domenica 14 ottobre 2018

Mons. Romero: “Non stiamo parlando alle stelle” di Giulio Albanese

Mons. Romero: “Non stiamo parlando alle stelle” 
di Giulio Albanese


È legittimo domandarsi quale sia l’eredità di monsignor Oscar Arnulfo Romero a quasi quarant’anni dalla sua cruenta scomparsa. È evidente che oggi, per la società salvadoregna, la sua testimonianza continua ad essere straordinariamente profetica. Egli, infatti, diede la propria vita per la causa degli ultimi, proponendo un modo diverso, per certi versi “rivoluzionario”, di vivere il messaggio evangelico nella realtà concreta latinoamericana. E se da una parte è vero che questo coraggioso pastore sperimentò incomprensioni a non finire – in vita, ma anche dopo la morte – dall’altra, chi ebbe modo di conoscerlo da vicino rimase colpito dall’umiltà del tratto, dal suo spirito di preghiera, dalla indiscussa fedeltà al Vangelo e alla Chiesa, soprattutto dal grande amore che egli nutriva nei confronti dei poveri, i suoi amati campesinos.


In effetti, le questioni di fondo che assillano le periferie geografiche ed esistenziali latinoamericane – ingiustizie abissali, distribuzione iniqua dei redditi, mancato rispetto dei diritti umani fondamentali – rimangono tuttora irrisolte. Il fatto stesso che nel lessico della gente si parli oggi con disinvoltura di “democradure”, una sorta di crasi tra democrazia e dittatura, la dice lunga sull’attualità del messaggio di Romero, in un contesto continentale dove la Chiesa è chiamata a dare voce “ai senza voce”, ai “senza terra”, a coloro che patiscono l’esclusione sociale. Nei tradizionali congressi missionari americani (Cam) che si sono svolti in questi anni nel continente, riunendo evangelizzatori dall’Alaska alla Terra del Fuoco, il pensiero di Romero è stato spesso fonte d’ispirazione. Con il risultato che il suo “torto” – quello che gli attirò incomprensioni e accuse durissime, anche all’interno della Chiesa – è oggi riconosciuto, particolarmente in America Latina, come un merito. Egli infatti si esprimeva sempre con libertà e franchezza evangelica, affermando la “parresia”, il coraggio di osare, come attestano le famose prediche domenicali alla Messa delle otto, nelle quali, dopo aver commentato le Scritture, ne confrontava gli insegnamenti con la situazione del suo Paese.

Questa osmosi tra Parola di Dio e la vita del popolo è stata la principale caratteristica del suo modo di attualizzare la Buona Notizia: “Non stiamo parlando alle stelle”, amava ripetere.

Di fronte alla stanchezza e la rassegnazione, monsignor Romero offrì un messaggio in “otri nuovi”, consapevole della posta in gioco. Nel contesto della nostra Chiesa italiana, la sua testimonianza di vita trovò accoglienza innanzitutto e soprattutto negli ambienti del mondo missionario. Basti pensare al fatto che il 24 marzo del 1993 si celebrò a livello nazionale la prima Giornata dei martiri missionari, istituita dal Movimento giovanile missionario delle Pontificie opere missionarie. Una memoria, con scadenza annuale, nel nome dell’arcivescovo salvadoregno, assassinato il 24 marzo di tredici anni prima, mentre consacrava l’eucaristia. I giovani delle comunità parrocchiali italiane vollero così dare un segno di compartecipazione alla “passione” che la Chiesa missionaria, con la lode, il digiuno e l’elemosina, offre annualmente in Quaresima.

Naturalmente, sono state molte le realtà che negli anni si sono mobilitate nel promuovere la conoscenza di monsignor Romero nel nostro Paese. Basti pensare alla Comunità di Sant’Egidio il cui consigliere spirituale, l’arcivescovo Vincenzo Paglia è postulatore della causa di canonizzazione dell’arcivescovo salvadoregno. A ciò si aggiunga la sensibilità di tanti gruppi di preghiera e d’impegno nel sociale, con radicamento parrocchiale, diocesano o legati alla vita consacrata, che hanno trovato nel martire Romero un modello di santità, controcorrente, certamente scomodo ma, senza ombra di dubbio, credibile perché capace di vivere il Vangelo, offrendo la propria persona per la causa del Regno. Da rilevare che la lapide posta sulla sua tomba riporta fedelmente il suo motto episcopale: “Sentir con la Iglesia”. La sua vocazione è stata, infatti, fin dall’inizio del suo ministero presbiterale, quello di vivere il messaggio cristiano restando fedelmente ancorato alla Chiesa.

Una Chiesa dei poveri che Romero servì fedelmente nei tre anni in cui svolse il ministero episcopale come arcivescovo di San Salvador, sempre attento al grido del suo popolo.

Come scrisse di lui un suo grande estimatore, il compianto cardinale Carlo Maria Martini, Romero è stato “un vescovo educato dal suo popolo”.




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