venerdì 14 dicembre 2018

«Abbandonare i social network? No, meglio restare dove c'è l'uomo»

«Abbandonare i social network? 
No, meglio restare dove c'è l'uomo»

Rabbia e disagio spopolano in rete? Padula, presidente del Copercom: «Si scarica ancora una volta la “colpa” sui tecnologia e sugli spazi digitali. Che sono invece in piena continuità con la realtà»


Un vecchio adagio popolare dice che genitori non si nasce, ma si diventa. E questo vale anche per tutte le figure educative (insegnanti, pastori, giornalisti) essenziali per la formazione umana, spirituale, culturale dei più giovani. Il verbo “diventare” esprime il valore di uno sforzo costante, quello del farsi continuamente carico della responsabilità dei propri ruoli. Al contrario, può essere interpretato come un compito troppo gravoso da sopportare e trasformarsi in immaturità, immobilismo, negligenza e fuga dai propri obblighi.

Nella società iperconnessa il senso del diventare genitori fa ancora più fatica a emergere, schiacciato non solo dall’impercettibilità della Rete e dei suoi derivati, ma anche da quel «troll interiore» (così lo definisce l’informatico Lanier su “Avvenire”, lo scorso 25 novembre) che «sul web ci porta a dare il peggio di noi». Quando questo accade, la cosa migliore non è però certamente andarsene, come suggerisce lo stesso Lanier. Anzi bisogna restare esattamente lì, dove è l’uomo, rendendosi conto una volta per tutte che la «Rete digitale - come scrive papa Francesco nel Messaggio per la 48ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali - non è una rete di fili, ma di persone».

Essere persona significa anche scontrarsi con le proprie vulnerabilità, acquisirne gradualmente coscienza e provare a tradurre le macerie della nostra esistenza in edifici sorretti stabilmente dalla dignità. Possiamo farlo in tanti modi. Uno di questi è la (ri)scoperta del valore della relazione come collante comunitario ed espressione fattiva del nostro umano.

L’incontro con l’altro, però, non è operazione facile. Anzi spesso è un tale dispendio di energie che preferiamo isolarci, diventare dei reclusi sociali. Come gli hikikomori, figure mitologiche usate ad hoc sia per definire il comportamento di alcuni ragazzi che preferiscono rinchiudersi nella propria camera sia per scaricare ancora una volta la “colpa” sui dispositivi tecnologi e sugli spazi digitali. Gli eremiti senza Cielo sono sempre esistiti e fanno parte di quella minuscola (grazie a Dio) porzione di popolazione che ha problemi relazionali e si rifugia in qualcos’altro. Che può anche essere un videogioco o un social network, ma anche qualcosa che di tecnologico ha poco o niente.

Eppure isolamento e tecnologia sono spesso interpretate l’una come la conseguenza dell’altra, se si prende per buona la tesi della psicologa Bardi (su “Avvenire” del 28 novembre) secondo cui «i ragazzi sono sempre più lontani dalle pareti delle aule scolastiche, immersi in un mondo immateriale, un mondo parallelo a quello reale, che ha profondamente modificato le modalità di apprendimento e di comunicazione, con tutte le potenzialità e i rischi che ciò comporta».

Si tratta di una dichiarazione probabilmente fondata su evidenze scientifiche, ma che dimentica come la rete sia percepita in perfetta continuità con la realtà quotidiana e non come un universo a parte. Questa dualità rischia, infatti, di sbiadire la bellezza di una gioventù digitale meravigliosa e creativa e, nello stesso tempo, di scoraggiare quegli adulti che forse desiderano capire qualcosa di più dell’universo del web, entrandoci sottovoce e senza pregiudizi e paure.

Lanier ha perfettamente ragione quando, a conclusione della sua intervista, consiglia ai ragazzi di passare un po’ di tempo al di fuori dell’ambiente social (estenderei il consiglio anche agli adulti). Ma la conoscenza di sé non è un processo parziale. Essa comprende ogni spazio, ogni tempo e ogni opportunità della nostra esistenza. Compresa quella online, sempre meno artificiale e sempre più metafora della nostra qualità etica, e per questo nient’altro che vita reale.

Andarsene da lì, dunque, è come vedere da un solo occhio, ascoltare con un solo orecchio, camminare su una gamba sola. Ci riduce e ci comprime, snaturando l’essenza di ciò che siamo: donne e uomini capaci di diventare persone autentiche e responsabili. Per questo, genitori non si nasce ma si diventa, anche prendendosi carico delle esperienze online.
(fonte:Avvenire, articolo di Massimiliano Padula 13/12/2018)