mercoledì 31 luglio 2019

100 anni dalla nascita di Primo Levi, guida nell’abisso più profondo mai toccato dall’uomo.

100 anni dalla nascita di Primo Levi, 
guida nell’abisso più profondo mai toccato dall’uomo.


«Molte lettere che ricevo ammirano la forza con cui ho sopportato un anno di prigionia (nel Lager di Auschwitz, ndr); ma era una forza passiva, quella con cui uno scoglio sopporta l’urto dell’acqua di un torrente. Io non sono un uomo forte. Affatto». Nel 1987 quando Primo Levi dice di sé queste cose al giornalista Roberto Di Caro, è già uno scrittore affermato a livello internazionale e, per la maggioranza dei suoi lettori, è considerato il testimone per eccellenza del sistema concentrazionario nazionalsocialista; il sopravvissuto che più di altri ha saputo restituire al mondo dei vivi la storia degli ebrei sterminati.

Aveva avuto la «fortuna» di essere rinchiuso nel campo di lavoro più grande del complesso concentrazionario di Auschwitz, associato a una grande fabbrica chimica, la I.G. Farbenindustrie, e lui era un chimico, uno schiavo ebreo utile ai nazisti. Fortuna, dunque, non coraggio. Quello gli servì dopo, quando fece ritorno a casa, con il «veleno di Auschwitz» nel cuore. E a casa, nei primi mesi, si sentiva schiacciato dal peso dei ricordi, più vicino ai morti che ai vivi. Soffriva per gli amici che non erano tornati.

La poesia fu il suo primo rifugio nella parola scritta. Poi cercò notizie di coloro che sapeva tornati e soprattutto di Lorenzo, il muratore che lo aveva salvato, portandogli ogni giorno del cibo e parole di speranza. A novembre di quel 1945, cominciò a scrivere alcune parti di quella che doveva essere la sua storia raccontata al mondo: un libro di ricordi e riflessioni, sul male estremo e radicale che aveva visto e subito.Se questo è un uomo, una testimonianza e insieme un modo di fornire a tutti i lettori «documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano», scrisse nella prefazione.
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Cento anni fa, il 31 luglio 1919, nasceva Primo Levi, considerato soprattutto nel mondo anglosassone il più grande scrittore italiano del Novecento. Il suo libro-testimonianza sulla prigionia ad Auschwitz, Se questo è un uomo, apparso nel 1947 è tra i testi più tradotti al mondo, la testimonianza di un sopravvissuto ai lager nazistinella quale per lunghi passaggi l’autore-testimone scompare, lasciando sotto i nostri occhi una cronaca di minuti, quanto tragici, eventi.

Nell’introduzione a Se questo è un uomo, inserita nell’edizione del 1958, si dice a proposito del libro: “Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi atti di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano”. Primo Levi diventa la nostra guida nell’abisso più profondo mai toccato dall’uomo. Quasi un’inchiesta su come persone normali arrivino a trasformarsi in crudeli aguzzini. Un quesito incessante che drammaticamente lega Se questo è un uomo con l’ultima opera del 1986, I sommersi e i salvati, un testamento in forma di riflessione estrema, un monito che ci mette in guardia su quanto sia facile, anche per un uomo normale, per ognuno di noi, scivolare sotto la pressione dell’ambiente circostante nella pratica della violenza inutile, eseguita al solo scopo di provare piacere nell’umiliare il proprio simile. 
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Un palinsesto dedicato in ricordo del grande scrittore


Vedi il nostro post:


DECRETO SICUREZZA BIS SENATORI, NON VOTATELO!

DECRETO SICUREZZA BIS
SENATORI, NON VOTATELO

I missionari comboniani in Italia e Nigrizia hanno scritto una lettera aperta ai membri del Senato, in vista del voto per la conversione in legge del Decreto sicurezza bis. “Siamo certi che non vorrete lasciar morire degli esseri umani: farlo sarebbe un crimine abominevole”.

Nella foto: l'approvazione del Decreto sicurezza bis alla Camera, il 25 luglio. 
Su questo, come sul precedente Decreto sicurezza, il governo ha posto la fiducia.

Gentili senatrici e senatori,

noi missionari comboniani, editori della rivista Nigrizia, ci rivolgiamo a voi, chiamati in questi giorni a pronunciarvi sulla conversione in legge del Decreto sicurezza bis. In sintonia con l’appello lanciato da 62 monasteri femminili di vita contemplativa, dall’Associazione Emmaus Italia, dalla Federazione nazionale della società di san Vincenzo de’ Paoli, da Pax Christi Italia e da altre associazioni cattoliche, vi chiediamo, tramite questa lettera, di votare contro questo decreto.

Che per noi è immorale, va contro i principi della nostra Costituzione ed è con grande evidenza contrario alle leggi internazionali che impongono di salvare la vita di chi in mare è in pericolo di morte. Vi chiediamo quindi di non votarlo. La conseguenza della sua approvazione sarà che tante persone, innocenti e inermi naufraghi nel Mediterraneo, moriranno invece di essere salvate.

Questo decreto bis, infatti, criminalizza i soccorritori volontari che salvano vite umane e avrà come effetto reale che le persone da salvare non potranno più essere soccorse, rischiando così di morire annegate.

La nostra coscienza ci vieta di accettare una legge che promuove la morte e non la vita. Siamo certi che non vorrete lasciar morire degli esseri umani: farlo sarebbe un crimine abominevole.

Ve lo chiediamo ancora: respingete questo decreto mortifero.

Grazie per l’attenzione
Missionari comboniani in Italia - Nigrizia

MARTEDÌ 30 LUGLIO 2019



Erano tutti i nostri figli - Due facce del nostro Paese - di Giuseppe Savagnone



Erano tutti i nostri figli
Due facce del nostro Paese
di Giuseppe Savagnone




Mentre il nostro Parlamento in questi giorni è impegnato nelle votazioni per trasformare in legge il cosiddetto decreto sicurezza bis (peraltro già entrato in vigore il 15 giugno), che mira a blindare le nostre acque territoriali, per impedire l’arrivo di navi delle Ong, il motopeschereccio di Sciacca “Accursio Giarratano”, nella notte tra il 23 e il 24 luglio, ha soccorso un gommone con una cinquantina di migranti in procinto di affondare e non li ha lasciati finché, dopo un’attesa di diverse ore (“perdute” per la pesca), una motovedetta italiana non è venuta a prenderli per portarli a Lampedusa.

«Con gli occhi di mio figlio»

«Noi soccorriamo con tutto il cuore i migranti in difficoltà, e lo facciamo anche come omaggio alla memoria di mio figlio morto», dice l’armatore del peschereccio, Gaspare Giarratano, che ha perso un figlio di 15 anni per un male incurabile.

E aggiunge: «Tutte le volte noi facciamo il nostro dovere, sbracciandoci e aiutando uomini, donne e bambini, perché è giusto così (…). Come potremmo voltarci dall’altra parte di fronte alle richieste di aiuto che provengono da esseri umani, che possono essere anche bambini, che magari ci guardano con gli occhi di mio figlio? No, noi li salviamo, e lo facciamo anche pensando al mio ragazzo, perché lui era come noi, e da lassù ci benedice».

Fa più notizia la grave questione del reggiseno

Ho letto questa notizia insieme a quella del naufragio che, poche ore dopo, ha coinvolto un barcone con a bordo trecento persone, di cui la metà sono morte affogate.

Cronaca ordinaria, ormai, che stenta a farsi strada sulle pagine dei giornali e nei notiziari, in attesa di un prossimo spettacolare braccio di ferro mediatico fra il nostro ministro degli Interni e una emula di Carola Rackete (magari concentrandosi poi per giorni sul suo reggiseno).

