mercoledì 29 agosto 2018

«Riportarli indietro?» Ormai nessuno può far finta di non vedere i lager e le torture in Libia. E’ un problema di umanità!

«Riportarli indietro?» 
Ormai nessuno può far finta di non vedere i lager e le torture in Libia. 
E’ un problema di umanità!

«Riportarli indietro? Pensateci bene». 
I filmati che il Papa ha voluto vedere

Una Procura della Repubblica ha richiesto e acquisito, il 28 agosto, i video dei lager libici mostrati a papa Francesco di cui Avvenire ha dato notizia. I reportage del nostro giornale sui centri in Libia sono stati acquisiti dalla Corte Internazionale di giustizia dell'Aja.

Il nastro da pacchi usato per tappargli la bocca è l’unica immagine che lo sguardo può reggere. Il resto, toglie il sonno. Le sprangate. Il machete e il pugnale che trafiggono. Il ragazzo africano legato mani e piedi, denudato perché il martirio si veda. E lui che striscia, che si dibatte, che urla mentre le guance si gonfiano perché non possono dare fiato al pianto dei dannati. Ha visto questo papa Francesco. Ha voluto che gli venissero mostrati quei video dei lager libici arrivati attraverso il tam tam degli smartphone di chi, invece, ce l’ha fatta ad uscirne vivo. «Ho visto un filmato in cui si vede cosa succede a coloro che sono mandati indietro – ha detto Bergoglio ai giornalisti tornando dall’Irlanda -. Sono ripresi i trafficanti. le torture più sofisticate». Francesco aveva saputo che persone a lui vicine erano in possesso dei video che dimostrano senza dubbio alcuno quale sia la condizione delle migliaia di persone imprigionate nei campi dei trafficanti di uomini.

Fermo immagine dal video dei lager libici
I filmati mostrati settimane addietro a Bergoglio sono pagine di spaventosa crudeltà. La conferma che la Libia non è affatto quel "porto sicuro" per chi scappa da fame e guerre. Il pontefice, in silenzio, ha osservato quei drammi, prima solo raccontati dalle cronache, e adesso visibili agli occhi. Nessuno che abbia visto, può dimenticare lo sguardo spalancato sull’inferno del ragazzo che implora come può, con le lacrime, mentre scalcia per allontanare i torturatori. Lui a terra e loro addosso. Almeno cinque e nessuno che smetta. Si divertono mentre picchiano più duro. Lo pugnalano trasformando il volto del ragazzo in una poltiglia, fino a quando la pelle nera si ricopre di sangue e polvere e si impasta nel fango che ha il colore della morte, ma la morte non arriva. Nella stanza delle torture il ragazzo cerca una fuga che non c’è. Non molla, il ragazzo. Incassa i colpi, ma non vuole svenire. Poi l’altro vigliacco, quello con il telefonino, si porta più vicino, perché i destinatari del filmato, forse i parenti a cui chiedere altri soldi, corrano a indebitarsi per mettere fine a quel supplizio. E lui, il ragazzo che era nero e adesso è solo sudore e porpora, lotta ancora tra l’istinto di sopravvivenza e il desiderio che l’uomo fattosi mostro, quello che con una mano lo sta mutilando a colpi di machete e con l’altra impugna una rivoltella, si decida a premere il grilletto. E la faccia finita. Poi il video, girato con mano ferma e inquadrature studiate, come di chi non è certo nuovo alla dannazione degli ultimi, si interrompe.

Chissà se quel ragazzo è ancora vivo. Se qualcuno ha pagato un riscatto. Se è moribondo e ora, cambiato per sempre, è saltato su un barcone. Se è stato salvato e portato al sicuro, in Europa. Oppure se è stato intercettato e riportato indietro nello scannatoio dei migranti.

