidio ha chiesto, tramite i suoi profili social, di essere lasciata in pace. Centinaia di persone la stavano aggredendo virtualmente, attribuendole la responsabilità di ciò che i due “amici” – o presunti tali – avevano vissuto per colpa del suo “rifiuto d’amore”. Ovvero, di fronte ad un omicidio efferato e sconvolgente, c’era già in azione un tribunale virtuale e mediatico, fatto di persone che avevano individuato il vero colpevole. Ditemi voi – adesso – se davvero la permanenza prolungata nel virtuale non sta distruggendo la nostra capacità di stare – e ragionare di conseguenza – nel principio di realtà, che rappresenta l’unico elemento cui aderire per salvarci dalla follia. E da tutto ciò che da essa deriva. Come i fatti del novarese, purtroppo, ci hanno mostrato per l’ennesima volta.