Eppure anche quelli erano figli di qualcuno. Non nostri, è vero, e lo dice la freddezza delle reazioni che ormai l’opinione pubblica ha di fronte a queste tragedie.

Perché se, invece, a morire è un giovane carabiniere italiano, appena al ritorno dal viaggio di nozze, riaffiora improvvisamente nell’opinione pubblica il giusto senso del dramma che ogni morte di uomo rappresenta Eppure le parole dell’armatore di Sciacca – «magari ci guardano con gli occhi di mio figlio» – riguardano sia gli stranieri morti in mare che il carabiniere barbaramente assassinato…

Al di là del “buonismo”

“Buonismo” a buon mercato? Oggi almeno un italiano su tre, a giudicare ai sondaggi, ne è convinto e contrappone a questi sentimentalismi la lucida analisi della ragione, tante volte esposta dal ministro Salvini: soccorrere i migranti è un danno per la nostra sicurezza e un favore fatto alle mafie che organizzano il traffico degli esseri umani, illudendo le loro vittime (che non sono affatto profughi, né poveri, altrimenti non avrebbero i soldi per pagare e non sarebbero per lo più giovani “palestrati”, con tanto di smartphone) con il miraggio del facile benessere che avranno in Italia.

Il solo modo di evitare che queste persone muoiano in mare, o riescano a sbarcare per venire a minacciarci (è eloquente l’immediato tentativo di collegare l’uccisione del carabiniere alla presenza degli immigrati), è di spegnere sul nascere questa illusione, chiudendo i nostri porti.

Un dato di fatto

Per professione, oltre che come essere umano, ho sempre apprezzato la ragione (insegnavo filosofia). Perciò sono contento che il confronto non si svolga a livello di “buoni” sentimenti – naturalmente eliminando anche l’influsso di quelli “cattivi” di paura e di odio, che invece spesso vengono esibiti senza vergogna (a differenza degli altri) in questi dibattiti. Ragioniamo, dunque.

E qui, però, la logica del discorso che sentiamo ripetere da circa un anno e mezzo – solo in questo, forse, il “governo del cambiamento” è stato sempre unito e coerente – mi sembra abbia contro sé almeno un dato di fatto, che non può essere contestato: dopo un anno e mezzo di proclami, di porti chiusi, di emarginazione delle Ong, di decreti legge uno più severo dell’altro, queste persone continuano a partire.

Molti sbarcano in Italia – proprio nei giorni dello spettacolare duello tra i due “capitani” sulla sorte dei 42 migranti a bordo della “Sea-Watch”, ne sono arrivati a Lampedusa centinaia, anche dopo i limiti posti alle navi delle Ong (vedi dichiarazioni del sindaco) –, molti non ce la fanno e annegano, molto più di prima, perché a causa di quei limiti e di tutte le difficoltà poste dal governo alle altre navi (la “Diciotti” era della marina italiana! Come lo è, adesso, la motovedetta “Gregoretti”) ora i soccorsi sono molto più problematici.

Anche noi volevamo essere felici

A quanto pare, l’enorme apparato di difesa dei nostri confini dalla «invasione» (così viene definita da molti) non ha potuto bloccare un movimento che ha radici evidentemente molto più profonde di quelle attribuibili a un complotto criminale. Come le misure di Trump non hanno scoraggiato i migranti che dal Messico cecano disperatamente di passare negli Stati Uniti.

«Non è vero che sono profughi, sono “migranti economici”!», ho sentito spesso gridare con indignazione. «Tanto che hanno i soldi per la traversata». Anche i milioni di italiani che in passato sono emigrati negli Stati Uniti, in Argentina, in Belgio, non scappavano da guerre e avevano i soldi per il biglietto della nave.

Non erano miserabili, erano poveri. Il miserabile è uno a cui manca il necessario; perciò neppure è in grado di muoversi. Il povero è uno riesce solo a sopravvivere, ma non ha il superfluo che permette di vivere bene, di essere felice. Perché, per essere felici, «niente è più necessario del superfluo» (Oscar Wilde).

Non so cosa dicano loro le mafie, ma è sicuro che le persone che sfidano, tra violenze inaudite, i viaggi allucinanti nel deserto, gli spaventosi campi di detenzione della Libia, le traversate in condizioni estreme di disagio e di pericolo, non lo fanno solo per cercarsi palestre più attrezzate. Lo fanno – e sanno benissimo a cosa vanno incontro (non hanno gli smartphone?) – perché vogliono essere felici.

Come i nostri nonni. E, se è così, non sarà certo Salvini a fermarli.

I migranti italiani erano tutte brave persone?

Quanto all’obiezione, così spesso sollevata, che i nostri emigrati erano brave persone che volevano solo trovare lavoro, mentre questi sono parassiti e delinquenti, basta aver visto “Il Padrino” per apprendere che le grandi “famiglie” della mafia degli Stati Uniti non portano per caso nomi italiani – Genovese, Bonanno… –, ma perché erano di italiani emigrati.

Reciprocamente, basterebbe conoscerne meglio qualcuno per scoprire che gli immigrati non sono, nella stragrande maggioranza, fannulloni e criminali: è stata la politica dei governi precedenti che, con una finta accoglienza senza misure di integrazione, li ha condannati all’inazione e ha impedito loro di dare, nella maggior parte dei casi, il contributo delle loro capacità e delle loro competenze.

E il primo “Decreto sicurezza”, distruggendo i pochi appigli esistenti per favorire l’integrazione, ha esasperato questa emarginazione, rendendo reale un pericolo di criminalizzazione che prima era abbastanza remoto.

Come i nostri ragazzi

Non vengono per aggredirci. Chiedono di essere accolti perché la nostra società può dare loro la possibilità di essere felici. Come i nostri figli che, ormai sempre più spesso, vanno a cercare opportunità di una vita migliore in altri Paesi, e che sono dunque anche loro “migranti”. E se alla frontiera di questi Paesi i nostri ragazzi fossero bloccati, perché sono italiani (e quindi fannulloni e donnaioli), non ci indigneremmo?

E se i governi stranieri per scoraggiare l’emigrazione in atto dei nostri ragazzi li costringessero a rischiare la vita per arrivare, e poi li lasciassero morire senza soccorso, puntando sul fatto che, con un po’ di italiani morti, gli altri si scoraggeranno e la smetteranno di cercare di “rubare” i posti di lavoro ai loro cittadini?

Non grideremmo, con tutta la nostra rabbia e la nostra disperazione – specie se uno di quei ragazzi fosse nostro figlio – che un governo e un popolo che fanno questo sono al di sotto della più elementare umanità?

Erano anche nostri figli

Certo, quelli che sono morti al largo della Libia l’altra notte, non sono nostri figli. E le grida di dolore dei loro genitori non arrivano fino a noi.

Non abbiamo così neppure bisogno di giustificarci spiegando che avremmo voluto «aiutiarli a casa loro». (Una clamorosa bugia, perché il solo aiuto che finora i nostri governi – compreso quello attuale – hanno dato è consistito nel vendere armi per alimentare guerre civili e guerriglie).

Per questo possiamo sbadigliare davanti alla Tv, quando ci segnala la notizia dell’ultimo naufragio. Mentre ancora ci indigniamo se a morire è un povero ragazzo italiano di 35 anni.