Fermo immagine dal video dei lager libici
Non è il solo filmato che ha visto papa Francesco. Ha voluto guardarle. il pontefice, quelle immagini. Nei filmati non c’è solo il dolore, lo spavento, il pianto di chi subisce e le lacrime di chi guarda. C’è la smorfia dell’essere umano dalla faccia normale, che in un istante svela un’altra natura. E percuote, sadico e spietato, per gusto e per danaro. Per intimorire gli schiavi e le schiave. O per vantarsi con gli altri d’essere capace di afferrare un uomo, deperito e inerme, oramai abituato alle botte e alle minacce, convinto che anche stavolta gliele daranno ma lui sopravvivrà. Mentre lo afferra per i capelli, all’assassino bastano nove secondi per uccidere e gettarne via la testa.

Perciò, aveva detto a ragione il Papa alludendo a chi vorrebbe respingerli, prima di «mandarli indietro si deve pensare bene».

Plastica fusa sulla schiena, frustate su tutto il corpo: tutto ripreso con i cellulari e poi inviato ai parenti delle vittime. Il governo libico: «Catturati gli aguzzini autori delle torture»


"Ho curato 300mila persone e vi dico che 
la Libia è un porto di morte" 
intervista a Pietro Bartolo 

Quelle immagini che raccontano violenze, torture e soprusi le ha viste per primo: gliele hanno consegnate alcuni dei migliaia di migranti che negli ultimi anni ha visitato a Lampedusa. E lui, il dottor Pietro Bartolo, responsabile del poliambulatorio dell’isola al centro del Mediterraneo, protagonista del film di Rosi "Fuocoammare" che nel 2016 vinse l’Orso d’oro di Berlino, i video li ha girati al cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, che a sua volta li ha fatti avere alla Santa Sede. Così le testimonianze degli orrori in Libia sono giunte davanti agli occhi di Papa Francesco: «Chi fugge da quel Paese non fugge da un porto sicuro, come dice Salvini. Fugge da un porto di morte»

Dottore, come ha avuto quelle immagini? 
«Me le hanno date i migranti che ho curato, in diverse occasioni, quando ho cercato di capire da dove originavano le tremende ferite rimediate». 
Cosa ha visto? 
«Ustioni, scuoiamenti, torture con bastoni, decapitazioni. Sono scene inguardabili. Guardi, io ho assistito 300mila migranti e probabilmente ho un altro triste primato: sono il medico che ha dovuto compiere più ispezioni cadaveriche. Ma davvero, non si può restare impassibili davanti a queste immagini. È proprio troppo». 
In quale occasione ha consegnato i file al cardinale Montenegro? 
«In diverse occasioni. Il cardinale, d’altronde, aveva anche altro materiale simile. Con Montenegro, persona di straordinaria sensibilità, ho un grande rapporto. Lui è venuto più volte a Lampedusa e ha assistito agli sbarchi, ci siamo incontrati per un convegno in Sardegna poche settimane fa. Gli ho dato i video che erano nei cellulari dei migranti assieme ad altre foto che ho scattato in ospedale per documentare le condizioni fisiche di questi disperati: le ustioni da carburante, in particolare, sono terribili. Ho visto persone sfigurate, irriconoscibili». 
Sapeva che quelle testimonianze sarebbero state inviate in Vaticano? 
«No. Sinceramente mi spiace un po’ che anche il Papa possa essere rimasto traumatizzato da immagini come quelle. Spero però che attraverso il Pontefice possa esserci maggiore sensibilità verso il dramma di questa gente – nigeriani, eritrei, somali – che diventa merce di scambio dei trafficanti libici». 
Il ministro Salvini sostiene che la Libia è un porto sicuro. 
«Quello è un porto di morte. Mi creda, questi migranti scappano proprio dall’orrore dei centri di detenzione libici, dove i trafficanti gliene fanno di tutti i colori, accanendosi per punizione o per diletto in particolare sui neri, sui subsahariani. La Diciotti, prima di far rotta su Catania, è rimasta 4 giorni a Lampedusa, dove sono sbarcati 13 fra bambini e malati. Quando hanno saputo del rischio di un ritorno in Libia si sono messi a piangere, a supplicare anche me». 
Cosa ha pensato poi vedendo la nave bloccata a Catania? 
«È stato disumano tenere a bordo tutti quei giorni migranti provenienti da queste esperienze drammatiche. Avevo firmato una petizione al capo dello Stato e a Salvini per farli scendere dalla Diciotti». 
Non pochi sostengono la linea dura di Salvini. Pensa ci sia un clima di intolleranza nel Paese?
«Gli italiani non sono cattivi, sono cattivamente informati. Sono vittime di un bombardamento mediatico continuo di chi parla di questi migranti come di violenti, malati, ladri di lavoro. C’è una campagna di odio basata sulla menzogna. È giusto lottare contro chi specula sull’accoglienza, non contro queste persone che fanno pure reddito, purtroppo in nero, e finiscono nelle mani della malavita. Parliamoci chiaro: i posti di lavoro li hanno fatti scomparire non gli extracomunitari, ma i governi - anche quello precedente - che hanno vessato gli imprenditori facendo chiudere tante aziende».
Lampedusa, un anno dopo la mancata rielezione della sindaca Nicolini, rimane un modello?
«Guardi, al di là dei suoi amministratori, quest’isola rappresenta un popolo straordinario, che ha sempre la porta aperta. Il nostro motto è scritto sul muro del molo Favaloro: proteggere le persone, non i confini».
(fonte: “la Repubblica” articolo di Emanuele Lauria del 29 agosto 2018)