Eppure forse, al di là della cittadinanza giuridica e dell’appartenenza etnica, queste morti ci riguardano tutte. Perché i ragazzi che ora non vivono più – mi tornano alla mente le parole di Gaspare Giarratano – avevano tutti gli stessi occhi dei nostri figli…
(fonte: TUTTAVIA

Vedi anche il post precedente 


martedì 30 luglio 2019

30 luglio Giornata Mondiale dell'Amicizia

30 luglio Giornata Mondiale dell'Amicizia



Un amico fedele è rifugio sicuro:
chi lo trova, trova un tesoro.
Per un amico fedele non c'è prezzo,
non c'è misura per il suo valore.
Un amico fedele è medicina che dà vita:
lo troveranno quelli che temono il Signore.
Chi teme il Signore sa scegliere gli amici:
come è lui, tali saranno i suoi amici. (Sir 6,14-17)


Nella Bibbia numerosi sono i brani in cui si parla dell'amicizia e dalla lettura dei Vangeli si deduce che durante la sua vita terrena, Gesù è stato circondato da amici: gli apostoli, Marta e Maria, Lazzaro e molti altri. 
Attraverso il suo comportamento, ci ha mostrato il valore dell’amicizia e quanto sia necessaria nella vita.
L’amicizia è stata senz’altro una dimensione importantissima per Lui, che è stato e continua ad essere il miglior amico di molte persone. 

Kenneth Pierce ha individuato nel Vangelo di Giovanni 8 insegnamenti di Gesù sull’amicizia:
1. Un amico apre il suo cuore ... (Gv 13-17).
2. È sempre lì quando c'è bisogno ... (Gv 6, 56).
3. Non ha paura di mostrarsi fragile ...  (Mt 26, 38).
4. Dice quello che pensa ...  (Mt 16, 23).
5. Conosce profondamente ...  (Gv 1, 47-48).
6. Dà la vita ... (Gv 15, 13-14).
7. Guida a Dio ... (Gv 14, 9).
8. Riempie di gioia ... (Gv 16, 22-23).
(liberamente tratto da 8 cosas que Jesús nos enseña sobre la amistad)

Nel 2011 l'Organizzazione per le Nazioni Unite ha scelto di dedicare una data a celebrare la cooperazione e la solidarietà tra persone e popoli ed ha istituito la Giornata Mondiale dell'Amicizia fissandola il 30 Luglio.

L'amicizia non è solo un buon sentimento, ma ha anche delle implicazioni pratiche: i rapporti di amicizia contribuiscono a costruire la pace e difendono i popoli dall'instabilità sociale e politica, come dalla paura di essere attaccati.

La scelta del 30 luglio per la Giornata dell'Amicizia è stata fatta per seguire una tradizione ancora viva in Paraguay, dove in questa data si festeggiano gli amici e i rapporti di solidarietà e affetto tra le persone. Con la risoluzione 65/275, infatti, le Nazioni Unite riunite nell'Assemblea Generale hanno proclamato la Giornata Mondiale dell'Amicizia proprio in questa data, rivolgendosi soprattutto alle nuove generazioni nella creazione di legami duraturi tra persone e popoli.

Al fine di celebrare la giornata nel modo giusto, l'ONU esorta gli Stati nazionali e le organizzazioni informali a mettere in campo progetti che stimolino la creazione di nuovi legami e promuovano il proseguimento dei rapporti di dialogo e cooperazione tra le persone.

L'amicizia è il primo passo verso una cultura della Pace: uno degli obiettivi di questa giornata è il sostegno alla Dichiarazione e al Programma di Azione varato nel 1999 e che ha per scopo la creazione di una cultura della pace, mediante alcuni asset: l'istruzione, lo sviluppo sostenibile, la parità di genere, il rispetto dei diritti umani, la promozione della tolleranza e del dialogo.




«E’ un dialogo del Figlio col Padre, un dialogo tra figli e Padre. Questa è la preghiera cristiana.» Papa Francesco Angelus 28/07/2019 (testo e video)

ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 28 luglio 2019

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nell’odierna pagina di Vangelo (cfr Lc 11,1-13), san Luca narra le circostanze nelle quali Gesù insegna il “Padre nostro”. Essi, i discepoli, sanno già pregare, recitando le formule della tradizione ebraica, ma desiderano poter vivere anche loro la stessa “qualità” della preghiera di Gesù. Perché loro possono constatare che la preghiera è una dimensione essenziale nella vita del loro Maestro, infatti ogni sua azione importante è caratterizzata da prolungate soste di preghiera. Inoltre, restano affascinati perché vedono che Egli non prega come gli altri maestri del tempo, ma la sua preghiera è un legame intimo con il Padre, tanto che desiderano essere partecipi di questi momenti di unione con Dio, per assaporarne completamente la dolcezza.

Così, un giorno, aspettano che Gesù concluda la preghiera, in un luogo appartato, e poi chiedono: «Signore, insegnaci a pregare» (v.1). Rispondendo alla domanda esplicita dei discepoli, Gesù non dà una definizione astratta della preghiera, né insegna una tecnica efficace per pregare ed “ottenere” qualcosa. Egli invece invita i suoi a fare esperienza di preghiera, mettendoli direttamente in comunicazione col Padre, suscitando in essi una nostalgia per una relazione personale con Dio, con il Padre. Sta qui la novità della preghiera cristiana! Essa è dialogo tra persone che si amano, un dialogo basato sulla fiducia, sostenuto dall’ascolto e aperto all’impegno solidale. E’ un dialogo del Figlio col Padre, un dialogo tra figli e Padre. Questa è la preghiera cristiana.

Pertanto consegna loro la preghiera del “Padre nostro”, forse il dono più prezioso lasciatoci dal divino Maestro nella sua missione terrena. Dopo averci svelato il suo mistero di Figlio e di fratello, con quella preghiera Gesù ci fa penetrare nella paternità di Dio; voglio sottolineare questo: quando Gesù ci insegna il Padre Nostro ci fa entrare nella paternità di Dio e ci indica il modo per entrare in dialogo orante e diretto con Lui, attraverso la via della confidenza filiale. E un dialogo tra il papà e suo figlio, del figlio con il papà. Ciò che chiediamo nel “Padre nostro” è già tutto realizzato a noi nel Figlio Unigenito: la santificazione del Nome, l’avvento del Regno, il dono del pane, del perdono e della liberazione dal male. Mentre chiediamo, noi apriamo la mano per ricevere. Ricevere i doni che il Padre ci ha fatto vedere nel Figlio. La preghiera che ci ha insegnato il Signore è la sintesi di ogni preghiera, e noi la rivolgiamo al Padre sempre in comunione con i fratelli. A volte succede che nella preghiera ci sono delle distrazioni ma tante volte sentiamo come la voglia di fermarci sulla prima parola: “Padre” e sentire quella paternità nel cuore.

Poi Gesù racconta la parabola dell’amico importuno e dice Gesù: “bisogna insistere nella preghiera”. A me viene in mente quello che fanno i bambini verso i tre anni, tre anni e mezzo: incominciano a domandare cose che non capiscono. Nella mia terra si chiama “l’età dei perché”, credo che anche qui sia lo stesso. I bambini incominciano a guardare il papà e dicono: “Papà, perché?, Papà, perché?”. Chiedono spiegazioni. Stiamo attenti: quando il papà incomincia a spiegare il perché, loro arrivano con un’altra domanda senza ascoltare tutta la spiegazione. Cosa succede? Succede che i bambini si sentono insicuri su tante cose che incominciano a capire a metà. Vogliono soltanto attirare su di loro lo sguardo del papà e per questo: “Perché, perché, perché?”. Noi, nel Padre Nostro, se ci fermiamo sulla prima parola, faremo lo stesso di quando eravamo bambini, attirare su di noi lo sguardo del padre. Dire: “Padre, Padre”, e anche dire: “Perché?” e Lui ci guarderà.

Chiediamo a Maria, donna orante, di aiutarci a pregare il Padre Nostro uniti a Gesù per vivere il Vangelo, guidati dallo Spirito Santo.


Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle,

ho appreso con dolore la notizia del drammatico naufragio, avvenuto nei giorni scorsi nelle acque del Mediterraneo, in cui hanno perso la vita decine di migranti, tra cui donne e bambini. Rinnovo un accorato appello affinché la comunità internazionale agisca con prontezza e decisione, per evitare il ripetersi di simili tragedie e garantire la sicurezza e la dignità di tutti. Vi invito a pregare insieme a me per le vittime e per le loro famiglie. E anche domandare col cuore: “Padre, perché?” [segue minuto di silenzio]

Guarda il video

Saluto tutti voi, romani e pellegrini dall’Italia e da varie parti del mondo: le famiglie, i gruppi parrocchiali, le associazioni.

In particolare, saluto le Suore di Santa Elisabetta provenienti da diversi Paesi, il gruppo AVART Organización Internacional de Arte y Cultura Mexicana di Puebla (Messico) e i giovani della Parrocchia Santa Rita da Cascia di Torino. Vedo una bandiera uruguaiana ma non vedo il mate! Benvenuti! Saluto anche i tanti polacchi che vedo qui con le bandiere e pure il gruppo degli spagnoli.

A tutti auguro una buona domenica e, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

Guarda il video integrale


LA VIOLENZA È VICINA di Raniero La Valle


LA VIOLENZA È VICINA
di Raniero La Valle




La Camera ha approvato il secondo decreto sicurezza di Salvini dopo aver espresso su di esso un voto di fiducia al governo con 325 voti contro 248. Il decreto è incostituzionale non solo in quanto a singoli articoli della Costituzione e del diritto internazionale che lasciamo ai giuristi e al presidente della Repubblica di valutare ai fini di accertarne l'illegittimità, ma sopratutto è in antitesi con lo spirito globale della Costituzione, con la sua stessa ragion d'essere che com'è noto non è la ragion di Stato ma la ragione delle persone umane come cittadini, non come individui isolati ma come membri di comunità politiche. In questo senso esso è l'anti-Costituzione, e non basta per salvarsi l’anima uscire dall’aula quando lo si vota. 

Tuttavia non è questo l'argomento che vogliamo qui sollevare, che già molti altri sollevano, vogliamo porre una questione diversa, che è la radicale illegittimità della legge approvata dalla Camera e ora al vaglio del Senato. Tale illegittimità radicale deriva dalla frode in atto pubblico di cui questa legge é il prodotto, è il bottino, è il corpo del reato. La frode, o il falso, consiste nel fatto che le forze parlamentari in un atto solenne e pubblico come è un voto a scrutinio palese e per appello nominale alla Camera danno il via a una legge non a motivo del merito della legge ma a motivo della fiducia che esse dichiarano di nutrire per il governo, mentre esse stesse con atti contestuali e nello stesso momento esprimono in tale governo la più totale sfiducia. Il Movimento 5 stelle ha platealmente affermato questa sfiducia disertando l'aula di Montecitorio per sanzionare il ministro degli Interni vicepresidente del Consiglio e la sua forza politica per il rifiuto di rispondere al Parlamento delle accuse di corruzione gravanti su di essi, vere o false che fossero; esso inoltre ha manifestato il suo dissenso per la decisione del governo di dar corso alla TAV nonostante il desistere da essa fosse un punto d'onore del suo stesso impegno politico e programma elettorale. Per contro il secondo partner di governo, il capo della Lega Matteo Salvini, poche ore prima del voto di fiducia aveva dichiarato essere venuta meno la sua fiducia, perfino sul piano personale, nei confronti dell'altro leader e alleato di governo, il vicepresidente del Consiglio e ministro di una quantità di cose, Luigi Di Maio.

La conclusione che se ne deve trarre è che l'intera azione di governo, se sopravvivrà, è fondata sul falso conclamato di una fiducia che non c'è. Essa viene simulata solo ai fini del calcolo sulle tattiche più utili per la conservazione del potere. Naturalmente secondo le regole formali governo e democrazia possono funzionare lo stesso, quello però che dai vertici del sistema si diffonde e discende fino ai rami più bassi della società è il senso di una corruzione profonda per cui tutto è lecito e ogni cosa, ogni “difesa”, è legittima per il proprio tornaconto, nella vita privata non meno che in quella pubblica. 

In questo contesto assume valore fortemente simbolico l'abbandono, da parte del magistrato che ne era stato incaricato, dell'ufficio di Autoritá per la lotta alla corruzione: quel tempo in cui la si credeva possibile, egli dice, è passato, la cultura è cambiata, la corruzione è il nostro destino. Ma noi possiamo accettare questo? Attenzione, su questa strada la violenza è vicina.

(fonte: blog 28/07/2019)



lunedì 29 luglio 2019

Il Presidente di Pax Christi, non posso tacere la mia indignazione!



Il Presidente di Pax Christi,
non posso tacere la mia indignazione


“Non posso tacere la mia indignazione davanti a tanta crudeltà, strumentalizzazione e indifferenza di fronte alla morte.

Così si esprime il Vescovo Giovanni Ricchiuti, Presidente nazionale di Pax Christi.

Come non ricordare le parole di papa Francesco, a Lampedusa, l’8 luglio 2013: ‘Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo? Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle?’.”

Anche l’assassinio del giovane carabiniere Mario Cerciello Rega, a Roma, è diventato motivo di strumentalizzazione, di polemica disumana. Alcuni autorevoli esponenti politici hanno contribuito a creare ancora una volta, con dichiarazioni irresponsabili, un clima di odio che si sta diffondendo nel nostro paese.

Quasi che fosse più importante la nazionalità dell’assassino rispetto al dolore per la vittima!

E per le 150 persone morte in mare non ci resta che una fredda contabilità! Rischiamo di abituarci. Io non posso accettare questo, e come Vescovo presidente di Pax Christi, esprimo tutto il mio sconcerto insieme al dolore per le vittime innocenti.

E anche per chi è stato salvato, come i 135 migranti che sulla nave «Gregoretti» della nostra Guardia costiera attendono, ormai da qualche giorno, di conoscere quando e dove saranno sbarcati, assistiti e accolti. Siamo alla follia!

Mi chiedo – continua mons. Ricchiuti – se esista ancora, a sentire le ormai trite e ritrite dichiarazioni dell’imperturbabile Ministro dell’Interno, il rispetto per le regole fondamentali del mare? E, ancora più grave, dov’è il rispetto per la vita?

In questi giorni si discute del decreto sicurezza bis, con inasprimento delle pene per chi salva vite in mare. Nei giorni scorsi ho espresso la mia vicinanza e solidarietà a p. Alex Zanotelli e altri religiosi che, davanti a Montecitorio, chiedevano di non approvare questo decreto.

Mi appello, come già altre associazioni hanno fatto, alla coscienza dei Senatori perché non approvino questo decreto sicurezza bis. Voglio ancora sperare, semplicemente, in un sussulto di umanità!

Come Pax Christi, continua mons. Ricchiuti – diciamo dei NO fermi, senza se e senza ma.

Ma vogliamo rispondere a questo clima di odio, di strisciante razzismo e di indifferenza con proposte e iniziative che alimentino impegno e speranza: invito tutti a partecipare alla GIORNATA NAZIONALE DI MEMORIA delle VITTIME delle MIGRAZIONI, sabato 28 settembre p.v., a VENEGONO-VARESE.

Perchè nell’indifferenza sembra consumarsi anche la sofferenza del popolo Palestinese.

Pochi giorni fa Pax Christi ha organizzato uno dei tanti ‘pellegrinaggi di giustizia’ in Terra Santa. In quei giorni veniva restituito alla propria famiglia il corpo di un giovane palestinese morto in prigione sotto interrogatorio, ultimo di tante vittime di un quotidiano stillicidio.

Quando lo stesso gruppo lasciava la Terra Santa iniziavano le demolizioni di dieci palazzine, costruite a Gerusalemme Est con regolare autorizzazione, in quanto troppo vicine al Muro di separazione che sta avanzando ogni giorno per chiudere la terra palestinese in un recinto militarizzato. Il muro avanza, la terra viene progressivamente colonizzata, gli abitanti costretti a lasciare o a restare sottomessi ed espropriati di beni e di diritti.