Quei profughi martiri

Abbiamo visto, noi di Repubblica, i video dei lager libici che hanno spaventato il Papa. E forse perché è la prima volta nella Storia che un martirio, quello dei profughi, viene filmato, abbiamo chiuso gli occhi mentre i bastoni e i coltelli colpivano e trafiggevano un ragazzo nero. Ma l’audio non l’abbiamo spento e dunque abbiamo continuato a " vedere con le orecchie" quello che la vista non sopportava: il crac dei calci sulle ossa, i botti dei bastoni sul petto, sul viso e sulle gambe, tutti i suoni dell’orrore ortopedico. E poi, in un altro video, il lungo slash della coltellata soddisfatta, non quella secca dei macellai dell’Isis, ma il lavoro lento della lama che squarcia, del machete che decapita a brandelli, e il ghigno del torturatore che prima acciuffa per i capelli la testa senza corpo e poi scalcia il corpo senza testa. 
La seconda volta, quando abbiamo guardato quei video per raccontarli, li abbiamo al contrario frugati con gli occhi, per cercarvi un senso che non abbiamo trovato. Perché l’orribile che emerge dal fango dei secoli ci ha insegnato che al contrario del rifiuto, dell’indignazione e dello scandalo, c’è l’intelligenza, c’è il capire, c’è la luce che qui non vediamo. Sappiamo infatti cosa accade nei lager libici, ma non capiamo perché. 
E come possiamo, adesso che abbiamo visto, ancora pensare di rimandare in quelle camere di tortura i profughi che si sono guadagnati con la fuga il destino di superstiti, che sono scampati alla ferocia dell’uomo che sarebbe troppo facile definire uomo-bestia? 
Ci accapigliamo sul tema politico dell’immigrazione: le quote, l’Europa, i conteggi, i controlli, le navi, le leggi. Poi arrivano questi video e scopriamo la fisicità della tortura. Li guardiamo senza più la mediazione della logica, ne percepiamo solo l’efferatezza e la bruttura. E saltano i ragionamenti, spariscono i distinguo del "però questo è un problema complesso". Ecco dunque la banalissima verità che sta dietro ai nostri dibattiti, al nostro accapigliarci sull’identità e sulle frontiere: il dolore qui è troppo evidente per essere argomentato. E si spiega da sé quel che può provare un ragazzo che striscia, si contorce, è ridotto a scarafaggio, con la carne che diventa poltiglia mentre attorno a lui si allargano le chiazze di sangue. C’è una giovane donna costretta a tenere fermo con le mani un mattone che le mettono in testa. In ginocchio, con gli occhi pieni di paura, aspetta che la colpiscano, che rompano il mattone con un grosso bastone. Poi si accaniscono con i pugni sul viso e sugli occhi e intanto ridono, si incoraggiano e, tutti insieme, tengono ferma la ragazza che trema, forse cerca sollievo nelle convulsioni, si irrigidisce, occhi fissi e lacrime a dirotto. Sono almeno cinque a picchiare il corpo rantolante. E chissà dov’è finita la ragazza, chissà se con la pompa hanno lavato via quel che restava di lei, o se invece le torture le hanno guadagnato un posto sul barcone. E forse è annegata o forse il suo corpo umiliato e maltrattato è stato raccolto da qualcuno e magari c’è anche lei con quelli che ora non vogliamo in casa nostra. Credetemi: nella sofferenza di quella donna, come ha certamente notato il Papa, c’è un surplus di mistero, di umanità e di spiritualità. Quei corpi avviliti, anche in questi orribili video, appaiono — è difficile da dire — più belli e più normali dei corpi sformati degli aguzzini che li torturano non solo per terrorizzare gli altri schiavi e per convincere i loro parenti a pagare il biglietto della speranza sempre più disperata, quella del Mediterraneo. Basterebbe infatti molto meno per mettere paura. Rimangono dunque indecifrabili questi carnefici, vigliacchi macellai da scannatoio, che consumano sghignazzando i loro crimini in una scenografia degradata di sporcizia e di mura sbrecciate. Perché lo fanno? Questi demoni libici non somigliano all’invenzione letteraria e morbosa di Sade, non sono i razzisti del genocidio etnico alla Miloševic, gli sterminatori del Ruanda, i fanatici di Pol Pot... Ed è forte il sospetto che siano loro stessi ad avere girato le immagini, o ad avere permesso ai profughi di girarle, non solo per spaventare e ricattare, ma per grottesco orgoglio di sé. Ci sono infatti primi piani dei torturatori che, in qualche fotogramma di vanità e compiacimento, escono dall’ombra per far vedere che facce hanno i bastoni e le lame. E colpisce la perdita di quella coscienza che sola permette di provare orrore di sé. Ma sarebbe troppo facile dire che senza di quella non c’è più l’uomo, ma qualcosa d’altro al suo posto. Sono uomini purtroppo, e non si nascondono più. 
I nazisti torturavano in remoti boschetti, in appartamenti fuori mano — Birkenau vuol dire "bosco di betulle" — e la polizia stalinista nei gulag inaccessibili della Siberia, dove anche lo sputo gelava in aria. Di nascosto, perché si fingevano buoni. Avevano la coscienza del misfatto e dunque nascondevano la storia cancellando le tracce nel recondito e nell’indefinito. È invece, come dicevamo, la prima volta che un martirio viene ripreso in diretta. Nessuno infatti può vedere e rivedere i corpi dei cristiani mentre vengono sbranati dai leoni nel Colosseo. Abbiamo visto fucilazioni, esecuzioni di massa, terribili immagini di guerra, le decapitazioni e gli sgozzamenti dell’Isis esibiti come propaganda, ma non ci sono video di Auschwitz, con le torture e i forni crematori dal vivo, non esistono immagini di Mengele girate "durante" il suo lavoro. Alla Lubianka nessuno aveva cineprese e l’Arcipelago Gulag non è stato documentato con il telefonino. Persino da Guantanamo sono arrivati solo fotogrammi, i cani al guinzaglio, le divise, i fili elettrici sui corpi, le teste incappucciate. E mai nessuno ha visto il piccolo Di Matteo dentro la vasca che Brusca aveva riempito di acido. Tutto è stato ricostruito al cinema, in pittura, nei libri e nei giornali. I testimoni hanno raccontato anche i dettagli, ma non c’erano gli smartphone a Dachau. Neppure le ferocie inflitte dai narcotrafficanti in Sudamerica, che pure sono state registrate, erano mai state divulgate. In un’intervista del 1983, sul tema della memoria chiesi a Leonardo Sciascia cosa distingueva l’uomo dagli altri animali. Passammo in rassegna le risposte: dalla fede in Dio al riso, dall’uso delle mani per costruire e per distruggere al suicidio... Infine tornammo alla memoria. E Sciascia disse che forse non la memoria — ché ce l’hanno tutti gli animali, e anche le piante, l’acqua, le pietre — ma la registrazione della memoria fa la differenza. Vale a dire l’annotazione di quel che accade, la scrittura dunque, in tutte le sue varie forme, dal puntino rosso trovato sulla parete di una caverna preistorica ai geroglifici e all’alfabeto digitale su carta e perciò alla stampa, sino allo smartphone, che lui non conobbe, e a questi video che documentano quel che rischiamo di diventare, quel che stiamo diventando.
(fonte: “la Repubblica” articolo di Francesco Merlo del 29 agosto 2018)