Anche la presenza dei cristiani palestinesi, eredi della prima evangelizzazione, rischia di estinguersi nella terra di Gesù.

Di tutto questo nessuno ne parla più e chi lo fa viene considerato un fastidioso impertinente che si ostina a sostenere una causa persa.

Pax Christi Italia – conclude il Vescovo Ricchiuti – unisce la sua voce a quella di quanti chiedono ‘pace per Gerusalemme’, per la nostra Italia, per la nostra Europa e per il mondo intero.

Restano i nostri passi e le nostre mani sui sentieri di Isaia, passi di un popolo di pace e mani di artigiani di pace!”
Giovanni Ricchiuti
Presidente nazionale di Pax Christi.
Firenze, 28 luglio 2019

Contatti:
Segreteria Nazionale di Pax Christi: 055/2020375 – info@paxchristi.it – www.paxchristi.it
Coordinatore Nazionale di Pax Christi: d. Renato Sacco 348/3035658 – renatosacco1@gmail.com

Vedi anche i nostri post precedenti:


RESTIAMO UMANI Diciamo tutti NO ad ogni forma di odio e di razzismo!!!

RESTIAMO UMANI
Diciamo tutti NO ad ogni forma di odio e di razzismo!!!



Dalla bacheca facebooke di Matteo Salvini
Le parole del ministro Salvini erano giunte, come al solito, “misurate” nei toni e nei modi. Come una persona qualunque che chiacchiera al bar, il titolare del Viminale, cioè del dicastero che dovrebbe provvedere alla sicurezza dei cittadini, appena giunta la notizia dell’uccisione del vice brigadiere a opera – si diceva – di due nordafricani - aveva subito twittato: «Caccia all’uomo a Roma, per fermare il bastardo che stanotte ha ucciso un Carabiniere a coltellate. Sono sicuro che lo prenderanno, e che pagherà fino in fondo la sua violenza:lavori forzati in carcere finché campa». Sotto una valanga di odio: dal «Maledetto. Ancora c’è gente che dice di farli entrare nel nostro paese», all’«ammazzatelo subito», al «rimpatrio a nuoto», all’«ancora parlano di integrazione». Non era stata da meno Giorgia Meloni che aveva parlato del carabiniere «ammazzato da 2 animali, probabilmente magrebini, ancora latitanti» e aveva espresso la sua «tanta rabbia e profonda tristezza, l’Italia non può più essere il punto di appordo di queste bestie».

Il «dagli agli immigrati» era immediatamente partito nonostante il colore bianco della pelle degli aggressori. Perché ormai in Italia sono loro il capro espiatorio di qualunque cosa non vada. ...



Forse qualcuno dei nostri concittadini dovrebbe leggersela, la biografia di Mario Cerciello Rega, il carabiniere ammazzato l’altro ieri sera a Roma (pare) da due americani, uno dei quali reo confesso, (pare) per il sequestro di una borsa piena di cocaina. Un ragazzo di 35 anni, appena sposato, che oltre a far rispettare la legge, ogni martedì sera si dedicava ai senza fissa dimora che vivono nei pressi della Stazione Termini. Un buonista, l’avrebbe definito in vita chi ieri ha fatto finta di piangerlo, convinto che prima o poi gli assassini nordafricani sarebbero spuntati davvero. Che la tragedia umana di una famiglia appena nata e già distrutta, sarebbe stata l’ennesima occasione per scatenare un pogrom verbale sui social network, per aizzare l’odio sociale nei confronti dello straniero, per far fare ancora mezzo giro di vite alla compressione delle nostre libertà individuali.

Non è successo, ma c’è poco da esserne felici. Perché il colore della pelle dei suoi assassini non fa certo tornare in vita Mario Cerciello Rega, né cancella l’efferatezza del gesto, in un Paese che deve piangere il secondo carabiniere ucciso nel giro di pochi mesi, dopo Vincenzo Carlo di Gennaro, ammazzato in pieno centro a Foggia a Cagnano Varano lo scorso 13 aprile. E forse di questo bisognerebbe parlare, anziché di “lavori forzati in carcere finché campa” (Salvini) e di “carcere a casa loro” (Di Maio), che per una volta è riuscito a superare in pregiudizi e razzismo persino il suo finora inarrivabile collega ...
...

E invece no. La mannaia anti-buonista si abbatte sulla morte di Mario Cerciello Rega e cala anche questa volta contro gli ultimi, quelli che lo stesso carabiniere aiutava, come se la questione della sua morte si risolvesse ancora una volta con la chiusura dei confini e dei porti, fomentando ulteriormente l’odio di chi sui social già esultava alla morte di 150 persone nel Mediterraneo - con le foto dei figli sull’immagine del profilo, accompagnata dallo slogan “verità per Bibbiano” - definendole mangime per i pesci, come uno sprezzo che, stavolta, davvero non ha niente di diverso rispetto a quello dei nazisti verso gli ebrei.

E in fondo, in questa paradossale triangolazione di eventi, si legge in controluce quella che è l’Italia di oggi. Un Paese incapace di esaltare e celebrare come dovrebbe la bontà d’animo, di prenderla ad esempio, nemmeno quando si accompagna al vissuto di una morte che fa notizia. Un Paese bisognoso ogni volta del capro espiatorio perfetto per appagare il suo gigantesco bisogno di remissione dei peccati, come se la morte di un carabiniere per mano di due nordafricani, anziché di due nordamericani, cancellasse le responsabilità di un ministro, o di una sindaca. Un Paese in cui assurge a polemica del giorno la richiesta di togliere la scorta a Saviano - che finisca ammazzato pure lui come Mario Cerciello Rega? - solo perché chiede di non strumentalizzare la tragedia, quando ancora si pensava che i colpevoli fossero nordafricani. Un Paese che non nasconde più il suo odio razziale, ma lo ostenta e lo abbevera in ogni possibile occasione, sia quando viene ammazzato un carabiniere - “Sono stati due nordaricani, due risorse, come direbbe Laura Boldrini”, ha commentato a cadavere ancora caldo Mario Giordano, maitre a penser del salvinismo -, sia quando centocinquanta esseri umani muoiono in mezzo al Mediterraneo. Un Paese che mastica e sputa indignazione a ciclo continuo, senza alcuna coerenza. Se non quella, per l’appunto, dell’odio nei confronti degli stranieri e di chi li aiuta. Anche quando è un carabiniere morto ammazzato sulle strade di Roma.

Quattro aggressioni negli ultimi 10 giorni a Foggia, 9 i ragazzi feriti mentre andavano nei campi L’allarme: «Regia comune». E cresce la paura: «Ci inseguono anche con le auto, vogliono investirci»

«Erano le 4 di mattina e stavo andando al lavoro in bicicletta coi miei quattro amici. Ho solo visto un’auto che veniva verso di me e un sasso che mi arrivava addosso. Mi ha colpito sull’occhio e sono caduto contro un altro ragazzo. Avevo paura di essere investito. Poi sono svenuto e non ricordo più nulla. Era buio e non ho visto quanti erano su quella macchina». È il racconto di Kemo Fatty, 22 anni del Gambia, il ragazzo ferito il 23 luglio alla periferia di Foggia.

Drammatici fatti di cronaca, anche di questi giorni, scatenano spesso, per non dire sempre, vere e proprie tempeste di odio razziale (nei confronti degli immigrati oppure dei rom), per non dire, poi, di quelle contro la comunità LGBT. Ma come nasce l’odio on line? Ne parliamo, in questa intervista, con Stefano Pasta. Pasta, giornalista professionista, è ricercatore al Centro di Ricerca sull’Educazione ai media dell’Informazione e alla Tecnologia (CREMIT - www.cremit.it) dell’Università Cattolica, diretto da Pier Cesare Rivoltella (che firma la prefazione) ed è autore del libro: Razzismi 2.0. Analisi socio-educativa dell'odio online, Scholé-Morcelliana, 2018. Prefazione di Pier Cesare Rivoltella - Postfazione di Milena Santerini 

Stefano Pasta, il tuo libro è una documentatissima ricerca sui "nuovi" razzismi 2.0. L'ambiente digitale fa assumere al fenomeno caratteristiche specifiche. Quali sono? 
Il titolo, Razzismi 2.0, è al plurale: le manifestazioni e le intenzionalità di chi agisce l’odio sono diverse. Durante la ricerca raccontata nel libro, ho chattato con ragazzi con un’adesione ideologica strutturata e con altri – molti di più – che ripetevano “mi stai prendendo troppo sul serio”, “ho fatto solo una battuta”. Ma la posta in gioco è seria: sono giovani che inneggiano alla Shoah, invocano le bottiglie incendiarie contro il centro profughi vicino a casa, insultano il tifoso della squadra avversaria commentano usando “ebreo” come parolaccia, minacciano di stuprare una coetanea che non la pensa come loro. Nel testo propongo una classificazione delle diverse forme di razzismo: a ciascuna corrispondono risposte educative differenti. 
...

Tu sei un pedagogista. Quali possono essere i percorsi di contrasto al razzismo 2.0? 
Provo a raccontarlo nella seconda parte del libro. Educare alla responsabilità nel Web, valutando la conseguenza delle nostre azioni. Anche dei nostri silenzi: gli studi sui genocidi ci dicono come, per l’affermazione del Male, sia funzionale la cosiddetta “zona grigia” e l’indifferenza di chi accetta senza agire. Occorre spingere gli spettatori ad assumere il ruolo di soccorritori, processo che può essere facilitato proprio dalla cultura partecipativa della Rete. Nella mia ricerca cercavo i razzismi ma ho incontrato, senza cercarli, tanti giovani disponibili ad attivarsi a favore di un Web dell’inclusione e non dell’esclusione: si tratta di un “capitale antirazzista” che non va sprecato, ma promosso e suscitato. Nel libro descrivo alcune proposte in questa direzione, oltre a censire una serie di campagne, app e progetti efficaci dall’Italia all’Australia. Uno strumento utile, rivolto ai vari ordini di scuole, è il Curriculum di Educazione Civica Digitale, emanato dal Ministero dell’Istruzione nel gennaio 2018. Due sono le parole chiave, senso critico e responsabilità, che vengono declinate nelle diverse aree, dall’educazione ai media alla creatività digitale, dall’educazione all’informazione al calcolo computazionale. ...



domenica 28 luglio 2019

"Un cuore che ascolta - lev shomea" - n. 38/2018-2019 (C) di Santino Coppolino

"Un cuore che ascolta - lev shomea"
Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)

Traccia di riflessione
sul Vangelo della domenica
di Santino Coppolino


Vangelo: Lc 11,1-13 


Il termine Padre, in riferimento a Dio, è presente nei Vangeli ben 185 volte ed è il grande dono che Gesù ci ha fatto, quello cioè di chiamare Dio con il nome di Padre. Abbà-Padre è la realtà di un Dio che per sempre è il Padre nostro, da quando Gesù, il Figlio, s'è fatto nostro fratello. Dopo averci svelato il suo mistero di Figlio e fratello, Gesù per mezzo della preghiera del Padre Nostro ci introduce nella paternità di Dio, affinché in essa possiamo desiderare tutto quanto ci occorre per viverla: Il Pane Eucaristico e lo Spirito Santo. Pane e Spirito sono i doni che dobbiamo domandare con sfrontatezza come viatico nel cammino notturno della nostra vita, anche quando la porta sembra sbarrata per sempre e il Padrone di casa assente. 
<<Lo Spirito e il Pane sono i doni che ci rendono partecipi della Vita divina e ci abilitano ad amare i fratelli. Ora, grazie al Pane di Vita, resi figli nel Figlio, per mezzo dello Spirito Santo possiamo gridare: "Abbà - Padre"!>> (cit.)


sabato 27 luglio 2019

"La preghiera secondo Gesù" di Enzo Bianchi - XVII domenica T.O. – Anno C

La preghiera secondo Gesù

Commento
 XVII domenica T.O.  – Anno C

Letture:  Genesi 18,20-32; Salmo 137; Colossesi 2,12-14; Luca 11,1-13


Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite:
“Padre,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
e perdona a noi i nostri peccati,
anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
e non abbandonarci alla tentazione”».
Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. 
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».


Il brano del vangelo di questa domenica è in realtà composto di tre parti: la preghiera di Gesù (vv. 1-4), la parabola dell’amico insistente (vv. 5-8) e infine la sua applicazione (vv. 9-13). Tutto il brano si regge sull’informazione dataci da Luca a proposito degli atteggiamenti di Gesù durante il viaggio verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51). Anche in questo camminare Gesù si fermava, sostava e pregava: i discepoli lo vedevano impegnato in questa azione fatta certamente in un modo che li colpiva e li interrogava.

Proprio alla fine di una di queste soste in preghiera, non sappiamo in quale ora della giornata, se al mattino o alla sera, un discepolo gli chiede di insegnare a tutta la comunità come pregare, sull’esempio di ciò che aveva fatto Giovanni il Battista con quanti lo seguivano. In risposta, Gesù consegna una preghiera breve, essenziale che Luca e Matteo (cf. Mt 6,9-13) ci hanno trasmesso in due versioni. Quella di Luca è più breve, costituita innanzitutto da due domande che hanno un parallelo nella preghiera giudaica del Qaddish: la santificazione del Nome e la venuta del Regno. Seguono poi tre richieste riguardo a ciò che è veramente necessario al discepolo: il dono del pane di cui si ha bisogno ogni giorno, la remissione dei peccati e la liberazione dalla tentazione. Preghiera semplice quella del cristiano, senza troppe parole, ma piena di fiducia in Dio – invocato come Padre – nel suo Nome santo, nel suo Regno che viene. Avendo commentato più volte il “Padre nostro”, vorrei qui sostare piuttosto sui versetti seguenti, quelli che contengono la parabola e la sua applicazione.

Questa parabola è riportata solo da Luca, il quale vuole presentare la preghiera di domanda come preghiera insistente, assidua, che non viene meno ma che sa mostrare davanti a Dio una determinazione e una perseveranza fedele. Gesù intriga gli ascoltatori, li coinvolge e per questo, invece di raccontare una storia in terza persona, li interroga: “Chi di voi…?”. È una parabola che narra ciò che può accadere a ciascuno degli ascoltatori:

Chi tra voi, se ha un amico e va a casa sua a mezzanotte e gli dice: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”, lo sente rispondere dall’interno: “Non procurarmi molestie! La porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me! Non posso alzarmi per darteli”? Vi dico: anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua insistenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.

Parabola semplice, che vuole mostrare come l’insistenza di una domanda provochi la risposta anche da parte di chi, pur essendo amico, sulle prime non è disposto a esaudirla. Sì, è l’insistenza (persino noiosa!) dell’amico e non il sentimento dell’amicizia a causare l’esaudimento e il conseguente dono: con la sua ostinata domanda un amico importuno può fare cambiare parere a un altro amico importunato.

Proprio perché le cose vanno così, Gesù allora commenta:

Chiedete e vi sarà dato,
cercate e troverete,
bussate e vi sarà aperto.