In rete potete trovare alcune immagini di un video, che è stato mostrato anche al papa, realizzato di nascosto in uno dei campi profughi in Libia. Le trovate anche sulla home page del Dubbio. Il video mostra i profughi che vengono letteralmente e barbaramente torturati. Col fuoco, con le fruste, sono legati a un palo o alle inferriate della finestra, per i piedi, e lasciati penzolare a tre a tre. Un orrore spaventoso. Si sentono i lamenti, le urla, si sentono i prigionieri che invocano i nomi dei loro parenti, si vedono i loro corpi contorcersi per il dolore. Vengono in mente i lager, anche se la storia dei lager è una storia del tutto diversa. Stavolta l’Europa non può far finta di non vedere i lager e le torture in Libia.
...

Non credo che esista nessuno, qui in Italia, che dubita del diritto di quelle persone a considerarsi profughi. E non vedo perché ci dovrebbero essere divisioni politiche. L’ideologia ora non c’entra niente. Né c’entrano gli schieramenti parlamentari. O la possibilità di migliorare o peggiorare la propria posizione elettorale. l’Italia, se è un paese serio e se è, come è sempre stata, una delle civiltà più avanzate del mondo, può solo ritrovarsi unita in questo frangente. Sarebbe pura follia affidarsi ancora alla Libia per ridurre gli sbarchi da noi. Dopodiché possiamo discutere quanto vogliamo, e litigare, e dividerci, a azzuffarci su se la linea giusta sia quella di aumentare le strutture dell’accoglienza o quella dei respingimenti. Quello sul quale non credo possano esserci divisione è la certezza che in Libia non può essere più respinto nessuno. E che le migliaia di profughi che ora sono abbandonati nelle mani dei torturatori devono essere salvati e portati via da quei lager. Noi non sappiamo quanti sono, non sappiamo quanti già ne abbiano ammazzati, dopo averli torturati. E’ moplto probabile che si tratti di diverse migliaia di persone. Che sia stata già consumata una ecatombe.

E’ del tutto evidente che il problema non può essere solo italiano. E’ un problema gigantesco per l’Europa, per la sua civiltà, per la sua credibilità, per il suo futuro. L’Europa si porta appresso l’ombra vergognosa del secolo scorso, quando chiuse gli occhi sulle persecuzioni naziste e fasciste ai danni degli ebrei. Non può ripetere il peccato di omissione. Non c’entra niente qui se si è sovranisti o globalisti, leghisti o socialisti, se si sta con Orban o con Soros. E’ un problema di umanità e di diritti essenziali, e cioè un problema che riguarda tutti nello stesso modo.


Guarda il video editoriale di Piero Sansonetti del 28/08/2018


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