È vero che non si usa esplicitamente il verbo “pregare”, ma è evidente che Gesù si riferisce sempre alla preghiera, proprio in risposta alla domanda iniziale del discepolo. Chiedete – raccomanda Gesù – cioè non abbiate paura di chiedere a Dio che è Padre, chiedete con semplicità, sicuri di essere esauditi da chi vi ama, e chiedete senza stancarvi mai. Si tratta di cercare con la convinzione della necessità della ricerca, con la convinzione che c’è qualcosa che vale la pena di essere cercato, a volte faticosamente, a volte lungamente, ma occorre essere certi che prima o poi si giungerà a trovare. Dove c’è una promessa, si tratta di attendere vigilanti, di cercarne l’esaudimento. Si tratta anche di bussare a una porta: se si bussa, è perché c’è speranza che qualcuno dal di dentro apra e ci accolga, ma a volte occorre bussare ripetutamente…

Di conseguenza, ci poniamo subito la domanda: perché Dio ha bisogno di essere più volte supplicato, perché vuole essere cercato, perché vuole che bussiamo ancora e ancora? Ne ha così bisogno? No, siamo noi che abbiamo bisogno di chiedere, perché siamo dei mendicanti e non vogliamo riconoscerci tali; siamo noi che dobbiamo rinnovare la nostra ricerca di ciò che è veramente necessario; siamo noi che dobbiamo desiderare che ci sia aperta una porta, in modo da poter incontrare chi ci accoglie. Dio non ha bisogno della nostra insistente preghiera, ma siamo noi ad averne bisogno per imprimerla nelle fibre della nostra mente e del nostro corpo, per aumentare il nostro desiderio e la nostra attesa, per dire a noi stessi la nostra speranza.

Ma a questa parabola e al suo primo commento Gesù aggiunge un’altra applicazione, sempre breve e sempre in forma interrogativa:

Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà forse una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà forse uno scorpione? O se gli chiede un pane, gli darà forse un sasso (quest’ultima aggiunta è presente solo in una parte della tradizione manoscritta)?

Ecco, questo non avviene tra un padre e un figlio, perché il legame di sangue impedisce un simile comportamento paterno, anche in caso di scarso affetto. A maggior ragione – dice Gesù – se questo non avviene tra voi che siete cattivi, eppure sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre che è nel cielo darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono.

Quest’ultima parola di Gesù è stata meditata poco e con poca intelligenza dagli stessi cristiani negli ultimi secoli. Gesù sa, e per questo lo dice con franchezza, che noi umani siamo tutti cattivi (poneroí), perché in noi c’è una pulsione, un istinto a pensare a noi stessi, ad affermare noi stessi, alla philautía, l’amore egoistico di sé. Eppure, anche se questa è la nostra condizione, siamo capaci di azioni buone, almeno nel caso di un rapporto famigliare tra padre e figlio. Ebbene, se noi, pur nella nostra cattiveria, diamo cose buone ai figli che ce le chiedono, quanto più Dio, che “è il solo buono” (agathós: Lc 18,19), darà cose buone a chi gliele chiede! Ma come dimenticare che sovente abbiamo fatto di Dio un padre più cattivo dei nostri padri terreni? Scriveva Voltaire: “Nessuno vorrebbe avere come padre terreno Dio”, ed Engels gli faceva eco: “Quando un uomo conosce un Dio più severo e cattivo di suo padre, allora diventa ateo”. È così, ed è avvenuto così perché i cristiani hanno dato un’immagine di Dio come giudice severo, vendicativo e perverso, fino a spingere gli umani ad abbandonare un tale Dio e a negarlo! Gesù invece ci parla di un Dio Padre più buono dei padri di cui abbiamo fatto esperienza, insegnandoci che sempre Dio ci dà cose buone quando lo invochiamo.

Ma in questo brano c’è una precisazione importante e decisiva a proposito della preghiera. Luca si discosta dalla versione di queste parole di Gesù fornita da Matteo, perché sente il bisogno di chiarirle e di spiegarle. Sì, è vero che Dio ci esaudisce con cose buone (cf. Mt 7,11), ma queste non sempre sono quelle da noi giudicate buone. La preghiera non è magia, non è un “affaticare gli dèi” – come scriveva il filosofo pagano Lucrezio (La natura delle cose IV,1239) – o uno stordire Dio a forza di parole moltiplicate, dice altrove Gesù (cf. Mt 6,7-8). Dio non è a nostra disposizione per esaudire i nostri desideri, spesso egoisti ma soprattutto ignoranti, in senso letterale: non sappiamo ciò che vogliamo! Ecco perché – precisa la versione lucana – “le cose buone” sono in realtà “lo Spirito santo”. Sempre Dio ci dà lo Spirito santo, se glielo chiediamo nella preghiera, e lo Spirito che scende nella nostra mente e nel nostro cuore, lui che si unisce al nostro spirito (cf. Rm 8,16), è la risposta di Dio. Ma è bene fare un esempio, a costo di essere brutali. Se io, affetto da una grave malattia, chiedo a Dio la guarigione, non è detto che questa si verifichi effettivamente, ma posso essere certo che Dio mi darà lo Spirito santo, forza e amore per vivere la malattia in un cammino in cui continuare ad amare e ad accettare che gli altri mi amino. Questo è l’esaudimento vero e autentico, questo è ciò di cui abbiamo veramente bisogno!


“Che se li prenda il Vaticano”: ecco perché la questione migranti rischia di spaccare la Chiesa ... ma il Papa ha agito nell’unico modo in cui un Papa avrebbe potuto fare: predicando l’accoglienza e la carità


“Che se li prenda il Vaticano”:
ecco perché la questione migranti rischia di spaccare la Chiesa
... ma il Papa ha agito nell’unico modo in cui un Papa 
avrebbe potuto fare: predicando l’accoglienza e la carità

Nonostante la presa di posizione di Francesco a favore dell’accoglienza sia del tutto coerente con il dettato evangelico, sono sempre di più i cattolici che esprimono il loro dissenso, scollandosi dalla Chiesa e dai suoi rappresentanti. Le conseguenze di questa divisione possono essere gravissime


Bianco Padre che da Roma / ci sei meta luce e guida / in ciascun di noi confida, / su noi tutti puoi contar. Siamo arditi della fede, / Siamo araldi della Croce, / al tuo cenno alla tua voce, / un esercito all'altar.

Così recitava l’inno dell’Azione Cattolica che molti di noi ricordano di aver cantato da bambini, a squarciagola. L’autore di questi versi è sconosciuto, ma nessuno si è mai preoccupato veramente di rintracciarne la paternità. Quello che l’ardore di quelle parole esprimeva era un comune sentire così diffuso tra i cattolici che si poteva quasi intendere quell’inno una composizione “collettiva”; c’era solo stato qualcuno che aveva messo su carta quello che ciascuno credeva fermamente.

Se c’è stato finora un carattere distintivo della Chiesa cattolica, infatti, è certamente da rinvenirsi nell’unità di intenti tra il Soglio di Pietro e il Popolo di Dio. Tale alleanza aveva in passato più volte reso i cattolici non italiani invisi ai loro stessi governanti. I “papisti” (così li chiamavano con disprezzo i protestanti) erano pessimi cittadini che, di fronte alla scelta se ubbidire al Papa o all’Imperatore, avrebbero sempre e comunque scelto il primo.

Il Papa è da sempre avvolto da un’aura di sacralità che lo rende una figura sospesa tra cielo e terra. Fino a non molto tempo fa persino l’entrare in contatto con il suo corpo era mediato da una ritualità codificata. Addirittura, nel 1870, il Concilio Vaticano I stabilisce il dogma dell’infallibilità papale: quando “esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani”, in materia di dottrina intorno alla fede e ai costumi, il Papa non può essere in errore. E se è vero che i casi in cui si possa affermare con certezza che i pontefici siano ricorsi a questa prerogativa sono pochissimi (secondo qualcuno solo uno) è altrettanto vero che il magistero pontificio è stato da sempre considerato quasi (talvolta anche senza “quasi”) dotato della stessa autorevolezza delle Sacre Scritture nell’orientare l’agire e il credo dei cattolici.

Essere in disaccordo con il magistero petrino è sempre stato ovviamente possibile ma, finora, chi manifestava il proprio dissenso si collocava automaticamente ai margini della Chiesa

Per amore di verità dobbiamo dire che, specie in materia di etica sessuale, c’è in atto da tempo uno scollamento tra gli insegnamenti della Chiesa e la vita dei cattolici, tanto che qualcuno ha parlato di “scisma sommerso”. Tuttavia la scelta deliberata di non attenersi all’insegnamento della Chiesa per quel che riguarda l’utilizzo degli anticoncezionali o dei rapporti prematrimoniali (giusto per fare due esempi tra i più frequenti) specie da parte dei cattolici più assidui nella frequenza della Messa, è sempre stato vissuto con un certo senso di colpa. Non solo, ma, complice anche il pudore che comunque ancora accompagna la sfera in questione, non è certo consueto vedere cattolici praticanti inneggiare alla libertà di utilizzare il preservativo o alla possibilità di non arrivare vergini al matrimonio.

Essere in disaccordo con il magistero petrino è sempre stato ovviamente possibile ma, finora, chi manifestava il proprio dissenso si collocava automaticamente ai margini della Chiesa e, non di rado, usciva più o meno volontariamente dal “sacro recinto” (pensiamo a quanto accaduto con lo scisma dei Lefebvriani). Talvolta i dissenzienti erano invece rappresentati da un gruppo sparuto di fedeli che spesso era in polemica con la Chiesa perché riteneva quest’ultima meno radicale di quanto avrebbe dovuto nell’applicazione degli insegnamenti del Vangelo (pensiamo a quanto accaduto con le Comunità di base). Chi rimaneva dentro continuava a formare convinto il variegato “esercito all’altar” che non a caso, tra i fanti, annoverava i giovani che, regnante Giovanni Paolo II, si erano autodefiniti “Papa Boys”.

Questa unione naturalmente forte tra il Vicario di Cristo e il popolo dei fedeli mostra però oggi preoccupanti segni di cedimento e rischia di naufragare definitivamente intorno alla questione migranti. Quello che sta accadendo intorno a questo tema è un fatto assolutamente inedito nella storia della Chiesa e rappresenta un precedente della cui gravità gli stessi cattolici non sono pienamente consapevoli.

Siamo di fronte a un vero e proprio scisma, uno scisma forse inconscio ma non per questo meno grave, che avrà forti ripercussioni non solo sulla Chiesa di Francesco ma sull’organizzazione stessa che la Chiesa ha trovato lungo i secoli.

Ma – ci si chiederà – in che modo i “barconi” insidiano l’unità della Chiesa? Com’è noto, il tema “migranti” ha assunto da almeno due anni a questa parte una grande rilevanza all’interno del dibattito pubblico e dell’agenda dei media e, come sappiamo, il grande spauracchio dell’ “invasione” ha portato alla graduale ed esponenziale crescita di consensi verso la Lega ed il suo leader Salvini.

Di fronte alla crescita nel Paese di sentimenti di ostilità verso gli immigrati e all’aumentare di episodi di vero e proprio razzismo, il Papa ha agito nell’unico modo in cui un Papa avrebbe potuto fare: predicando l’accoglienza e la carità, secondo quanto insegnato dal Vangelo.

E qui il patto di fiducia degli italiani verso il “Papa venuto dalla fine del mondo” non solo si è incrinato ma ha cominciato a mostrare i segni visibili di una pericolosa frattura. Ci siamo dunque trovati di fronte a una situazione paradossale nella quale da un lato abbiamo un leader politico che impugna il Rosario e affida la sua azione di protezione dei “patri confini” al Cuore Immacolato di Maria, dall’altra abbiamo il Vicario di Cristo che in nome degli stessi valori professati dal primo predica l’esatto contrario. Da un lato c’è un cattolicesimo inteso come elemento identitario, fatto anche e soprattutto di usi e pratiche di devozione, dall’altro c’è il cristianesimo che ha al suo cuore la “caritas”, l’amore incondizionato verso l’altro, chiunque egli sia, senza “se” e senza “ma”.

Il paradosso sta nel fatto che molti cattolici abbiano cominciato a ritenere che abbia ragione il primo (Salvini) e torto l’altro (il Papa). La paura dell’uomo nero (perché di questo si tratta… episodi simili non sono stati registrati con l’arrivo dei cinesi o degli slavi) ha portato molti cattolici praticanti a rifiutare l’insegnamento e gli appelli di Francesco all’accoglienza e all’amore verso i più sfortunati. “Che li prenda in Vaticano” è il commento più letto sui social. Non solo ma il Papa ha cominciato a essere dipinto come nemico della Chiesa e (ci mancherebbe) dell’Italia, suscitando dovunque sentimenti di avversione e di contestazione, con l’immancabile corollario di esempi di Italiani in difficoltà verso i quali, secondo i leoni da tastiera, la Chiesa non muove nemmeno un dito.

Di fronte ai sentimenti di ostilità verso gli immigrati e all’aumentare di episodi di vero e proprio razzismo, il Papa ha agito nell’unico modo in cui un Papa avrebbe potuto fare: predicando l’accoglienza e la carità

È assolutamente emblematico dell’attuale situazione civile e sociale italiana il fatto che il larghissimo consenso verso uno dei papi più amati della storia recente e con il maggior livello di fiducia e simpatia anche tra i laici si sia infranto proprio sulla questione accoglienzache, per dirla tutta, dovrebbe invece costituire l’elemento fondante della fede cristiana (“ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito”…)

La diatriba tra un cattolicesimo identitario e un cattolicesimo vissuto “sine glossa” in realtà comincia da ben prima di Francesco e aveva trovato terreno fertile in alcuni elementi del magistero di Benedetto XVI (ricordate gli atei devoti?). Non a caso, dunque, oggi acquista nuova linfa e giustificazione proprio dalla situazione eccezionale della coesistenza di due papi: il papa regnante e il papa emerito. Molti cattolici si sentono liberi di ritenere in errore Francesco e appellarsi pacificamente al magistero di Benedetto XVI, poco importa poi che questo sia usato in maniera strumentale finendo per far dire al Papa emerito cose che magari non si sarebbe nemmeno sognato di pensare. Questi cattolici “pseudo-ratzingeriani” possono dunque continuare a frequentare con devozione la Messa e accostarsi alla comunione senza avvertire sulla coscienza il pungolo della disobbedienza e del peccato (a sbagliare è l’altro papa, l’impostore).

Il papa tedesco “antipatico” è diventato suo malgrado la star e il papa “argentino”, santificato sin dal giorno dopo il suo insediamento sul soglio di Pietro, si trova ora nella scomoda posizione del nemico della nazione. Sic transit gloria mundi… è proprio il caso di dirlo.

Dal canto loro molti parroci, onde evitare di esacerbare l’animo dei fedeli e di dare vita a dolorose fratture nelle comunità che guidano, hanno deciso di espungere totalmente i temi connessi all’immigrazione dalle loro omelie; per non parlare del silenzio che lentamente sta stendendo la sua ombra sulle missioni, da sempre punto identitario e di orgoglio della Chiesa.

Per i cattolici è assolutamente urgente chiedersi quali possano essere le conseguenze a lungo termine di una situazione di questo genere e quali ombre getti sul futuro della Chiesa l’accettare pacificamente che l’insegnamento del Papa non comporti alcun vincolo di natura morale e pratica per i fedeli.

C’è qualcuno che, appellandosi persino al contenuto di rivelazioni e apparizioni, indica in Francesco l’anticristo, l’ultimo papa. Non saranno forse gli stessi cattolici gli attori principali di una profezia che si autodetermina?